Barolo 1997, Paolo Scavino

“Grande annata” o perlomeno tale è classificata la 1997 sui vari almanacchi, quindi perché resistere se il prezzo a scaffale è abbordabile?

Scavino ha ovviamente sede nella Langa del Barolo, dove la famiglia controlla ben 29 ettari locati in vari cru sparsi sul territorio dei comuni di Barolo, La Morra, Novello, Serralunga, Verduno, Roddi e Castiglione Falletto.

Denominazione: Barolo DOCG
Vino: Barolo
Azienda: Paolo Scavino
Anno: 1997
Prezzo: 35 euro

La bottiglia in questione è il prodotto base, il classico e tradizionale “no cru”, oggi un po’ bistrattato, da quando ad andare di moda sono le microvinificazioni focalizzate alla analisi quasi isterica della parcella più minuscola…

Tappo integro, per fortuna, e subito si rivela un colore ancora perfetto, perfino troppo vivo e luminoso (merito di un po’ di barrique?), con appena un minimo accenno granata all’unghia.

Il naso è deciso, quasi prepotente, con uno sbuffo alcolico evidente (frutta matura sotto spirito); poi arrivano note di caffè che dopo poco virano sul cioccolato e chiudono con qualche refolo di balsamico. Interessante ma non memorabile

Sorso nettamente caldo: come prevedibile dall’olfattivo il grado alcolico si sente tutto; per fortuna c’è comunque ancora grande acidità ad accompagnare un tannino levigato ma ben presente.
Assaggio con un gran frutto surmaturo, di notevoli intensità e robustezza. Lunghezza solo discreta.

Alla fine la bevuta non è affatto sgradevole ma un resta poco espressiva, troppo monolitica, quasi tetragona: fa della robustezza la sua arma più potente ma oltre a quella c’è poco altro.

Vino curioso: nonostante i 20 anni di invecchiamento non mostra ancora quei caratteri di terziarizzazione che ci si sarebbe aspettati: per certi versi la bottiglia sembra marmorizzata ad uno stato di giovinezza eccessiva per poter essere goduta a pieno.
Certo, dopo tutto questo tempo credo sia difficile sperare in evoluzioni ulteriori.

Il bello: robusto, intenso

Il meno bello: poco espressivo,  manca la maturità

 

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Vinum Alba: occasione quasi mancata?

Spiace non poter dire tutto il bene possibile di una manifestazione di Langa, territorio benedetto per i vini, per di più ospitato in una cittadina deliziosa come Alba, ma qualcosa non funziona.
Andiamo per ordine: sabato sono stato per la prima volta a Vinum, giunta nel frattempo alla trentottesima(!) edizione; il sottotitolo della manifestazione dice tutto: “Fiera Nazionale dei vini di Langhe e Roero”, e dovrebbe essere ben più che abbastanza, visto che sono poche le zone al mondo che possono vantare una concentrazione qualitativa e quantitativa così importante come quella presente in questi territori piemontesi.

Che dire poi di Alba? In quale altro paese scendi dall’auto e vieni avvolto dal profumo di cioccolata e nocciole a metterti di buon umore? E quale altra cittadina sarebbe in grado di non essere messa in ginocchio dalla presenza contemporanea di Vinum, del mercato settimanale e di una beatificazione nella piazza del Duomo? Alba è invasa di persone, ma riesce comunque in qualche modo a restare vivibile, a farti trovare parcheggio e a farti camminare senza essere travolto. Complimenti.

vinumDetto questo, Vinum mi ha lasciato parecchio perplesso. Vediamo perché.
All’ingresso della (bella e comoda) struttura dell’Ente Fiera del Tartufo, dopo aver raccolto una brochure molto ben fatta, si può acquistare un “Carnet Degustazioni del valore di 15 Euro che darà diritto a: calice in vetro e taschina porta bicchiere, 10 degustazioni tra cui: 7 per i grandi Rossi di Langhe e Roero, 2 per i bianchi del territorio, 1 per l’Asti Spumante o Moscato d’Asti DOCG”.
Sembra bello? Insomma…
Normalmente in questo genere di manifestazioni si paga all’ingresso e si degusta quello che si vuole, qui ai banchi di Barolo, Barbaresco (e mi pare anche Roero) vengono “bucate” due degustazioni per ogni assaggio. Significa che con 15 euro si ha diritto a soli tre assaggi di questi vini, e ne resta uno per i “minori” nebbiolo, barbera, freisa ecc.
E’ facile capire che, facendo un percorso di assaggio di buon impegno, visto che normalmente non ci si muove da casa per 3 o 4 degustazioni, si spende un capitale….

vinum2Ancora: i vini in degustazione sono molti, ma pochi i grandi nomi, e la cosa stupisce, visto che ci si trova nel cuore delle Langhe…
Pazienza, pensavo di consolarmi facendo una perlustrazione dei vitigni meno battuti, anche in questo caso ho avuto poco successo: ai banchi trovo solo tre Freisa e un (UNO!) Pelaverga!

