Parlare di Prosecco oggi significa scoperchiare un calderone di difficile decifrabilità: si tratta di un vino di enorme successo, in Italia come (e specialmente) all’estero, che di conseguenza necessita di numeri imponenti: ecco quindi un disciplinare di manica piuttosto larga, che ammette ad esempio uve prodotte nelle province di Belluno, Gorizia, Padova, Pordenone, Treviso e rese massime di 18 tonnellate per ettaro.
Proprio a causa della sua popolarità e della enormità dell’offerta (in media qualitativamente assai discutibile, penso ai classici abomini che vengono serviti in millanta bar alla richiesta di un “prosecchino”), il Prosecco non gode di gran stima presso il pubblico degli eno-appassionati hardcore, se non per qualche nome e tipologia di nicchia (penso al recente piccolo fenomeno del Colfondo).
La scorsa settimana ho avuto modo di assaggiare l’intera gamma di vini prodotta da Ruggeri, e, pur non essendo un particolare estimatore della tipologia, ammetto di avere apprezzato e anche di aver avuto alcune sorprese.
Certo, non parliamo dei gioielli sconosciuti di qualche vigneron biodinamico che “tira” poche migliaia di bottiglie: qui ci troviamo di fronte ad una azienda storica che sforna oltre un milione di pezzi l’anno, e che per mantenere uno standard qualitativo elevato in abbinamento a prezzi contenuti, usa metodologie moderne e ben definite (autoclave, temperature controllate, lieviti selezionati eccetera).
I due DOCG più canonici (il brut Quartese e il Dry Santo Sfefano) mi sono sembrati prodotti corretti, ben fatti, ma non particolarmente interessanti.
Le cose cambiano già nettamente con il Giustino Bisol, forse il prodotto più famoso dell’azienda: un extra dry che unisce la morbidezza (non eccessiva e per nulla stucchevole) ad un floreale ricco, fresco e non sfacciato, e con il Cartizze: un dry che ha dalla sua un olfattivo che è una vera esplosione aromatica.
Ma sono i vini più atipici rispetto alla idea canonica di Prosecco quelli che mi hanno stuzzicato maggiormente: l’Extra Brut, che per la sua secchezza (fuori disciplinare, tanto da non poter essere classificato “Prosecco”), per la finezza della bolla e per una certa austerità, ricorda da vicino un metodo classico, e soprattutto il Vecchie Viti, un brut per il quale voglio spendere qualche riga in più.
Denominazione: Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG
Vino: Vecchie Viti
Azienda: Ruggeri
Anno: 2011
Prezzo: 12 euro
L’uva è ottenuta da una selezione assai limitata di vecchie viti di età compresa tra 80 e 100 anni (al 90% circa Glera, con saldo di Verdiso, Bianchetta e Perera), per un totale di circa 5000 bottiglie.
Visivamente giallo paglierino, estremamente tenue, con riflessi brillanti e bolla finissima, non troppo copiosa.
L’olfattivo ha buona intensità, anche se non è esplosivo o sfacciato; sicuramente estremamente fine ed espressivo, dominano un floreale e fruttato composti ed eleganti.
La bocca prevede poco calore, mentre freschezza e sapidità sono di discreto livello; gustativamente si ritrova quanto avvertito al naso, con buona intensità e anche una certa materia e lunghezza, considerata la tipologia.
E’ una espressione particolare di Prosecco, una sorta di avvicinamento ad un metodo classico (forse ad un Franciacorta Satèn) del quale mancano i sentori di lievito, le acidità spiccate e la croccantezza e la numerosità della bolla.
Qui si gioca più sulla freschezza e sulla immediatezza, e anche le sole 4,5 atmosfere di sovrapressione magari contribuiscono a questa sensazione di leggerezza, senza per questo scadere nella piacioneria facilona.
Una bella bottiglia per un aperitivo non scontato.
Il bello: freschezza, aromaticità, prezzo
Il meno bello: un po’ sfuggevole in bocca e in chiusura