…qu’ils mangent de la brioche

Non ho idea se voi lettori siate tipi simpatici. Non so neppure se vi piace lo champagne, ma immagino di sì.
Nel caso foste simpatici e amanti dello champagne, potreste allearvi con Bibenda per combattere la crisi!

Franco Ricci - Maria AntoniettaA me era sfuggito, ma Andrea Petrini di Percorsi di vino ha prontamente riportato sul suo sito l’imperdibile iniziativa del Direttore di Bibenda, Franco Ricci, e io lo ringrazio, perché rischiavo di perdermi la splendida opportunità di fare del bene al mio Paese, incoraggiando la ripresa con la semplice prenotazione dell’Evento dell’anno.
Del resto, cosa sono 250 Euro (o 500, camera inclusa) di fronte al luminoso futuro della Patria?

Il titolo è chiaro, così bello in maiuscolo: “A ROMA / BIBENDA AUGURI DI NATALE! INSIEME CONTRO LA CRISI”.
Non fosse stato per Petrini avrei rischiato di non far parte del coraggioso manipolo dgli “80 lettori simpatici” che per donare slancio all’economia della nostra amata Italia, il 20 Dicembre saranno disposti ad immolarsi degustando “caviale, crudi di pesce, frittini, prosciutto crudo, spaghetti cacio e pepe… e panettone”.

Tra una sganasciata di Beluga e un sorso di Champagne agguantato dal “contenitore colmo di ghiaccio”, mi vedo sin d’ora impegnato a risolvere il fastidioso problema degli esodati o lo sconveniente disagio della caduta del PIL.
Mi si arrota già la erre se mi immedesimo nella illuminata borghesia che si aggirerà corrucciata per la Sala Belle Arti, angosciata al proponimento di far fronte alla calante produttività delle nostre aziende mentre doverosamente sbocconcella distratta un boccone di sushi al suono della “famosa band Bibenda”.
Fortunatamente, a stemperare la tensione ci penseranno le “barzellette di Ubaldo”!

Maria Antonietta e il suo celebre “S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche” sono nulla di fronte allo Champagne scacciacrisi ideato da quel gran cuore del Ricci.

Che grande idea! Grazie, Franco Maria!

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Germany reduced: la classificazione tedesca per tutti.

Si dice che i tedeschi son gente seria, precisa, sistematica, lineare.
Per carità, immagino sia vero… magari per tutto meno che per la classificazione dei vini, che è di un incasinato micidiale. In più, certo, non aiuta la lingua…

Cerco di fare chiarezza, premettendo che l’intento è di semplificare anche a scapito di un minimo di approssimazione.
Disclaimer: questa classificazione è valida solo per la Germania: in Austria ci sono alcune differenze.

Ripe grapes of Riesling.
Tom Maack, Riesling grapes and leaves. Rheingau, Germania, Ottobre 2005

La classificazione si basa sulla regione di origine, sulla eventuale aggiunta di zucchero e sulla maturazione delle uve; in più si appoggia alla scala Oechsle, un metodo di misurazione della maturazione e dello zucchero basato sulla densità del mosto ideato da Ferdinand Oechsle.
Facendola facile, i gradi Oechsle (Oe) indicano di quanti grammi un litro di mosto supera il peso di un litro di acqua; poiché la differenza è causata praticamente solo dallo zucchero disciolto nel mosto e poiché l’alcol del vino è dovuto alla conversione dello zucchero da parte dei lieviti, è chiaro come la scala sia usata per predeterminare il potenziale alcolico del vino finito.
La parola chiave è “potenziale”: non è detto che tutto lo zucchero venga svolto in alcol, in questo caso avremo un vino più o meno dolce.

Alla base della piramide ci sono i Tafelwein (vini da tavola), che devono essere prodotti in una delle regioni autorizzate, devono raggiungere almeno i 44° Oe (corrispondenti ad un alcol potenziale del 5%) e il contenuto alcolico finale deve essere di almeno 8%, che può essere ottenuto anche con l’arricchimento di zucchero.

Il secondo step sono i Landwein. La provenienza deve essere da zone determinate, il contenuto alcolico finale superiore dello 0.5% rispetto ai Tafelwein e il vino deve essere secco (troken) o semisecco (halbtrocken).

A seguire iniziano i “vini di qualità”: Qualitätswein bestimmter Anbaugebiete (brevemente detti QbA, vini di qualità prodotti in regione determinata): provenienza da 13 regioni autorizzate, grado Oechsle compreso tra 51°Oe e 72° a seconda della zona di raccolta e contenuto finale di alcol almeno 7%. E’ ammessa la aggiunta di zucchero al mosto.

