Troppo noioso riprendere per l’ennesima volta la storia di Walter Massa da Monleale, che a metà degli anni ottanta ha preso un vitigno a bacca bianca, dalla maturazione piuttosto precoce e dalla resa “difficile”, quasi dimenticato (spesso in favore del più produttivo Cortese) e poco considerato, e con il solo aiuto della sua caparbietà lo ha fatto diventare uno dei più importanti d’Italia.
Parliamo ovviamente del Timorasso, un autoctono dei colli Tortonesi, trasfigurato dall’istrionico e lunatico Massa (e chi ha avuto modo di scambiare con lui qualche parola può confermare gli aggettivi) in un vino dal grande potenziale di invecchiamento, di ottima personalità, di robusta struttura e alcolicità.
Non solo, Massa ha pensato anche di omaggiare maggiore dignità alle sue bottiglie declinandole in una versione “base”, Derthona, e in ben due cru, Sterpi e Costa del Vento.
E allora partiamo con l’assaggio, ma non senza prima aver notato la brutta apertura: il tappo è molto secco, rigido, non elastico. Temo il peggio, e alla luce di tre o quattro stappature infelici negli ultimi mesi non posso non pensare che quando la finiremo col sughero sarà sempre troppo tardi…
Denominazione: Colli Tortonesi
Vino: Costa del Vento
Azienda: Walter Massa
Anno: 2004
Prezzo: 35 euro
Nel bicchiere è giallo dorato, luminoso e compatto, con archetti fitti e profondi che lasciano intuire grande materia.
Da questo momento in poi partono due racconti di due vini diversi: la bevuta si è infatti completata in due serate: nella prima il Costa del Vento ha naso da campione, con netti richiami ad idrocarburi nobili da riesling renano frammisti a cera d’api e frutta matura: persino troppo intenso.
Purtroppo in bocca, accanto ad una notevole struttura, ad un bel calore alcolico e ad una notevole lunghezza, i richiami aromatici percepiti olfattivamente sono accompagnati da una nota ossidativa e passita piuttosto invadente che rende la bevuta stancante dopo pochi sorsi. Imputo la colpa al tappo, smoccolo e attendo la seconda serata.
Il giorno seguente i profumi si sono calmati, in particolare la nota idrocarburica resta molto più sottotraccia, lasciando spazio persino ad un tocco di floreale ma in particolare ad erbe aromatiche.
In bocca la fastidiosa ossidazione si è molto riassorbita ed è emersa una sapidità che accompagna bene il calore, in un connubio quasi bruciante.
Restano evidenti la grassezza e la possenza del sorso.
Il vino si è accomodato, nel bello e nel brutto: la nota distonica è quasi scomparsa ma il complesso naso-bocca si è molto normalizzato, affievolendo quella esuberante terziarizzazzione che lo trascinava prepotentemente fuori dagli schemi.
A questo punto è evidente che vorrei riprovare una seconda bottiglia dello stesso millesimo…
Il bello: vino di gran forza e materia
Il meno bello: enigmatico nei suoi camaleontici due giorni così diversi