Proseguiamo: esibendo la tessera AIS il carnet di degustazione viene via a 12 euro (invece che a 15). Peccato che l’acquisto contemporaneo del carnet + workshop del pomeriggio (“Menzioni Geografiche aggiuntive del Barbaresco”, relatore Giancarlo Montaldo), non è invece scontabile…

Concludo: il famigerato carnet di degustazione consente anche lo sconto per un aperitivo con “Alta Langa Metodo Classico” in alcuni bar convenzionati del centro storico. Bene: credo che il Consorzio dovrebbe assicurarsi che, come è accaduto nel mio caso, non venga servito un vino anonimo, chiaramente aperto non in gran forma (eufemismo…), con un triste contorno di cibarie di scarsa qualità.

vinum3Un appunto sullo workshop del pomeriggio: bella sala, luminosa, spaziosa, ottima visibilità e  acustica. Ottima e chiara introduzione al Barbaresco e alla storia delle Menzioni Geografiche Aggiuntive; peccato che di dette Menzioni non sia chiara l’utilità, visto che come spiegato chiaramente dal relatore non hanno attinenza con la qualità e non identificano neppure una caratteristica specifica, visto che all’interno della stessa Menzione, talvolta molto estesa, appartengono vigneti diversi, persino con esposizioni e terreni differenti…

Insomma, una manifestazione con luci ed ombre, a mio modesto parere riservata più ad un pubblico “casuale” che ad appassionati e professionisti del settore.

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Tutto in una notte: sette Nebbioli a confronto

Nebbioli
Foto di Giovanni Tassara

Infondo se ci piace scrivere, ragionare e persino studiare a proposito di vini, è per serate come questa che lo facciamo: per sederci attorno a un tavolo e mentre mangiamo darci sotto con lo stappare, col parlare e magari ridere e cazzeggiare in libertà.

L’idea era tanto semplice quanto di sicuro appeal, 7 partecipanti, ciascuno porta una boccia a tema, e il leit-motiv della serata era indubbiamente intrigante: vini a base nebbiolo di annata 2001, millesimo che gode di ottima considerazione.

Ovviamente bottiglie coperte, così da non subire il malefico effetto placebo dell’etichetta e del prezzo importanti.
Ospitalità e cucina, entrambe di ottimo livello, sono state assicurate dal ristorante U Giancu.

Quello che ho capito, da questa e da altre situazioni simili, è che inevitabilmente occorre fare una scelta: o si privilegia il lato conviviale (e mi sembra doveroso), o ci si distacca per analizzare al meglio il vino. Come ovvio, io sono per la prima opzione, visto che il liquido nel bicchiere è fatto per essere bevuto e non vivisezionato…
Altra cosa che ho imparato: io sono un parvenu in questo folle mondo di eno-appassionati, e per quelli come me è facile lasciarsi influenzare da chi ha più esperienza e competenza, non c’è nulla di male, però a me piace decidere e sbagliare con la mia testa.
Il compromesso che ho messo in piedi per ovviare a questi due inconvenienti è quello di isolarmi mentalmente per i primi due o tre minuti in cui assaggio un nuovo bicchiere, concentrandomi e cercando di non ascoltare chi ho attorno e sforzandomi di scrivere alcune note al volo, sintetiche e sincere.
Poi, libertà di discussione a ruota libera e cambi di opinione se il caso, però le righe iniziali restano a far fede di quella che era la mia opinione originale, non corrotta dal confronto verbale.

