La Trattoria della Posta a Monforte: elegante tradizione.

Sulla strada che esce da Monforte d’Alba, a poche centinaia di metri da Flavio Roddolo, c’è un ristorante che serve i visitatori della Langa da lungo tempo (il sito dice dal 1875); la Trattoria della Posta è ubicata in una villetta che sorge sul dorso di una collina, regalando quindi un invidiabile panorama ai clienti della sala da pranzo, e la famiglia Massolino ha arredato l’interno con sobria eleganza: tappeti, cassettoni e mobili in legno, un bel camino con accanto tanti libri da sfogliare… più che in un ristorante, sembra di far sosta nel salotto di una zia leggermente attempata ma facoltosa e di buon gusto.

Del resto quello che il visitatore chiede (o perlomeno, quello che io chiedo) ad un ristorante nelle Langhe è proprio questo: una cucina tradizionale, ben fatta, con materie prime di qualità, presentata con discreta eleganza, una proposta di vini adeguata al luogo, e un prezzo abbordabile.

Più o meno tutto quanto sopra è stato rispettato in questo mio primo appuntamento alla Trattoria della Posta, avvenuto un martedì a pranzo (mi aspettavo il deserto, e ho invece trovato una discreta presenza di turisti stranieri); come sempre in questi casi, mi affido al menu degustazione per due motivi: piatti “collaudati” e prezzo contenuto, e, se possibile, accompagno il tutto con un abbinamento al bicchiere. Accordato.

Poco da eccepire sul menu, con alcune punte di eccellenza (la cipolla al forno ripiena di Murazzano e salsiccia di Bra, molto saporita ma senza scivolare nel salato, e i tajarin al sugo di carne, delicatissimi); più deboli mi sono sembrati i dolci (buoni, per carità, ma un po’ “scolastici”), e, forse viziato da una moda imperante, mi sarebbe piaciuta una selezione di pane più varia.

Qualcosa da dire invece sui vini al bicchiere: un Arneis, una Barbera e un Barbaresco. Forse il problema è stato quello di aver frequentato il ristorante il martedì (immagino che il grosso del consumo, e quindi dello “stappo” avvenga dal venerdì fino alla domenica sera, quindi la mia selezione era potenzialmente aperta da qualche giorno), ma il risultato è che ho ricevuto almeno due bicchieri discutibili: al momento del servizio della Barbera ho annusato con un certo stupore il bicchiere, la proprietaria, vedendomi perplesso, si è accorta che qualcosa non andava prima che aprissi bocca e ha provveduto a stappare una nuova bottiglia (tra l’altro, menzione di merito per la meravigliosa Barbera di Rinaldi).
Il Barbaresco non era nelle stesse condizioni disastrose, ma comunque abbastanza “andato”, e avrebbe meritato pure lui la sostituzione: non l’ho chiesta, non mi piace farlo, quindi colpa mia.

Ecco, questo ultimo punto mi è sembrato particolarmente strano e fastidioso: un ristorante di ottimo livello, con un servizio attento e cortese (sono stato seguito dalla titolare e da una   giovane donna evidentemente preparata ed esperta), che si preoccupa persino di avvinare i bicchieri prima del servizio, credo abbia il dovere di annusare quello che porta in tavola e ritirare i prodotti non del tutto a posto senza che sia il cliente a doverlo chiedere.
Immagino siano molti i clienti che dalla cantina ben fornita e dai prezzi corretti, scelgono bottiglie di prestigio di costo non banale, e che nei loro confronti ci sia più attenzione, ma non mi pare comunque giusto.

In conclusione, a parte questa pecca relativa ai vini, mi sono trovato bene e ho speso il giusto in un locale che, oltre ad una buona cucina, ha dalla sua un panorama meraviglioso e una piacevole eleganza, non formale e stucchevole.