Arriviamo poi ai Prädikatswein o Qualitätswein mit Prädikat (QmP, vini di qualità superiore). Questi non possono subire l’arricchimento con aggiunta di zucchero, possono coprire tutta la gamma da secco a dolce, devono essere prodotti con uve provenienti da ben definite sottoregioni delle 13 autorizzate ai QbA e sono ulteriormente classificati con la scala seguente:

  • Kabinett: possono essere semidolci (lieblich), semisecchi (halbtrockeno secchi (trocken). Devono avere almeno 73° Oe.
  • Spatlese: da uve raccolte con vendemmia tardiva, quindi con maggiore concentrazione zuccherina (almeno 85° Oe). I vini possono andare da secchi a dolci.
  • Auslese: vendemmia selezionata di uve raccolte manualmente, che possono essere state già attaccate dalla muffa mobile, la botritys cinerea. La concentrazione di zucchero deve essere almeno 95° Oe, e anche stavolta il vino finito può essere secco o dolce.
  • Beerenauslese: vendemmia di acini selezionati. Gli acini devono essere raccolti a mano scegliendo quelli attaccati dalla muffa nobile o almeno surmaturi. Il vino finito è solo dolce, in quanto gli almeno 125° Oe non si riescono a convertire interamente in alcol.
  • Trockenbeerenauslese: vendemmia di acini selezionati vecchi. Gli acini devono essere o botritizzati o appassiti sulla pianta, in modo da ottenere almeno 150° Oe. Il vino finito è dolce.

Fanno categoria a parte gli Eiswein (vini del ghiaccio), ottenuti da uve vendemmiate a Novembre o Dicembre quando gli acini (non intaccati da muffa nobile) sono ghiacciati, ottenendo mosto concentrato naturalmente, in quanto durante la pressatura si elimina la parte ghiacciata (sostanzialmente acqua). Il mosto deve avere almeno 125° Oe e il vino finito è solo dolce.

[Update: c’è una appendice a questo articolo: Germany reduced: la classificazione tedesca per tutti (reprised)]

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L’oroscopo in vigna: biodinamica for dummies

Rudolf SteinerRudolf Steiner si è occupato di filosofia, di pedagogia, di esoterismo, di sociologia, di antropologia, di musicologia.
Rudolf Steiner è morto nel 1925.

Scrivo questi dati per ricordare a quale distanza socio-temporale facciamo riferimento quando parliamo di biodinamica: Rudolf Steiner è infatti l’ispiratore di questo metodo di coltivazione.
Un tempo nel quale, per fare alcuni esempi, Herry Ford aveva da poco inserito la catena di montaggio nel suo processo produttivo, il cinema diventava sonoro, nasceva il partito comunista cinese di Mao Tse-tung e Mussolini diventava capo del governo.
Un tempo in cui un uomo, Steiner appunto, poteva aver studiato matematica e fisica e poi diventare curatore delle opere di Goethe, credere alla reincarnazione, inventarsi una “arte del movimento” chiamata Euritimia, dirsi sicuro della vita su Saturno, formulare le basi di una medicina alternativa detta antroposofica.
Eccetera eccetera (tanti eccetera).
Per inciso, la medicina antroposofica (che ovviamente non ha alcun riconoscimento da parte della scienza medica) è una di quelle teorie squinternate che, per dirne una, cura il tumore con l’estratto di vischio…

Ora, il povero Steiner era uomo del suo tempo, sicuramente colto, ma dire che tante delle idee alla base delle sue teorie siano, al meglio, obsolete, se non del tutto prive di qualsiasi fondamento scientifico o del tutto strampalate dovrebbe essere una banalità. Invece…

Invece una delle parole d’ordine dell’enomondo attuale è “biodinamico”, un termine figo, quindi molto più voga dell’ormai assodato “biologico”. Peccato siano in pochi tra i consumatori a sapere davvero cosa ci sia dietro alla parolona magica.

Prima di procedere a spiegare, vorrei raccontare un aneddoto: lo scorso anno sono stato in Trentino a visitare un Noto Produttore biodinamico; grandi vini, ottima ospitalità, cantina meravigliosa.
Ad un certo punto vengo fatto entrare nella barricaia e c’è una musica accesa; l’addetto alle visite mi racconta che il suono e le vibrazioni accompagnano l’affinamento dei vini. Vabbè.
Poco dopo mi fanno notare con orgoglio che sui muri ci sono dei piccoli tubi: i cavi della corrente elettrica passano all’interno di questi e sono “annegati” in un gas inerte per minimizzare l’influsso dei campi elettromagnetici.
Vabbè.
Un istante dopo, non posso fare a meno di notare a pochi metri di distanza una antenna ripetitore per telefono DECT. Non vado oltre per non insultare l’intelligenza del lettore.