A fine cena abbiamo tolto la stagnola alle bottiglie e abbiamo avuto non poche sorprese: a seguire, l’elenco di quanto bevuto nell’ordine di servizio originale (casuale), le mie note prese a bocce coperte e qualche considerazione successiva alla rivelazione delle etichette:

Gattinara Osso San Grato 2001, Antoniolo (circa 45 Euro):
Bel colore tipico da Nebbiolo, ancora molto vivo. Olfattivo ricco ed elegante, viola e scorza di arancio. Tannino presente ma dolce, gradevole. Sensazione di morbidezza e di lunghezza. Idea di vino maturo, di ottima evoluzione.
Bottiglia che paradossalmente ha convinto tutti, pur dividendo; mi spiego: a tutti è sembrato una ottima bevuta (per me uno dei due migliori della serata), ma qualcuno ha ritenuto fosse giunto al culmine e ha penalizzato il fatto che un vino a base Nebbiolo del 2001 dovrebbe avere ancora lunga vita davanti. Sicuramente in questo momento è perfetto, e il mio personalissimo parere è, che deriva da colore e freschezza, è che non sia affatto a fine corsa.

Barbaresco Rabaja Riserva 2001, Giuseppe Cortese (circa 55 Euro):
Colore decisamente più concentrato rispetto al primo campione, ma anche meno vivace. Parte molto chiuso, poi si apre leggermente ma spunta una nota etilica, di smalto, un po’ fuori scala.
In bocca è più potente e ha un tannino confuso, forte ma senza grip deciso.
Non mi entusiasma, e credo abbia già scavallato i tempi migliori.

Barbaresco Asili 2001, Produttori del Barbaresco (circa 35 Euro):
Colore concentrato ma ben vivo, olfattivo ricchissimo, floreale, spezie… arioso ed elegante.  L’assaggio è fresco, intenso, lungo e con un ottimo tannino, robusto e deciso. Bevibilità stellare.
Assieme ad Antoniolo, per me e per quasi tutti, vino della serata. Un bonus ulteriore in considerazione del prezzo favorevolissimo.

Sassella Rocce Rosse 2001, Ar.Pe.Pe (circa 28 euro):
Colore meno vivace dei precedenti, qualcosa non funziona a livello olfattivo: presenti un leggero yogurt, qualche ricordo di plastica… Anche l’assaggio non è compiuto. Vino scomposto, forse il più deludente della batteria assieme ad Oddero.

Barolo Vigna Rionda 2001, Massolino (circa 90 Euro):
Ottimo il colore, bello vivo. Olfattivo ricco e intenso, con sprazzi eterei e frutta matura.
Assaggio di bella intensità, tannino morbido e gradevole. Non troppo lunga la chiusura.

Barolo Bussia Soprana Vigna Mondoca 2001, Oddero (circa 55 Euro):
Colore molto carico, grande consistenza alla roteazione. Olfattivo strano: c’è del vegetale cotto, oliva… non pienamente gradevole.
In bocca c’è intensità e tannicità ben fatta, ma resta qualcosa di non a posto.

Barolo Bussia “Colonnello” 2001, Poderi Aldo Conterno (circa 70 Euro):
Alla vista è scuro, quasi impenetrabile, l’unghia è un po’ spenta.
Naso estremamente evoluto di cioccolato, spezie e cuoio.
Caldo, morbido, intenso, non freschissimo… lunghezza nella media. Bevibilità pesantuccia.
A me sembra giunto nettamente oltre il suo stadio ottimale, a qualcuno è piaciuto molto.

Conclusioni rapide e ovvie: serata divertentissima, in cui (giocando) si è imparato tantissimo.  Da ripetere quanto prima con una diversa tipologia di vini.

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Flavio Roddolo, ritratto di vignaiolo in Langa

E’ ora di distruggere quel briciolo di reputazione che mi resta e diventare definitivamente un eno-paria; confesso i miei peccati facendo coming out e dichiarandolo pubblicamente: a me, spesso, la mitizzata “visita in cantina” provoca una noia degna della visione coatta di un paio di puntate di Porta a Porta.

Ti emoziona vedere l’ennesima linea di imbottigliamento? Ti interessa davvero la lista dei materiali eco-compatibili con cui è stata costruita la cantina all’avanguardia di turno?
No, perché diciamolo: sovente la routine è: occhiata alla vigna (che avevi visto altrettanto bene prima di suonare il campanello), giro in cantina, banco di assaggio, acquisto. Fine, per fortuna.
Il tutto condito da qualche massima che già conoscevi, avendo letto tutto del produttore su varie guide e siti, e da molti sbadigli.

