Leggo su Cronache di Birra che la Brewers Association ha (nuovamente) rivisto i criteri che regolamentano la definizione di “birra artigianale”, spostando ancora una volta i paletti che dovrebbero normare questa categoria sfuggevole.
In Italia, nonostante la dicitura sia ormai un ottimo argomento di marketing e sia sulla bocca di tutti (nonché nei menu di moltissimi pub e ristoranti), dopo un primo momento pionieristico in cui si parlava di “birra non filtrata e non pastorizzata”, ormai neppure ci si prova più a specificare a cosa ci si riferisce quando la utilizziamo, tanto è vero che è persino vietato piazzarla in etichetta…
Da tempo sostengo l’inutilità di questa definizione: la birra è il risultato di varie lavorazioni di materie prime (luppolo, malto. acqua, lievito) che assai raramente (per non dire pressoché mai) sono coltivate da chi produce il prodotto finito; queste trasformazioni possono essere svolte più o meno manualmente, ma anche nei birrifici più piccoli sono sempre più meccanizzate (e per fortuna: non vedo quale miglioramento qualitativo possa derivare dalla etichettatura manuale delle bottiglie, o dal cercare di mantenere la temperatura corretta accendendo e spegnendo freneticamente un fornello, o dal mescolamento del mash tramite la forza umana).
Da quanto sopra consegue che, potenzialmente, tanto la produzione dei classici 20 litri casalinghi, quanto quella di 200 ettolitri può avere la medesima qualità finale. Ne fanno fede proprio gli eccellenti prodotti di alcuni birrifici USA che sfornano quantità sterminate di bottiglie, mantenendo un ottimo livello organolettico (es. Sierra Nevada).
Non a caso la regolamentazione della Brewers Association riguardo la “craft beer”, pur cercando di delimitare l’area di applicazione della etichetta, non fa riferimento alla qualità del prodotto finale o alle metodologie di produzione: “An American craft brewer is small, independent and traditional”.
Per quanto riguarda lo “small”: già in passato a causa del successo dei birrifici craft USA, il limite produttivo annuale era stato alzato a livelli che per noi italiani risultano stellari (6 milioni di barili) e, non bastasse, ora si aggiunge anche la postilla del 3% di tutto il venduto negli USA, lasciando pensare ad un innalzamento quasi automatico del limite dell’artigianale all’incrementarsi del mercato complessivo.
Il secondo tassello della definizione è il termine “indipendente”: meno del 25% del birrificio craft può essere posseduto o controllato da aziende del beverage alcolico che non siano esse stesse birrifici.
Il terzo termine, “tradizionale”, è così fumoso da essere totalmente inutile. Trascrivo da Cronache di Birra: “Un birrificio la cui parte principale di produzione è costituita di birre i cui aromi derivano da ingredienti brassicoli tradizionali o innovativi e dalla loro fermentazione”.
Detto francamente: cosa importa a me, consumatore, della quantità annua di litri venduti e se la proprietà del birrificio è di un gruppo alimentare che annovera nel suo catalogo anche succhi di frutta e merendine, visto che questi parametri non hanno alcuna incidenza sulla qualità finale del prodotto?
Per questo sono sempre più convinto che si debba evitare di utilizzare la dicitura “birra artigianale”, e ci si debba limitare a parlare di “birre di qualità”, facendo riferimento a qualità organolettiche superiori alla media.
Certo, il limite enorme di questa definizione è che ha valore non certificabile legislativamente, non derivando da un disciplinare di produzione; come tale non potrebbe essere utilizzata come discriminante tipologico da apporre in etichetta, a meno di non voler creare commissioni di assaggio riconosciute per legge o mostruosità similari.
Pazienza, sempre meglio di questo “artigianale” abbaglio collettivo.