La cena del sommelier Gennarino Carunchio

Gennarino CarunchioDa quanto tempo non provate una robusta, sana, ruspante invidia sociale? Non intendo una di quelle gelosie tipiche di questi tempi oscuri per la quale tu, disoccupato, provi odio nei confronti del tuo vicino di casa che ha ancora il salario da camionista, ma proprio quel desueto senso anni settanta di appartenenza ad un classe diversa, inferiore.
Insomma, da quanto non vi sentite Gennarino Carunchio?

A me è capitato la scorsa settimana.
Gradito ospite-Calimero ad una “cena prestigiosa” (si dice così, vero?) nella quale sono stati bevuti vini che definire colossali è un eufemismo, con la mia foga da eno-parvenu ho avventato per primo il naso nel bicchiere di un Margaux 1971 e mi è balzato alla mente De André: “La morte verrà all’improvviso, avrà le tue labbra e i tuoi occhi”, e, ho aggiunto, il tuo olfatto.
TAPPO!
Ho alzato timidamente la manina per comunicarlo agli altri commensali, che hanno concordato: è proprio tappo.

Ora, il mio elenco di smoccolamenti assortiti potete immaginarlo: quando mai ricapiterà a me, Carunchio Gennarino, di sedere nuovamente al desco dei Signori per assaporare il nettare divino? Ingenuamente pensavo però che anche i Re, nel loro piccolo, si incazzassero: è qui che sbagliavo, è qui che ho capito la differenza che corre tra me e gli Onnipotenti ed è qui che si è risvegliato il mio sopito stimolo alla invidia di classe.
Per farla breve, il proprietario della bottiglia non ha fatto un plissé e, con tutta la calma e la serenità del mondo, intercalando tra un discorso e l’altro, ha dichiarato sorridendo: “Pazienza, apriamo Château Ausone ’75”.
Stop. Nessuna litania sui santi o testata contro il muro. Questa è classe, caro Gennarino!

Facezie (insomma…) a parte, l’invito di un amico gentile (che mai potrò ringraziare abbastanza) mi ha permesso di imbucarmi all’evento; ovviamente ci tengo a raccontarvi tutto, così da farvi rodere il fegato alla grande e controbilanciare la mia invidia di cui sopra con un sapiente colpo di karma.

ChampagnePronti via: con gli antipasti abbiamo stappato due Champagne: Salon 1985 e Bollinger R.D. 1988.
Chi legge il blog conosce forse il mio amore per le bollicine, ma qui siamo fuori scala: intanto vini perfetti, senza ombra di sfregio da parte del tempo, che anzi ha contribuito ad evolvere il profilo gustativo verso vette difficilmente immaginabili.
In entrambi i casi la bolla è ancora vitale e copiosa, ma talmente sottile e delicata da risultare cremosa; Salon in particolare si presenta già dal colore, quasi ambrato, come qualcosa di “altro” rispetto ad un normale Champagne: trasfigurato in una dimensione a sé, nettamente evoluto ma sapido, complesso in maniera imbarazzante, con note che dal miele di acacia arrivano al caseario, passando per la canonica pasticceria. Monumentale.
Bollinger: appena versato parte più tranquillo, più Champagne nel colore e con un corredo aromatico meno ampio (si fa per dire) e meno intenso, ma dalla sua ha maggiore freschezza e mineralità e, nonostante una potenza superiore (immagino regalata dal Pinot nero) è forse più adatto agli antipasti. In ogni caso col passare dei minuti diventa più intrigante: si infittisce la sapidità e si rinforzano la crosta di pane e la mela ed esce un accenno di fungo.

Clos de BezeCon la prima portata è arrivato il signore e padrone incontrastato della serata: Chambertin Clos de Beze 1987 Luis Jadot.
Classico colore da Borgogna, scarico ma ancora vivissimo, è soprattutto l’olfattivo ad impressionare: c’è tutto quello che vi viene in mente e anche di più, il piccolo frutto, la terra, il bosco, il balsamico, il selvatico e persino un accenno di agrume maturo. Da manuale AIS sarebbe ampio, molto intenso ed eccellente. Da assaggiatore, chiudi gli occhi e sei in mezzo ad una collina francese. Stop.
In bocca è altrettanto perfetto: è caldo ma l’alcol non si sente per nulla, è fresco ma l’acidità non graffia, e il tannino è lieve e setoso.
Il Pinot nero nella sua massima espressione, una bottiglia aperta credo nel momento di massima grazia in cui nessun elemento spicca o ne sovrasta un altro e tutto si fonde in un insieme per descrivere il quale occorre, una volta tanto a ragione, scomodare il mitico termine “armonico”
In una parola: il Vino con la V maiuscola.
Nota a margine: il problema di una bottiglia del genere è che d’ora in poi ogni altro assaggio uscirà impietosamente demolito dal confronto: dovrò darmi al chinotto o alla aranciata.

Château AusoneDi Château Margaux e del relativo tappo abbiamo parlato, quindi passiamo a Château Ausone ’75. Vino enigmatico: arriva completamente muto, del tutto chiuso nonostante l’apertura effettuata due ore prima e la seguente scaraffatura.
Ci vorranno ancora molti minuti e tanti giri di polso per stanarlo: il colore è ancora giovanissimo e concentrato, finalmente escono gli aromi e c’è un sorprendente e nettissimo caffè, poi spezie in quantità e un tannino vivo, ben definito e piacevole.
Interessante, ma siamo ad anni luce dal Clos de Beze.