Vado oltre, e confesso anche di non avere il mito della campagna e dei bei vecchi tempi andati, dei quali sembrano nutrirsi molti appassionati di vino, magari mentre vanno in pellegrinaggio in Borgogna con l’aereo o con il SUV.
Mi spiego: nulla in contrario alla tradizione e ai suoi riti, ma non posso dimenticare che lo stato di natura dell’uomo è vivere (temo in modo non particolarmente piacevole) prima nelle grotte e poi sulle palafitte, dove non mi risulta fossero disponibili salotti con cantinetta termo-condizionata e umidificata per conservare bottiglie di Monfortino.
Insomma, la tanto bistrattata modernità direi che qualche progresso ce lo ha fatto fare: mio nonno, uomo mite e nato contadino, quando sentiva recitare il classico luogo comune “come si stava bene una volta in campagna, quando non avevamo niente”, si incazzava e rispondeva che la vecchia cascina era disponibile e potevano andarci quando volevano sul monte, senza corrente elettrica e senza acqua in casa, a soffrire il freddo e a sfamarsi con la polenta tutti i giorni.

Roddolo vigne 2Tutto questo lungo preambolo, che spero perdonerete, per dire che nei giorni scorsi sono stato da Flavio Roddolo, produttore di nicchia assai raccontato e mitizzato in certi ambienti (Scanzi in primis), e che quando mi avvicinavo da Monforte verso la Frazione Sant’Anna, Bricco Appiani, stavo cercando di far chiarezza nelle mie aspettative.
Avrei trovato l’ennesima declinazione del Contadino All’Antica con la tv satellitare? O del Vignaiolo Etico che ti racconta di come ama api e insetti nei filari?

Poco tempo per riflettere, appena metto piede fuori dall’auto sbuca fuori casa un omone barbuto, insospettito dal rumore di automobile; una stretta di mano frettolosa e mi chiede se voglio vedere la cantina (che poi sarebbero due: una, quella vecchia, un piccolo antro con ammassate alcune barrique e un paio di scaffali di bottiglie vecchie, e l’altra più grande e nuova, tanto umida da avere il pavimento praticamente zuppo e pericolosamente viscido).

Roddolo Cantina 3Le parole arrivano con parsimonia e sincerità; sono quelle con cui l’omone risponde alle domande: le barrique le ha sempre usate perché ha poca uva e a volte le botti grandi sono, appunto, troppo grandi ed è un problema, e le vecchie bottiglie le conserva in piedi perché le avevano messe via così, non pensando di conservarle per venti, trenta o quaranta anni, e insomma perché spostarle?
Una breve sosta all’aperto, dove mi mostra fin dove arrivano i suoi vigneti e poi, lamentandosi della temperatura che non gli consente di imbottigliare il dolcetto, entriamo in casa per assaggiare qualcosa.

Roddolo Cantina 1Così sorseggi, scaldandoti dal freddo di una giornata che appartiene più all’inverno che al mese di Aprile, davanti ad un signore dall’aria severa, che ti fa accomodare, ti serve bicchierate pantagrueliche del suo vino (senza raccontartelo: grazie a Dio non spende una parola su mineralità, acidità, terroir e lieviti), dimentica di porgerti il cestino con i grissini, e magicamente (ma tutto sommato non del tutto inaspettatamente) si mette a parlare di mille argomenti, come se infondo gli facesse quasi piacere averti in visita, e infatti ti tiene oltre due ore nelle quali ti getta dei frammenti di verità, raccontando di come, ai tempi di suo padre, al mosto si aggiungesse talvolta zucchero e/o sale, del rifiuto di andare alle varie manifestazioni (“sono stato tre o quattro volte al Vinitaly, me lo avevano chiesto degli amici, ma dopo qualche ora me ne sono andato. Adesso non vado più, ho troppo da fare.”), della passione per la caccia (trascurata), della difficoltà burocratiche e legislativa di poter assumere aiutanti e soprattutto, con un pizzico di commozione, delle tre bottiglie di dolcetto del ’67 che ha ritrovato recentemente (forse il suo primo vino; una dice di averla stappata da poco e di essersi stupefatto trovandolo ancora perfetto).

