In fondo non era così imprevedibile pensare che l’autodistruttivo yuppie protagonista de “Le mille luci di New York”, cocainomane frequentatore di locali alla moda negli anni ’80, con la maturità si sarebbe convertito ai più borghesi piaceri delle bottiglie di gran nome, fascino e relativo prezzo.
Stiamo parlando ovviamente del personaggio senza nome creato nel 1984 da Jay McInerney per il suo folgorante esordio “Bright Lights, Big City” (“Le mille luci di New York”, nella poco felice traduzione italiana), simbolo del post-minimalismo americano assieme agli altrettanto notevoli esordi di Bret Easton Ellis e Tama Janowitz.
Romanzo agilissimo, in cui si sviscerava l’ambiguità della vita sfavillante e disperata dei giovani arrembanti e carrieristi nei rutilanti anni ’80, tratteggiava con metodo il fastidio misto a sottile piacere della vita metropolitana dissoluta, repressa nei sentimenti e annegata nella solitudine pubblica.
Autore: Jay McInerney
Titolo: I piaceri della cantina
Editore: Bompiani
Prezzo: 18,50 Euro
E proprio di McInerney lo scorso anno è andata in stampa la traduzione italiana de “I piaceri della cantina”, una raccolta di brevi articoli sul vino, scritti in origine per il New York Times.
Il formato antologico se da un lato è il limite del volumetto (non c’è una vera e propria trattazione organica, un pensiero forte, una tesi da svolgere), dall’altro è anche motivo di agilità, rendendo possibile ad esempio la lettura disordinata dei capitoli
Si intuisce che McInerney è un appassionato autodidatta che, grazie alla sua agiatezza, ha giovato di ottimi assaggi e altrettanti viaggi e, leviamoci il dente dicendolo subito, che è bravo davvero!
Infatti sforna pagine acute, precise ma alleggerite da accenni ironici e da qualche aneddoto e citazione, senza annoiare coi tecnicismi o con estenuanti analisi organolettiche, ma allo stesso tempo evitando di scadere nel banale: un sonoro schiaffo in pieno volto alla stragrande maggioranza degli eno-scrittori professionisti, di solito pedantemente in bilico tra il didascalico sport dell’intarsio del capello e il lisergico affastellare dei descrittori.
Insomma, si vede chiaramente che McInerney gioca un altro campionato, e scorrere quelle pagine dopo il quotidiano spulciare dei blog enoici dà la sensazione di assistere a Germania-Brasile subito dopo essersi sorbiti novanta minuti di controlli sbagliati, rimpalli e calcioni in un derby di Terza Categoria regionale…
Altro punto a favore per noi lettori italiani, una visione internazionale del fenomeno vino: si parla certo di Francia e Italia (e comunque di Europa), ma ci sono tanta Australia, Nuova Zelanda, soprattutto tantissimi (troppi?) Stati Uniti, e comunque non non si cerca la verità apodittica sullo scibile vino (per l’Italia, per dire, si parla tra gli altri di Soave e Friulano ma non di Barolo e Barbaresco) e, essendo stato scritto prima del 2006, manca la contemporanea ossessione su biologico e biodinamico (certo, se ne accenna, ma vivaddio con distacco).
Qualche esempio dei temi che ho trovato più godibili: si battono strade tutto sommato laterali con un bel capitolo su Bandol, si insiste spesso sul Riesling, si rivelano personalità di produttori statunitensi inedite e incomprensibili per noi europei, ci sono il profilo Alsaziano di Olivier Humbrecht e quello.mitico di Michel Chapoutier, si spande amore per un grosso calibro delle bolle come Salon così come per molti Champagne artigianali. C’è persino una piccola incursione nel passato dell’autore, non propriamente alieno alle droghe ricreative, quando si racconta delle virtù assenzio…
Una pagina curiosa è quella in cui si accenna al concetto statunitense di vino come performance: produzioni “one-shot” reperibili esclusivamente una tantum (filosofia recentemente mutuata dal mondo della birra: avessimo letto prima il libro avremmo potuto essere facili profeti).
Insomma, un volume dalla prospettiva esageratamente personale, godibilissimo per i neofiti e in una certa misura informativo anche per chi pensa di saperne di più, che riscatta con una prosa stellare alcuni passaggi discutibili. Oltretutto, contrariamente a quanto ho letto da qualche parte, credo anche utile a sfatare tanti luoghi comuni sugli americani: in più parti si trovano ad esempio parole non accondiscendenti sulle superconcentrazioni e sulla robustezza dei vini, e si celebra l’ossessione terroiristica della Borgogna…
Il bello: la scrittura! La propettiva differente da quella cui siamo abituati
Il meno bello: troppe pagine dedicate a prodotti extra-europei (in particolare i garagisti USA) che non conosciamo e non potremo mai reperire