Non smette di ronzarmi nelle orecchie l’ultima frase di questo bel articolo del Newyorker sul modo di comunicare il vino: “At the end of the day, we’re selling poetry”. Che è poi un modo elegante e altisonante per raccontare il fallimento della presunzione di oggettività della degustazione.
Nel post si mette in luce la mutazione della descrizione dello stesso vino (Château Haut-Brion) da parte del noto critico James Suckling: da una singola, semplice frase (quando effettuata nel 1992) a ben sette frasi, intricate di richiami al tabacco, cioccolato al latte e cedro, nel 2009.
L’esempio è esemplificativo di un trend: in realtà le note di degustazione immaginifiche sono una invenzione relativamente moderna: ai tempi di Roma e antica Grecia e fino al diciannovesimo secolo ci si limitava a vergare dei giudizi di valore sul vino, tralasciando quasi completamente la descrizione organolettica.
Il lessico della moderna critica enologica è stato recentemente influenzato in maniera determinante da Ann Noble, chimica sensoriale presso il Department of Viticulture and Enology della Università di Davis California, che nel 1984 pubblicò la “Ruota dei sapori”, una rappresentazione circolare di descrittori, organizzati in categorie, da utilizzare nel raccontare gli aromi del vino (per la cronaca, il termine “minerale” non era presente).
L’intento della Noble era proprio quello di incoraggiare l’uso di termini specifici ed analitici e di fornire un lessico comune, ma dopo decenni possiamo concordare che lo sforzo non ha sortito gli effetti sperati: le descrizioni di un vino sono quasi sempre cariche di riferimenti non tanto ai “gusti” del prodotto, quanto ad elementi che nella nostra immaginazione individuale sembrano bene adattarsi a lui. Non solo: una ricerca dimostra che i vini più costosi ottengono quasi sempre narrazioni ricche di descrittori più specifici e di termini più pomposi a parità di significato.
La Guild of Sommeliers ha pubblicato un lavoro con il quale si suggerisce di utilizzare il nome dei composti chimici responsabili dei particolari odori del vino, quindi ecco “pirazine” e “tioli” al posto di “erbaceo” e “frutto della passione”.
Tentativo interessantissimo, ma lo stesso redattore della pubblicazione è ben
consapevole che questa metodologia toglie gran parte della poesia alle descrizioni, poesia che è poi uno dei principali veicoli commerciali del vino: “At the end of the day, we’re selling poetry.”