SauternesSi chiude la partita con gli erborinati, accompagnati da Château Suduiraut 1975.
I vini dolci non sono il mio terreno di gioco preferito, ma non posso fare a meno di ammirare la grandezza di questo Sauternes: alla vista colore carico, brillante e densità non eccessiva per la tipologia; al naso tutta la declinazione del muffato nobile, la frutta secca, l’albicocca disidratata, il miele, la frutta tropicale e soprattutto uno zafferano immenso, inarrestabile.
L’assaggio ripropone le stesse sensazioni dell’olfattivo, in più è lunghissimo, di una persistenza oltre ogni confine: trascorsa mezz’ora dopo aver mangiato i formaggi, avevo ancora lo zafferano in bocca…

In conclusione, che dire della serata?
Ho imparato sicuramente qualcosa, in primis che il sentimento dell’invidia mi appartiene e mi consuma nonostante io non voglia, ma a parte questo ho capito che esistono vini di una finezza che fino ad oggi avevo solo immaginato, e che purtroppo sono riservati a pochi, fortunati semi-mortali.
E mi sono accorto che, per noi Gennarini, una batteria di questo calibro è troppo, in particolare se abbinata ad una cena quasi altrettanto sontuosa: tutta questa grazia ti assale e ti sovrasta, e ti rende quasi incapace di capire e di godere appieno: non arrivo ancora a pensarla in toto come Francesca, ma quasi quasi…

 

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Bollinger Special Cuvée: classico senza tempo

Bollinger special cuveeGià dire che ti piace lo Champagne è da sboroni, ma aggiungere che uno di quelli che preferisci è Bollinger rasenta l’indifendibile.

La maison di Ay non è infatti uno dei piccoli récoltant-manipulant che vanno oggi per la maggiore, magari biologici o biodinamici, ma uno dei grandi marchi storici della regione: è stata fondata nel 1829, gestisce oltre 150 ettari di vigne ed è stata una delle prime a capire l’importanza del marketing (quale Champagne pensate bevano molti dei James Bond cinematografici?).

Quindi, a rischio di fare la figura del parvenu arricchito (magari…), mi sono fatto un regalo: ho investito 49 euro in una bottiglia di Bollinger Special Cuvée, uno dei vini che preferisco in assoluto.
Si tratta del prodotto base di Bollinger, come dice il nome stesso una cuvée, quindi un assemblaggio di diverse annate e diversi cru, composto da 60% Pinot nero, 25 Chardonnay, 15 Pinot Meunier.
Le uve provengono quasi totalmente dalla vendemmia dell’anno, più il 10% circa di vini di riserva, che possono essere raggiungere fino a quindici anni di invecchiamento.

I vini base da cui la maison ricava i suoi Champagne, fermentati in legno di rovere, sono ovviamente di livello notevolissimo, basti pensare che l’85% circa dei vigneti di proprietà è classificato Grand Cru o Premier Cru e la vinificazione è fatta solo con la prima spremitura delle uve (2050 Litri ogni 4000 Kg di uva; la seconda spremitura, detta “première taille” viene venduta ad altre cantine).
Inoltre Bollinger lascia maturare sui lieviti per almeno tre anni (i non millesimati, molti di più i grandi vini), contro i quindici mesi previsti dal disciplinare

Ok, bei discorsi, ma alla fine come è questa Special Cuvée?
Giallo dorato brillante, mentre si versa forma una spuma esplosiva: gonfia e persistente, così come le bolle, numerose e finissime e setose, per nulla aggressive al palato.

L’olfattivo è ricchissimo: pan di spagna, limone, ananas, arachidi, leggera speziatura e tostatura.
Ricordo che una volta, a proposito dello stesso vino, lessi il descrittore “olio di semi di girasole” e mi sembrò una minchiata colossale, ma in effetti ce n’è un ricordo.

In bocca è ben secco ma non tagliente, più fresco che sapido, pieno senza essere opulento: la potenza del pinot nero è ben controllata dal corpo e dall’assemblaggio con gli altri vitigni, così come le durezze sono stemperate dalla malolattica e dal leggero dosaggio (otto, nove grammi per litro). Tornano la panificazione e la sensazione citrina.
Finisce elegante, con un retro olfattivo abbastanza lungo.

Sicuramente da consumare a tutto pasto, ma stasera io sono pigro e degusto con prosciutto San Daniele, parmigiano e focaccia genovese: grande abbinamento, semplice e da piacere puro.
Un pochino mi vergogno, pensando che un vino del genere meriti di più, ma poi vedo il sito di Bollinger e sorrido: nei “Pairings” (abbinamenti) consigliati, si indicano tra gli altri “parmesan, prosciutto especially Pata Negra”.

Vale i soldi che costa? Sì, no, forse.
Esiste un vino che valga più di 15 euro? E’ morale spendere quarantanove sacchi per una bottiglia?
Io non so rispondere e so che sicuramente non posso permettermelo tutti i mesi, ma di certo per chi ama le bollicine è una esperienza notevole.
Ci tengo a far notare che uno dei punti di forza di maison come Bollinger è la costanza: quando tiri fuori i soldi sai cosa comperi e sei certo che non ci saranno sorprese.
C’è meno poesia rispetto al “prodotto unico”, forse, ma visto l’impegno economico direi che ne vale la pena.

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