Ne ha parlato recentemente Enofaber, e quelli come noi che hanno uno spazietto su internet nel quale si divertono a scrivere qualche impressione su vino e cucina conoscono il fenomeno: appena hai qualche articolo e qualche lettore (ma ne bastano davvero pochi), ti arriva una mail a proporre il famigerato “sponsored post”, ossia qualcuno che chiede di parlare (bene) del suo prodotto in cambio di spiccioli.
La risposta ovvia è “no, grazie”, perché lo scopo originale del sito è diverso; fuori di ipocrisia, è chiaro che se il conquibus proposto fosse esponenzialmente superiore si potrebbe pensare di trasformare il blog in un prodotto editoriale: non ci sarebbe nulla di male ma si tratterebbe di una cosa diversa.
Così come non ci sarebbe nulla di male se qualcuno di noi piccoli peones della tastiera decidesse di pubblicarli, questi benedetti post sponsorizzati: l’importante sarebbe mantenere ben chiara la distinzione tra contenuti a pagamento e riflessioni personali.
Del resto su questo spazio (e su molti altri) già vige la consuetudine di esplicitare quanto paghiamo ogni bottiglia e di dichiarare i regali.
Non è solo una questione puramente formale (che comunque ritengo doverosa nei confronti del lettore): è che, in barba ad ogni pretesa di oggettività, sono profondamente convinto che la mia “piacevolezza percepita” sia inevitabilmente modificata dalla eventualità di un omaggio.
Il ragionamento, di per sé risibile per la sua prospettiva minuscola, ci consente di estendere lo sguardo alla critica enogastronomica nel complesso e di riflettere sulla sua credibilità.
Estremizzando, ritengo che in una ipotetica equazione capace di determinare matematicamente la qualità e la piacevolezza di un vino (o di una cena), nell’elenco delle variabili dovrebbe entrare (oltre al prezzo pagato) anche il reddito del degustatore.
Mi spiego: escludiamo pure malafede e recensioni comperate, ma è così irreale pensare che se io vado a mangiare da Bottura (investendo un terzo del mio stipendio mensile e quindi potendomelo permettere forse una volta l’anno), avrò aspettative e idee di perfezione ben diverse da chi si siede a certi tavoli una volta la settimana, addirittura a fine serata non apre il portafogli e comunque gode di attenzioni riservate ai volti ben noti dei recensori famosi e conosciuti nell’ambiente (la portata fuori carta, il servizio certamente puntuale eccetera)?
Capisco che chiedere la dichiarazione dei redditi sia troppo, ma perlomeno, cari professionisti e semi-pro, siate trasparenti e ditemi chi paga; scrivetelo chiaro (e magari pubblicate la foto dello scontrino o della fattura) se la bottiglia in questione è arrivata in omaggio, la ha pagata la casa editrice o avete tirato fuori i quattrini di tasca vostra.
Semplicemente, ditemelo quando sniffate il vino da 250 euro, e poi io farò la tara che ritengo opportuna alle vostre mirabolanti degustazioni da punteggio 95 e superiore (immancabilmente definite “commoventi” o “da lacrima”).
Mi interesserebbe sapere se una azienda che vuole promozionare una certa bottiglia, ha invitato il recensore sul posto e ha pagato viaggio, albergo e cena… mica per altro: temo che l’indulgenza al giudizio favorevole sia decisamente inferiore nel caso di prodotto comperato dall’enotecaro scorbutico a 80 euri (risparmiati bastonando con decisione la moglie che voleva investire il tesoretto in un nuovo taglio di capelli) e portato a casa facendo a cacciavitate nel traffico.
E’ curioso che tra molti di noi bloggers dilettanti ci si diano regole ben più severe di quelle seguite dai “professionisti” (che, ricordiamolo, sono coloro che mangiano e bevono per mestiere, e da questa attività traggono profitto): noi paghiamo le bottiglie, paghiamo la benzina o il treno per andare alle manifestazioni, paghiamo l’eventuale pernottamento, paghiamo le cene, dichiariamo quando ci regalano un vino da 15 euro al pubblico e ci indigniamo pubblicamente quando ci propongono lo sponsored post. E i professionisti?
E’ ingenuo domandarsi come mai a fronte di un solo Valerio Visintin, l’unico critico gastronomico “invisibile” di cui nessuno conosce le fattezze, ci sia uno stuolo di recensori che danno del tu ai cuochi? Ed è così folle chiedersi come mai i suoi colleghi “con la faccia” non amino granché l’anonimato?
Un paradosso: professionisti della critica enogastronomica, non metteteci la faccia ma il portafogli.