Ancora, si apre senza problemi raccontando del perché delle vigne di cabernet (“negli anni ’90 lo volevano tutti”), della assurdità della moda con cui si insiste sulla solforosa, mentre magari si assaggiano in batteria 100 vini, e invece il vino è fatto per essere bevuto poco e durante i pasti, altrimenti fa male, e delle repentine conversioni al biologico di tanti colleghi, avvenute in cinque minuti, mentre lui per eliminare gli insetticidi ci ha messo anni.

Prima di congedarti, ti offre un bicchiere di bianco da uva Favorita che ha fatto per lui,  dice che lo ha lasciato in damigiana per 10 anni(!) (“continuava a fermentare, lo ho lasciato andare e poi l’ho dimenticato”) e lo ha imbottigliato da poco, dopo averlo portato ad analizzare per curiosità.
Ovviamente è meraviglioso: oro, aromatico, caldo, fresco, pieno, mi ricorda alcuni importanti friulani, e solo in questo momento, per un attimo, pensi che forse ti stia prendendo in giro, che non è possibile, e che forse ti ha ingannato con una recita ben architettata; poi lo vedi con quella faccia, dura ma gentile e tranquilla, e passa subito.

Comperi le tue due cassette di vino, paghi e te ne vai a pranzare, che è quasi l’una. Tornerai tra 10 minuti perché hai dimenticato la macchina fotografica: dovrai suonare a lungo e verrà ad aprirti in tuta da lavoro: “Come, non mangia?”. Risposta: “Eh, c’è da fare”.

Roddolo vigne 1Ah, I vini?
Fate voi, non ho certo tirato fuori il libricino per prendere appunti, mi sarei sentito oltremodo ridicolo e imbarazzato; ad ogni modo, sarà stata la suggestione della Langa e del personaggio, ma mi sono sembrati tutti speciali, dal Dolcetto superiore (senza dubbio il dolcetto più piacevole e particolare mai assaggiato, pur restando invidiabilmente austero), passando per la ricca freschezza della Barbera e per uno stupefacente Nebbiolo, sicuramente ben superiore a tanti Baroli rinomati e di ben altro prezzo, per finire con il Barolo (che, pur implorandoti di esser messo via per altri dieci anni, è già godibile fin d’ora) e con il Cabernet (di grande spessore e complessità, dal quale emerge un varietale netto ma non stucchevole).

La prima conclusione è che Roddolo non è un sofisticato gentiluomo di campagna o un vignaiolo furbamente affabulatore, semplicemente è un contadino che sembra davvero amante della sua campagna e che ci tiene a fare un buon vino, e l’unico metodo che considera adatto per produrre le sue ventimila bottiglie l’anno è quello che ha visto usare da suo padre.

La seconda conclusione è che confesso un leggero moto di imbarazzo nello scrivere queste righe: cosa c’è di più distante della moderna vanità di un blog personale dalla imperturbabile semplicità di un vignaiolo che ancora possiede un vecchio telefono, di quelli della SIP, grigi e con la rotella per selezionare i numeri?

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Le loro maestà: impressioni varie

Buon ultimo tra i vari blog, propongo il mio commento su “Le loro maestà“, importante manifestazione giunta alla seconda edizione (per parlare come i tizi che redigono i comunicati stampa).

Le loro maestàIl succo della faccenda: presentare una panoramica di produttori langhetti e borgognoni, cercando di fornire una prospettiva quanto più completa possibile sulla “nobiltà” dei vitigni Pinot nero e Nebbiolo: in pratica 50 cantine, equamente divise tra Italia e Francia, hanno presentato per l’assaggio uno o due vini ciascuno, simbolo della loro produzione.

Manifestazione magniloquente (non vorrei definirla “sborona”, ma insomma…) sia dal nome “maestoso”, che per ubicazione (l’Agenzia di Pollenzo, dove risiedono anche l’università di Slow Food e la Banca del Vino), la teutonica macchina organizzativa (hostess precisissime e cortesi, guardardaroba all’ingresso, abbondanza di bottiglie d’acqua gassata e naturale e ottimi grissini nella sala di degustazione) e, ovviamente, per il prezzo allineato o forse persino superiore alle aspettative (80 euro!).