Dunque, cosa è la agricoltura biodinamica?
Brevemente e per accenni: un metodo di coltura “fondato sulla visione spirituale antroposofica del mondo”, in cui più ogni sostanza è diluita, più ha effetto sugli organismi con cui viene a contatto. Per migliorare la qualità del terreno vengono così creati dei “preparati” (in diluizione tale da, secondo le leggi della chimica, non aver più nessuna parentela con la sostanza di partenza) poi usati o per il compostaggio o spruzzati sulle piante, non prima però di essere stati conservati dentro a parti di corpi animali (es. corna svuotate di vacche che abbiano già partorito!).
Date le premesse non stupisce che si dia grande importanza alla astrologia (sì, proprio gli oroscopi), che si parli di “forze cosmiche e spirituali” e di “energia vitale” della materia.
Senza proseguire oltre, rimando chi volesse approfondire a questo bel articolo di Dario Bressanini.

Con questo non voglio demonizzare la agricoltura biodinamica: la sua ideazione precede lo sviluppo della agricoltura biologica e ne incorpora molti aspetti pregevoli, come ad esempio la pratica del sovescio e il non uso di fitofarmaci, fertilizzanti, erbicidi e pesticidi di sintesi.
Sono sicuro ci siano moltissimi vignaioli che abbracciano questa filosofia misticheggiante come estrema riverenza nei confronti della natura dei loro terreni, convinti di ottenere in questo modo prodotti migliori e più sani possibili, e sono anche convinto che ci riescano, visto che, in quanto veramente innamorati della campagna se ne occupano al meglio, con tutte le loro forze e la loro passione.
Sono sicuro che i risultati ci siano; altrettanto sicuramente si ottengono non grazie alla biodinamica, ma nonostante essa.

Infastidisce semmai che, accanto a bravi (e mi permetto, ingenui) contadini convinti della efficacia di questa stregoneria e ad altri più razionali (che dei suddetti esoterismi prendono razionalmente solo la piccola e parte sensata), ci sia chi usa il termine magico per farne un business, confidando nella impreparazione della massa, affascinata da una parola che suona più bio del biologico.

A tramutare la superstizione in affare ci sono di sicuro alcuni produttori pronti a seguire la moda del momento (ieri erano le barrique, dunque via di trucioli nel mosto e di “vino del falegname”, oggi tira “il naturale” e allora perché non sfoderare le corna di mucca?), ma non solo: Demeter, la associazione preposta a certificare i produttori biodinamici guarda caso, ha un tariffario per chi vuole fregiarsi del bollino…

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Riesling: un nobile del Nord

Anche senza che io confessi, chi ha sbirciato il sito poco meno che distrattamente si sarà accorto da sé della mia predilezione per i vini bianchi del Nord, in particolare per Riesling e Champagne.

Se la bolla francese più o meno la conoscono in tanti, magari anche solo nelle sbiadite versioni da supermercato di qualche grande maison, i Riesling restano affare un pochino più da carbonari per il grande pubblico, comunemente in difficoltà ad accettare un bianco a volte dolce o semidolce, che dà il meglio di sé dopo lungo invecchiamento.
Genera confusione anche il fatto che ne esistano alcune varietà solo lontanamente parenti, ad esempio il riesling italico, che in Germania viene chiamato Welschriesling.

Zell (Mosel), Germany
Zell (Mosella), Autore Friedrich Petersdorff

La sua origine è situata nella valle del Reno (da qui la definizione di Riesling Renano), in particolare nella regione della Rheingau; gli antenati dovrebbero essere il Gouais Blanc (nome francese del tedesco Weißer Heunisch), ormai raro ma pare assai comune in epoca medioevale, e il Traminer.
Le prime fonti scritte che ne parlano risalgono a metà del 1400, e il suo crescente successo a partire dal XVII secolo è dovuto agli ordini religiosi, che ne riconobbero la grandezza e lo coltivarono diffusamente.

Resistenza al freddo, elevata acidità e maturazione tardiva sono caratteristiche distintive del vitigno, ma è soprattutto importante notare, oggi che tutti parlano di terroir, che il Riesling è una delle uve che meglio riflette i caratteri del suolo di coltivazione.
La produzione attuale è concentrata in Germania, in Alsazia, in Austria, in Australia e Nuova Zelanda, negli Stati Uniti e nel Canada.
La Germania è ovviamente lo stato in cui, per tradizione e per caratteristiche climatiche e di territorio, la coltivazione del Riesling è preponderante; le zone tedesche più vocate sono:

  • Mosel-Saar-Ruwer (o Mosel in breve)
  • Nahe
  • Pfalz
  • Rheingau
  • Rheinhessen

Per la quantità delle sostanze odorose concentrate sulla buccia (costituite per la maggior parte dai terpeni) è definito come vitigno semiaromaticoinoltre, con l’evoluzione, questi aromi primari sono accompagnati da secondari e terziari assai complessi.
Mi piace per questo definirlo un vino camaleonte: da fresco e facile in gioventù a profondo e ampio con l’invecchiamento, forse è questo il grande fascino del Riesling.
Troveremo quindi in partenza vini ricchi di profumi floreali (ad esempio acacia, erba sfalciata) e fruttati (agrumi, frutta tropilcale, mela, pera, albicocca); gli anni porteranno poi toni mielati, ricchezza minerale (pietra focaia, idrocarburo) e speziata (tabacco, pepe).