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E’ ora di distruggere quel briciolo di reputazione che mi resta e diventare definitivamente un eno-paria; confesso i miei peccati facendo coming out e dichiarandolo pubblicamente: a me, spesso, la mitizzata “visita in cantina” provoca una noia degna della visione coatta di un paio di puntate di Porta a Porta.

Ti emoziona vedere l’ennesima linea di imbottigliamento? Ti interessa davvero la lista dei materiali eco-compatibili con cui è stata costruita la cantina all’avanguardia di turno?
No, perché diciamolo: sovente la routine è: occhiata alla vigna (che avevi visto altrettanto bene prima di suonare il campanello), giro in cantina, banco di assaggio, acquisto. Fine, per fortuna.
Il tutto condito da qualche massima che già conoscevi, avendo letto tutto del produttore su varie guide e siti, e da molti sbadigli.

Vado oltre, e confesso anche di non avere il mito della campagna e dei bei vecchi tempi andati, dei quali sembrano nutrirsi molti appassionati di vino, magari mentre vanno in pellegrinaggio in Borgogna con l’aereo o con il SUV.
Mi spiego: nulla in contrario alla tradizione e ai suoi riti, ma non posso dimenticare che lo stato di natura dell’uomo è vivere (temo in modo non particolarmente piacevole) prima nelle grotte e poi sulle palafitte, dove non mi risulta fossero disponibili salotti con cantinetta termo-condizionata e umidificata per conservare bottiglie di Monfortino.
Insomma, la tanto bistrattata modernità direi che qualche progresso ce lo ha fatto fare: mio nonno, uomo mite e nato contadino, quando sentiva recitare il classico luogo comune “come si stava bene una volta in campagna, quando non avevamo niente”, si incazzava e rispondeva che la vecchia cascina era disponibile e potevano andarci quando volevano sul monte, senza corrente elettrica e senza acqua in casa, a soffrire il freddo e a sfamarsi con la polenta tutti i giorni.

Roddolo vigne 2Tutto questo lungo preambolo, che spero perdonerete, per dire che nei giorni scorsi sono stato da Flavio Roddolo, produttore di nicchia assai raccontato e mitizzato in certi ambienti (Scanzi in primis), e che quando mi avvicinavo da Monforte verso la Frazione Sant’Anna, Bricco Appiani, stavo cercando di far chiarezza nelle mie aspettative.
Avrei trovato l’ennesima declinazione del Contadino All’Antica con la tv satellitare? O del Vignaiolo Etico che ti racconta di come ama api e insetti nei filari?

Poco tempo per riflettere, appena metto piede fuori dall’auto sbuca fuori casa un omone barbuto, insospettito dal rumore di automobile; una stretta di mano frettolosa e mi chiede se voglio vedere la cantina (che poi sarebbero due: una, quella vecchia, un piccolo antro con ammassate alcune barrique e un paio di scaffali di bottiglie vecchie, e l’altra più grande e nuova, tanto umida da avere il pavimento praticamente zuppo e pericolosamente viscido).

Roddolo Cantina 3Le parole arrivano con parsimonia e sincerità; sono quelle con cui l’omone risponde alle domande: le barrique le ha sempre usate perché ha poca uva e a volte le botti grandi sono, appunto, troppo grandi ed è un problema, e le vecchie bottiglie le conserva in piedi perché le avevano messe via così, non pensando di conservarle per venti, trenta o quaranta anni, e insomma perché spostarle?
Una breve sosta all’aperto, dove mi mostra fin dove arrivano i suoi vigneti e poi, lamentandosi della temperatura che non gli consente di imbottigliare il dolcetto, entriamo in casa per assaggiare qualcosa.