Le loro MaestàSolite sensazioni per il tipo di manifestazione che ormai, come da consuetudine, io definisco “drink-porn”: come altro puoi chiamarla, quando paghi per abbuffarti per una giornata intera di una messe infinita di vini, che ovviamente assaggerai e sputerai invece di approfondirli, gustarli, abbinarli ad una pietanza? E’ pornografia enoica: ti perdi in mille abbracci che ricambi solo per un istante, goloso di tuffarti tra altre braccia sempre nuove solo perché puoi e non perché hai qualcosa di ricambiare.
Ma tant’è, consapevole dei limiti della formula, ogni tanto mi piace indulgere in queste perversioni…

La cronaca: sveglia al mattino presto per essere a Pollenzo fin dall’apertura, in modo da dedicare la mattina alla Francia, fare una pausa per il pranzo, poi rientrare per gli italiani e riuscire ad avere un adeguato tempo di decompressione prima del ritorno a casa in auto.
Programma rispettato a dispetto delle temperature polari (-7.5 sulla Torino-Savona alle 9.30 del mattino!).

Mentirei se dicessi che conoscevo più del 10% dei francesi e più del 40% degli italiani, se non per averne letto le ragioni sociali in siti, libri, opuscoli eccetera, e altrettanto sarei presuntuoso se affermassi di essere essere stato capace di capire la filosofia e la qualità di 50 aziende nello spazio di poche ore.
Le loro Maestà 2Per questo, come sempre in queste occasioni, mi limito a qualche cenno su quello che ho trovato più gradevole o interessante in quell’istante, senza volerne fare classifiche di merito e neppure tagliare dei giudizi centesimali che sono quanto mai distanti dal mio modo di frequentare il vino.

Ecco quindi qualche impressione veloce e minimale.
Per quanto riguarda i francesi segnalerei il Clos de la Roche Grand Cru 2002 di Remy: note terziare, tannino presente ma delicatissimo, lungo e cangiante in bocca; il Nuit-Saint-Georges 1er Cru Les Damodes 2007 di Olivier: molto personale, con accenno di medicinale e bella freschezza; il Pommard 1er Cru Grand Clos des Epenots 2009 di De Courcel: si distingue per corpo, potenza e tannino mantenendo equilibrio ed eleganza; il Volnay 1er Cru Santenonts du Milieu 2005 di Comtes Lafon: forse il naso più bello, intenso, ricco della manifestazione.
Segnalazione a parte per i vini di Guillon, che si scostavano dagli altri per concentrazione superiore, sia nel colore che in bocca, il produttore sostiene a causa delle lunghe vinificazioni.

Per gli italiani: bello intenso, vivo, vibrante il Barolo Fossati 2006 di Enzo Boglietti; tannino alle stelle per il Barolo Bricco Boschis Vigna San Giuseppe 2006 di Cavallotto; piacevolissimo e corredato da una bella spezia il Barbaresco Rabajà 2009 di Giuseppe Cortese; fine, delicato e complesso, con accenni interessanti di evoluzione il Barbaresco Camp Gros Martinenga 2004 Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Gresy; molto personale ed elegante il Lessona Omaggio a Quintino Sella 2006 di Tenute Sella.
Un punto interrogativo grosso per il Barolo Bricco Gattera 2005 di Cordero di Montezemolo: al naso si avvertiva netta la banana!

In generale, è stato molto più semplice gestire l’assaggio dei vini francesi, che grazie alla minor potenza e soprattutto al minor tannino, hanno consentito al mio palato di restare reattivo e concentrato più a lungo.

Alcune osservazioni.
Molti i grandi nomi presenti, ma altrettanti ne mancavano, e degli intervenuti ben pochi hanno portato millesimi più affinati degli ultimi disponibili: dato il prezzo di ingresso credo che si potesse fare uno sforzo per avere maggiore profondità di annate; la cosa ha penalizzato in particolare i vini piemontesi, che in molti casi ho trovato ancora estremamente duri.
Ancora, la manifestazione era a numero chiuso: ne sono certo perché al sabato i biglietti risultavano esauriti in prevendita; nonostante questo, in alcuni momenti della giornata la calca era non insostenibile ma certamente fastidiosa; sarebbe stata augurabile una sala più spaziosa.

Infine, vorrei spendere una parola di elogio per la trattoria Savoia: al momento del pranzo abbiamo deciso di fare qualche metro e siamo entrati questo bar / tabaccheria di Pollenzo, che nel retro propone un piccolo ristorante. Cucina semplice e tradizionale, con materie prime di buon livello, porzioni devastanti per quantità e prezzi da incredulità generale. A completare lo stupore, servizio tranquillo e gentilissimo. Davvero complimenti: il locale che vorrei avere sotto casa.

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