La tradizione tedesca prevede la vinificazione con bassa gradazione e residuo zuccherino (vini dolci o semisecchi), anche se le abitudini dei consumatori attuali hanno portato ad un incremento nella produzione di vini secchi (troken). In ogni caso, la eventuale dolcezza e il ricco corredo aromatico sono stemperati e bilanciati dalla grande freschezza derivante dalla naturale acidità del vitigno, che garantisce anche lunghissima conservazione al prodotto imbottigliato.

Rimando ad un prossimo post qualche chiarimento sulla classificazione, spero utile all’orientamento nella giungla delle etichette tedesche.

[Aggiornamento: ecco la guida alla classificazione]

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Picech: verticale con prosciutto

Uno degli elementi che più distingue la Cantina du Pusu dell’amico Tassara è l’organizzazione di bellissime degustazioni incentrate di volta in volta su specifici produttori da lui selezionati, così da farli conoscere al pubblico della sua enoteca.

La prima di una serie notevole che si terrà nei mesi di Novembre e Dicembre, è quella con il simpatico e modesto Roberto Picech, produttore del Collio che dal 1989 ha preso in mano l’azienda di famiglia.

Roberto PicechRoberto, per il secondo anno consecutivo, non è sceso in Liguria da solo: ha preferito accompagnare i suoi vini con un monumentale prodotto del territorio, il prosciutto di Cormons del produttore D’Osvaldo, che ha offerto tagliandolo “al coltello” con maestria per tutta la durata della degustazione.

La proposta della serata era incentrata sull’assaggio del bianco Jelka in una verticale delle varie annate dal 2010 al 2004, più il Collio Rosso (uvaggio di cabernet franc, cabernet sauvignon e merlot e il Riserva Ruben (80% merlot, 20% cabernet sauvignon).

Lo Jelka (dal nome della mamma di Roberto) è un blend di malvasia, friulano (ex tocai) e ribolla, vinificato senza lieviti selezionati e senza controllo della temperatura. Parte delle uve fanno una macerazione di circa 12 giorni (ma il periodo varia di anno in anno, in sostanza le bucce vengono tolte al momento della completa conversione degli zuccheri). Affinamento in botte grande e tonneaux.

Senza spaccare il capello con noiose note di degustazione per ogni singola annata, non si può non notare personalità e differenza di ogni bottiglia, pur nella continuità di una riconoscibile linea comune regalata dal territorio: si tratta di vini secchissimi, di buon corpo e alcolicità robusta (13.5 / 14 gradi), minerali, decisamente sapidi e gradevolmente complessi.

Nello specifico: il 2010, pronto ma pur sempre nella sua infanzia, evidenzia enormi potenzialità di invecchiamento, mentre il 2009 e 2006 sono i più rotondi e morbidi del lotto.
Clamoroso il 2004: otto anni sulle spalle e ancora dritto, verticale, freschissimo e sapido, intenso ma delicato e complesso (liquirizia, camomilla), decisamente persistente, pronto ad altrettanto invecchiamento.

Bei vini in vendita ad un prezzo corretto e che, data la spiccata sapidità ed alcolicità, sono adatti all’abbinamento con cibi grassi, succulenti e a tendenza dolce: formaggi non troppo stagionati, salumi, risotti di pesce e crostacei.

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Sughero contro vite: tradizione e ragione.

Curiosa la coincidenza: capita l’ennesima bottiglia non banale cui si disintegra il tappo durante l’apertura e proprio in questo periodo, nel solito giro dei blog enoici, compaiono diversi post dedicati a questa tipologia di chiusura.

Bouchons de vin
Dave Minogue, Bouchons de vin

Parlare della sostituzione del tappo in sughero, tutto sommato un fatto puramente tecnico, equivale a sollevare un piccolo polverone nel mondo del vino, che vive molto di emotività, di tradizioni, di suggestioni e, perché non dirlo, di leggende.

Così, fra gli enostrippati, trovi quelli che sostengono di non poter fare a meno del costume della apertura con annessa snasata e che piuttosto di rinunciare a questa ritualità sono disposti a subire una percentuale di bottiglie puzzolenti; immagino siano le stesse persone che, parlando di libri, sostengono di non poter leggere su e-book in quanto “si perde l’odore della carta”…
E’ anche vero che le preferenze sono personali e come tali non discutibili: chi sono io per rovinarti la cerimonia di taglio della capsula, estrazione e sniffo correlato?