Roddolo Cantina 1Così sorseggi, scaldandoti dal freddo di una giornata che appartiene più all’inverno che al mese di Aprile, davanti ad un signore dall’aria severa, che ti fa accomodare, ti serve bicchierate pantagrueliche del suo vino (senza raccontartelo: grazie a Dio non spende una parola su mineralità, acidità, terroir e lieviti), dimentica di porgerti il cestino con i grissini, e magicamente (ma tutto sommato non del tutto inaspettatamente) si mette a parlare di mille argomenti, come se infondo gli facesse quasi piacere averti in visita, e infatti ti tiene oltre due ore nelle quali ti getta dei frammenti di verità, raccontando di come, ai tempi di suo padre, al mosto si aggiungesse talvolta zucchero e/o sale, del rifiuto di andare alle varie manifestazioni (“sono stato tre o quattro volte al Vinitaly, me lo avevano chiesto degli amici, ma dopo qualche ora me ne sono andato. Adesso non vado più, ho troppo da fare.”), della passione per la caccia (trascurata), della difficoltà burocratiche e legislativa di poter assumere aiutanti e soprattutto, con un pizzico di commozione, delle tre bottiglie di dolcetto del ’67 che ha ritrovato recentemente (forse il suo primo vino; una dice di averla stappata da poco e di essersi stupefatto trovandolo ancora perfetto).

Ancora, si apre senza problemi raccontando del perché delle vigne di cabernet (“negli anni ’90 lo volevano tutti”), della assurdità della moda con cui si insiste sulla solforosa, mentre magari si assaggiano in batteria 100 vini, e invece il vino è fatto per essere bevuto poco e durante i pasti, altrimenti fa male, e delle repentine conversioni al biologico di tanti colleghi, avvenute in cinque minuti, mentre lui per eliminare gli insetticidi ci ha messo anni.

Prima di congedarti, ti offre un bicchiere di bianco da uva Favorita che ha fatto per lui,  dice che lo ha lasciato in damigiana per 10 anni(!) (“continuava a fermentare, lo ho lasciato andare e poi l’ho dimenticato”) e lo ha imbottigliato da poco, dopo averlo portato ad analizzare per curiosità.
Ovviamente è meraviglioso: oro, aromatico, caldo, fresco, pieno, mi ricorda alcuni importanti friulani, e solo in questo momento, per un attimo, pensi che forse ti stia prendendo in giro, che non è possibile, e che forse ti ha ingannato con una recita ben architettata; poi lo vedi con quella faccia, dura ma gentile e tranquilla, e passa subito.

Comperi le tue due cassette di vino, paghi e te ne vai a pranzare, che è quasi l’una. Tornerai tra 10 minuti perché hai dimenticato la macchina fotografica: dovrai suonare a lungo e verrà ad aprirti in tuta da lavoro: “Come, non mangia?”. Risposta: “Eh, c’è da fare”.

Roddolo vigne 1Ah, I vini?
Fate voi, non ho certo tirato fuori il libricino per prendere appunti, mi sarei sentito oltremodo ridicolo e imbarazzato; ad ogni modo, sarà stata la suggestione della Langa e del personaggio, ma mi sono sembrati tutti speciali, dal Dolcetto superiore (senza dubbio il dolcetto più piacevole e particolare mai assaggiato, pur restando invidiabilmente austero), passando per la ricca freschezza della Barbera e per uno stupefacente Nebbiolo, sicuramente ben superiore a tanti Baroli rinomati e di ben altro prezzo, per finire con il Barolo (che, pur implorandoti di esser messo via per altri dieci anni, è già godibile fin d’ora) e con il Cabernet (di grande spessore e complessità, dal quale emerge un varietale netto ma non stucchevole).

La prima conclusione è che Roddolo non è un sofisticato gentiluomo di campagna o un vignaiolo furbamente affabulatore, semplicemente è un contadino che sembra davvero amante della sua campagna e che ci tiene a fare un buon vino, e l’unico metodo che considera adatto per produrre le sue ventimila bottiglie l’anno è quello che ha visto usare da suo padre.

La seconda conclusione è che confesso un leggero moto di imbarazzo nello scrivere queste righe: cosa c’è di più distante della moderna vanità di un blog personale dalla imperturbabile semplicità di un vignaiolo che ancora possiede un vecchio telefono, di quelli della SIP, grigi e con la rotella per selezionare i numeri?

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