Ci sono poi quelli che adducono ragioni scientifiche per perpetrare la continuità della chiusura in sughero: curiosamente c’è chi dubita della ermeticità delle chiusure alternative e chi al contrario sostiene che solo il sughero permetta lo scambio di ossigeno con l’esterno. Tutto e il suo contrario.
Premesso che non sono un enologo, vedo di riassumere quello che ho capito documentandomi con varie fonti.

Intanto, i fatti.
Pare che le più vecchie testimonianze di chiusura con sughero vadano fatte risalire già in epoca romana, ma la prima applicazione su bottiglie dovrebbe risalire al 1600 in Francia.
Oggi il sughero di qualità è sempre più raro e costoso: si ricava da particolari querce di 25-30 anni, e con successive estrazioni ogni circa 10 anni.
In commercio esistono varie tipologie di tappo in sughero: monopezzo, a due dischi, eccetera.

I problemi accertati.
Il più noto è il famigerato “odore di tappo” (2, 4, 6-tricloroanisolo o TCA, per gli amici) è dovuto alla presenza di una una sostanza organica (un fungo) nel sughero.
L’incidenza di questo fenomeno non è bassa: vari studi statistici ci dicono che circa il 5-7% delle bottiglie incappano nel problema.
Ma, TCA a parte, il problema maggiore della tappatura in sughero è la non uniformità dei risultati della conservazione delle bottiglie anche nel caso di tappi non difettati: le classiche bottiglie stanche, appannate, spente eccetera.

Le soluzioni alternative sono di vario tipo: tappo a corona (il classico “da birra”), sintetico (molto in uso nel caso di vini economici), vetro (in realtà la chiusura è garantita da una guarnizione sintetica, quindi il vetro è solo coreografia), a vite (spesso chiamato anche Stelvin, che in realtà è il brand di un produttore).

La situazione attuale vede il tappo sintetico diffuso nei vini economici e di “pronta beva” e un crescente utilizzo del tappo a vite, in particolare nei mercati con consumatori (e produttori) meno legati alla tradizione (ad esempio Australia, Nuova Zelanda, ma anche Germania).

A quanto pare il tappo sintetico non si adatta al lungo invecchiamento per problemi di tenuta: le osservazioni riportano di vini ossidati dopo alcuni anni.
La chiusura a vite è invece sperimentata con successo da molti produttori storici e di qualità, ma l’uso è limitato da fattori commerciali: il pubblico abbina il sughero alla qualità e la vite a vini più dozzinali.
Il punto che generalmente viene sollevato dagli amanti dell’imbottigliamento con sughero è che una chiusura di questo tipo (se di ottima qualità) permetterebbe un ideale micro-scambio di ossigeno con l’esterno, favorendo una evoluzione controllata del vino.

La riposta a questa affermazione viene indirettamente da un commentatore puntuale come Angelo Peretti, che annuncia come Pierre Frick, Alsaziano bio-tutto, abbia deciso di passare addirittura al tappo a corona. La sua risposta alla classica obiezione della evoluzione del vino è perentoria: “Già da trent’anni Emile Peynaud ha dimostrato che nella bottiglia nessun vino assorbe l’ossigeno dell’aria quando questo è tappato da un eccellente sughero; è proprio perché l’impermeabilità al gas è variabile da un tappo all’altro, che alcuni viticultori mettono della cera sul collo e sul tappo della bottiglia … gli Champagne e i crémant maturano sur latte per anni in bottiglie tappate da capsule. La maturazione del vino è un processo fisico-chimico che non necessita di ossigeno dall’esterno”.

Lo scorso anno, Intravino ha dato notizia di un interessante esperimento condotto da Australian Wine Research Institute e durato oltre 10 anni. Le immagini presenti nell’articolo e tratte dal pdf che illustra la ricerca, dicono più di mille parole.

Ci sono evidenze fondate che l’uso del tappo a vite non abbia conseguenze organolettiche nefaste, anzi: sul sito di Slow Wine, la notizia del recente Decreto che autorizza l’uso del tappo a vite anche sui vini DOCG, è corredata da alcune impressioni di assaggio comparata di alcune etichette prestigiose in sughero e in vite.
Il risultato in breve: immediatamente dopo l’apertura i vini con tappo a vite sono più chiusi, ma bastano pochi minuti per renderli più espressivi dei fratelli conservati con sughero.

In Italia, uno dei sostenitori più convinti della chiusura a vite è certamente Armin Kobler, che ha spiegato più volte le motivazioni della sua scelta, basate su prove empiriche e conoscenza scientifica.

Ad ulteriore confutazione della tesi degli amanti del sughero, mi pare di capire che in commercio esistano varie tipologie di tappo a vite, più o meno permeabili all’ossigeno, permettendo quindi uno scambio controllato con l’esterno.

Per finire, i dati disponibili concordano nel dire che la chiusura a vite permette di utilizzare dosaggi minori di solforosa rispetto al classico imbottigliamento in sughero.

In conclusione, per quanto riguarda i grandi vini da invecchiamento ci può essere forse qualche margine di discussione, ma credo che nessuno (esclusi gli amanti delle ritualità) possa avere nulla da ridire riguardo l’uso della chiusura a vite perlomeno nel caso di vini bianchi di varia tipologia, rosati e rossi da bersi entro un periodo non particolarmente lungo (5 anni?). I vantaggi sono evidenti: nessuna bottiglia “tappata” da buttare e totale uniformità del lotto di produzione (produttore e consumatore sono tutelati al massimo).

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Forster Ungeheuer Riesling Spatlese 2004, Werlé Erben

Ancora riesling, da un produttore piccolo e poco noto (praticamente non si trovano notizie su internet) consigliato dall’amico Tassara della Cantina du Pusu.
Prezzo al pubblico: circa 30 Euro.

Forster Ungeheuer Riesling Spatlese 2004Solito casino tedesco in etichetta, cerchiamo di decodificare: l’azienda è Werlé Erben di Forst, nella regione dello Pfalz (Palatinato)
Il vigneto è Ungeheuer, pare rinomato per la produzione di vini di grande eleganza.

La denominazione è Spatlese, e la vinificazione non è troken (secca) ma “tradizionale”, quindi con residuo (anche se non eccessivo, infatti gli zuccheri sono stati convertiti fino a 10 gradi finali), vinificato in legno e con lieviti autoctoni.

L’aspetto è un bel giallo oro, consistente; olfattivo non potente, delicato, tenue, fine. Si inizia a avvertire il mitico idrocarburo, poi mela verde, pera, frutta disidratata.

La dolcezza è percettibile ma per nulla eccessiva o fastidiosa, anche perché c’è l’elevata e controllata acidità a bilanciare. Il corpo è importante.

Direi che si beve bene con formaggi di media stagionatura, crostacei, cucina orientale agrodolce; si potrebbe tentare anche con qualche cibo piccante, ma il punto è che la bevuta è inarrestabile: una di quelle bottiglie che una volta aperta si finisce benissimo da sola.

In definitiva un grande vino, elegante, ricco e composto. Particolarmente consigliato in ragione del prezzo del tutto adeguato, seppur non popolare.

 [Aggiornamento: ecco la guida alla classificazione]

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Birre USA all’Irish Pub

L’Irish di Genova Quinto è un pub storico del capoluogo ligure, uno dei primi che in tempi remoti (quando l’interesse per le birre di qualità era affare da “pionieri”), ha avuto in carta un numero considerevole di etichette di rilievo.

Da molto non frequentavo il locale, a causa di una serata abbastanza infelice: non tanto per il cibo, che all’Irish è sempre stato un po’ così (del resto trattasi appunto di “pub”, non certo di ristorante), ma soprattutto perché avevo trovato la selezione delle bottiglie abbastanza sguarnita e un paio di spine non proprio in forma, anzi…

Una serata a tema, incentrata sulle birre USA e condotta dal solito Kuaska (potenzialmente molto interessante, visto che in zona le produzioni birrarie indipendenti americane sono poco reperibili) mi ha dato modo di rimetterci piede.

Irish Birre USA

L’ambiente è sempre lo stesso, nel  bene e nel male: rustico e caldo, un bel pub, con tavolini troppo piccoli e panche per sedersi. Spine non male, una decina mi pare: ricordo un paio di tedesche, un paio di Brewdog,  una Brewfist, una Chimay. Colpevolmente, non ho consultato la carta delle bottiglie.

Tema della cena: birre e cibo USA, ecco i dettagli:
– Pancake alla birra con pancetta con “Morimoto Imperial Pils”, Rogue Ales, Newport (Oregon)
– Cheddar Soup con “Red Giant”,  Element Brewing Company, Millers Falls (Massachussets)
– Quaglia al forno con salsa agrodolce (panna, funghi e marmellata di ciliegie) con “Shakespeare Oatmeal Stout”, Rogue Ales, Newport (Oregon)
– Peanuts Butter Cake con “Bam Biere”, Jolly Pumpkin Artisan Ale, Dexter (Michigan)

Considerazioni: la qualità delle portate è sempre quella… direi che in questo senso l’Irish è un locale irrisolto, nasce come pub e immagino abbia competenze culinarie adeguate a quel ruolo; quando tenta qualcosa in più non riesce del tutto.
Nella fattispecie, i pancake erano freddi (per fortuna non la pancetta), la zuppa non male, le quaglie senza infamia e senza lode e la torta al burro di noccioline (come facilmente immaginabile) un mattone colossale.
Servizio da pub: non mi aspetto certo i fronzoli, e vanno bene tovagliette e tovaglioli di carta, ma mettere in tavola una bottiglia d’acqua e un cestino di pane nell’attesa di iniziare (soliti 30 minuti di ritardo, ormai mi sono rassegnato: vale ad ogni serata) mi sembrerebbe poca fatica, così come credo non sarebbe da rovina cambiare le posate con le portate…

Le birre:
Morimoto Imperial Pils: una “imperial pils”, e ti viene il nervoso solo a sentirla, una denominazione del genere. Persino la bottiglia in ceramica, affrescata con caratteri orientali è tanto fighetta da farti perdere la pazienza, poi però vedi gli ingredienti (100% malto pilsner, 100% luppolo Sterling, lievito cieco. Niente strambismi, finalmente!), la osservi, la assaggi e cambi idea.
Dorata, lievemente opalescente, schiuma un poco grossolana; naso ricchissimo di miele di acacia con accenni erbacei. In bocca, dati gli oltre 70 IBU, dovrebbe essere una delle bombe amare che tanto vanno di moda, invece il malto bilancia benissimo e la scia piacevolmente amara resta solo a fine sorso. Che gran connubio malto-luppolo!
Abbinamento strampalato ma funzionante: l’amaricatura robusta riesce a diluire la grassezza della pancetta calda e la dolcezza delle pancakes.

Shakespeare Oatmeal Stout. Birra contraddittoria, sia perché non mi pare troppo in linea con lo stile dichiarato (che vorrebbe una luppolatura più morbida rispetto a questi 69 IBU di Cascade e Perle), sia perché è tanto poco interessante al naso (non si sente quasi nulla, e mai si sospetterebbe l’uso del Cascade: bottiglia non recentissima?), quanto piacevole al palato: caffè, cioccolato e un tocco di affumicato e di salmastro; corpo piacevolmente leggero, si beve benissimo.

Red Giant: boh. Mi è scivolata via senza particolari impressioni. Birra per me molto anonima.

Bam Biere. Delusione della serata, data l’importanza del birrificio; forse anche stroncata da un abbinamento criminale, deciso dalla padrona del locale.
Fermentazione secondaria in botte, con lieviti selvaggi e si sente: lattico, terra, un filo di speziatura, legno. Naso dunque complesso, anche se non troppo fine (il legno la marca molto), pur parlando di birre acide. Il problema è in bocca: molto più semplice e tranquilla, limonosa e corta, troppo corta. La immagino bene per un aperitivo.

Serata interessante e prezzo corretto, considerando le birre non banali e il solito superlavoro di Kuaska.

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Bibenda 2013: il peso della conoscenza

Bibenda

Come tutti coloro che hanno versato il dovuto obolo ad AIS, in questi giorni ho ricevuto la mattonosa guida dei vini redatta dalla blasonata associazione.
Novità: il tomo non si intitola più “Duemila Vini”, ma “Bibenda” (tralascio per carità di patria, tutto lo spiegone sugli antefatti di questa decisione: altri lo hanno fatto prima di me) e a questo giro nelle 2048(!) pagine ci sono anche la segnalazione di 1659(!!) ristoranti. Prezzo al pubblico: 44 Euro.

Guida BibendaOra, non so bene da dove iniziare e come dirlo, infondo io resto un iscritto, ho fatto il corso (che sicuramente mi ha insegnato tanto), ho  preso il diplomino di rito e credo che, dietro lo spencer, alla base dell’AIS ci siano tante ottime persone (magari ai vertici non proprio tutti, ma insomma…), ma il punto è che questa guida è un grande, magniloquente, pomposo sforzo finito male.

E’ noto che AIS ha una attenzione quasi maniacale all’immagine (esempi: quando mi sono iscritto mi hanno fatto accettare il regolamento che impone come dovrei vestirmi nel caso svolgessi un servizio, e per ricevere il diploma c’era un dress-code così rigoroso che neppure ad una cerimonia di laurea di Oxford), poi però mette online un obbrobrio di sito in cui, per dirne una, non è possibile lasciare un commento ad un articolo; ha come mission quella di “valorizzare la cultura del vino” e poi, se da un lato elogia come  come “miglior programma di comunicazione del vino” la Prova del Cuoco della Antonellina nazionale, dall’altro, per penna di un editoriale del presidente di Bidenda Franco Ricci, se la prende con quei pelandroni degli eno-blogger.
Possiamo dire che l’Associazione sembra dibattersi tra due anime, una paludata e una che vorrebbe agganciarsi al treno dei tempi; peccato spesso vinca la prima, che tende ad assomigliare ad un vecchio hotel di lusso tutto boiserie, ormai un poco fané.

Ovviamente la guida rispecchia quanto sopra: c’è la copertina rigida cartonata di colore sfarzoso e la carta di buona qualità, ci sono le schede a colori, la sezione introduttiva con un divulgativo ben fatto sul metodo di degustazione del vino e su quello Mercadini di abbinamento con il cibo, ci sono gli utili elenchi delle DOC, delle DOCG, dei prodotti DOP e IGP, ma in cambio ti becchi anche la imprescindibile, poetica introduzione del Ricci che non perde occasione per polemizzare con “certi tromboni che sull’altare del puro e pulito, inventano un vino migliore confondendo una bio vigna con la cantina ” e per dichiarare che il suo sogno “è la scomparsa delle denominazioni di origine”

Ricci a parte, il problema è il core-business della guida: francamente non ci si capacita di come si possa, ormai ad un passo dall’approssimarsi del catastrofico 21 Dicembre Maya, non appisolarsi alla lettura della decima scheda in cui si snocciolano i canonici descrittori psichedelici (un tipico esempio a pag. 281: “… fresche note di fiori di montagna, artemisia, achillea, genziana, poi fragoline ed eleganti note speziate”), accompagnati dalla usuale iconografia grappolesca; forse è per prevenire l’abbiocco che in chiusura di ogni vino recensito viene piazzato il colpo da maestro del perfetto sommelier: l’abbinamento consigliato sotto forma di perentorio ditkat  (esempio, apro a caso: pag. 285, scopriamo che il Langhe rosso di Roddolo si abbina con “Lepre al civet”. Punto. Pag. 1038: il Nectar Dei di Nittardi deve sposare “petti di pollastra allo Chambertin”. Punto e a capo. Pag. 1289: un Lacrima di Morro Mancinelli chiede “polpettone farcito”, chissà farcito di che cosa… e via sentenziando).

Surreale la scheda dedicata a Gravner: “… a chiusura della guida 2013 ci siamo accorti che dalla azienda Gravner non ci sono arrivati i campioni dell’annata 2006 … siamo saliti fino ad Oslavia, camminato insieme a lui nelle sue vigne…”.
Oltretutto i vini di Gravner sono gli unici (almeno, credo: ho sfogliato il volume ma non voglio millantare di aver letto tutto) ad essere chissà perché svincolati dall’apodittico aforisma sull’abbinamento.

Gran finale con le “recensioni” dei ristoranti: 1659 verdetti da due-righe-due ciascuno, ovviamente tutti entusiasti, visto che i locali elencati variano in punteggio da 5 Baci (“Luoghi dell’eccellenza”) a un Bacio (“Ristorazione da provare per la finezza e l’attenzione alle tradizioni”)

Giudizio critico sintetico finale: che senso ha un librone del genere?

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St. Peter’s India Pale Ale, o dell’ordinario birrario

Mi capita raramente di assaggiare birre di St. Peters Brewery, e tutte le volte ho l’impressione che manchi sempre un centesimo per fare una lira.

Mi spiego: come fai a non pensare bene di questo birrificio inglese del Suffolk, che in tempi non sospetti ha contribuito a preservare la leggenda delle real ales con prodotti di buon livello, rigorosamente rispettosi della tradizione?
Come fai a non provare simpatia per un produttore che non si lascia invischiare nelle solite mode delle birre one-shot, delle collaborazioni, delle birre “famolostrano” (quelle che Kuaska chiama “birre Disneyland”)?
E poi la bottiglia è elegante e il formato da 50cl a me piace molto…

Quindi tutto a posto? No, purtroppo, perché appunto ogni volta che mi capita una St. Peter’s per le mani non sono mai convinto fino in fondo.
Ieri sera ho preso una bottiglia di India Pale Ale (in un pub, pagata 5 Euro) e l’ho trovata poco felice: colore ambrato leggermente spento, schiuma non abbondante e abbastanza evanescente e grossolana.

Naso a posto: biscotto e un bel luppolo inglese discretamente presente ed elegante, almeno rispetto a certe bombe resinose che vanno oggi per la maggiore.

I problemi maggiori sono in bocca: carbonica lieve, corpo medio e deciso sentore di frutta secca (noce, nocciola), biscotto, caramello, che in qualche modo mal si amalgama con un amaro poco pervenuto e con una lieve dolcezza burrosa.
In sostanza: due o tre sorsi possono andare, ma finire la bottiglia è pesante, e questo non è certo un complimento per un prodotto che credo vorrebbe appartenere alla categoria delle “session beer”.

Viene persino il dubbio che si tratti di una bottiglia poco felice, magari rimasta da tempo sullo scaffale, visto che il pub in cui la ho consumata non è certo luogo di particolare smercio per le particolarità birrarie.

Boh, riproveremo.

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