ONAV a Lavagna: buona la prima

Accademia dei saporiPrima uscita per ONAV nel Tigullio, precisamente a Lavagna, e direi un successo, visto che l’evento di venerdì 30 Novembre è stato replicato anche il giorno seguente a causa delle numerose richieste pervenute.

La struttura in cui si è svolto l’evento è l’Accademia dei Sapori, associazione che propone una vasta gamma di corsi dedicati all’enogastronomia, ed è ubicata una bella villetta in un parco facilmente accessibile.

Brunelli

Si trattava di una degustazione di 7 Brunello di Montalcino, condotta dal noto Franco Ziliani, giornalista di eno-cose da lunga data e tenutario di due blog a tema (Vino al vino e Le mille bolle blog).

I vini in assaggio erano:

Confesso la mia scarsa dimestichezza con il Brunello: il prezzo medio della denominazione e il mio gusto personale (sono più un “bianchista” e comunque non un grande amante del Sangiovese) mi hanno fatto frequentare poche bottiglie di questa importantissima DOCG; anche per questo motivo ero particolarmente curioso di immergermi nella panoramica.
Le indicazioni di Ziliani: il 2007 è stata una buona annata, non memorabile, abbastanza calda e quindi enfatizzante il fruttato e la dolcezza dei tannini, risultando in un vino subito piacevole e pronto.
Il 2004 è stato presentato anche esso come un millesimo non formidabile, ma comunque migliore.

BrunelliLe mie brevi note di degustazione, scegliendo quello che più mi ha colpito: tutti vini  territoriali e tradizionali (bel frutto di ciliegia, colori scarichi e no barrique, per capirci).
Fattoria dei Barbi è sembrato a tutti il più ruvido e scomposto, mentre Le Potazzine era forse il vino più pronto: molto pulito e fine (forse anche troppo precisino).
San Lorenzo è il 2007 che ho preferito: colore un poco più intenso della media, naso ben delineato, con la ciliegia matura in evidenza, ma anche una certa aromaticità. In bocca è estremamente fresco, sapido e ha un bel corpo pieno.
Poggio al Vento: un cru prestigioso che si presenta subito con un olfattivo decisamente più profondo dei vini precedenti, infatti occorre scomodare molti descrittori: ciliegia, floreale, speziato, selvatico e boschivo. All’assaggio risulta un tannino vellutato, finissimo e notevole freschezza. Un vino ancora giovane ma già importante.

Le conclusioni: direi che per una “prima volta” è andato tutto bene: la struttura è carina, magari un poco troppo piccola per eventi di questo tipo (da qui la necessità di replica) e l’aula poteva essere illuminata meglio, ma sono difetti veniali. Attendo con impazienza i prossimi appuntamenti.

Franco Ziliani

Una cenno sul relatore: Ziliani, ovviamente preparatissimo e profondo conoscitore sia del territorio che delle aziende, ha parlato per oltre un’ora e mezza a braccio, seguendo un percorso coerente e fruibile dai più e dai meno esperti, senza omettere un appassionato ricordo dei recenti scandali avvenuti nella denominazione. Bravo!

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Oops! he did it again

BibendaFranco Ricci l’ha fatto ancora: al dilagante, strisciante pauperismo che subdolamente insidia le fondamenta del nostro moderno modus vivendi occidentale, ancora una volta ha contrapposto la sua lucida visione neo-keynesiana nel quale lo stimolo alla domanda aggregata non viene dallo Stato ma dal consumatore di vino e caviale: l’incipit del numero 43 della patinatissima rivista di Bibenda è una folgorante asserzione di intenti: “Capodanno col botto”.

Il sottotitolo vale un puntuale pamphlet di dottrina economica: “E’ un’incitazione al coraggio. Il coraggio di un ottimismo oggi indispensabile. Il lusso è un lusso che per una volta, per l’inizio di un anno, è possibile provare con gli amici e i compagni del cuore. Le nostre istruzioni anche per i palati difficili”.

Dunque, secondo la rivista sapientemente diretta dal maître à penser romano, la via maestra per sfuggire alle “opportunistiche logiche delle tante cassandre che sguazzano e traggono profitto dalla crisi di turno” è tanto semplice quanto geniale: “vivere secondo un ottimismo realistico”.
Certo, qualche scettica cornacchia potrebbe arcuare il sopracciglio e alzare il ditino per condannare un presunto eccesso di edonismo, malsopportabile in tempi di crisi, ma il saggio consesso delle menti di Bibenda anticipa e frantuma l’obiezione: “… quello che vi proponiamo … non è una mera lista di beni di lusso da ostentare, piuttosto il massimo che ciascuna categoria di prodotto l’uomo ha saputo cogliere dalla terra o realizzare … il solo lusso presente sarete voi, unici e senza eguali.”

Ma gli esperti del New Deal Bibendesco non si limitano ad affermazioni generiche, e mettono nero su bianco la ricetta per aggredire la crisi, trasformandola (tramite la ricerca del Piacere), in roboante opportunità epicurea di rinascita e di affermazione di un Nuovo Uomo.
E leggiamoli, finalmente, alcuni dei consigli per gli acquisti proposti dai Virtuosi di Bibenda: “Tartufo bianco d’Alba: 400 euro l’etto”, “Aceto balsamco tradizionale di Modena DOP 50 anni Acetaia Malpighi: 220 euro per 100 ml”, “Zafferano purissimo di Cascia: 240 euro l’etto”, “Caviale Almas caviar Beluga del Mar Caspio: 2500 euro l’etto”, “Champagne Clos du Mesnil 2000: 1.100 euro a bottiglia”, “Romanée-Conti Grand Cru 2002: 10.000 euro a bottiglia”.
Ci fermiamo qui per non rovinarvi la sorpresa di scoprire da soli con quali materie prime armare la miccia del vostro Ottimista e Anticrisi Cenone Col Botto.

Per parte mia, ancora una volta non posso che dimostrarmi ammirato per il coraggio, la lungimiranza e la cristallina visione del mondo contemporaneo dimostrata dall’intraprendente team di Bibenda, sapientemente gudato dal visionario nocchiero Ricci.

(Certo, deve girarne di roba buona dalle parti di Roma…).

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Lenza, un Franciacorta outsider

Amo i vini bianchi e amo le bollicine.

Lo spumante metodo classico italiano per antonomasia è ormai il Franciacorta (ok, lo so che non posso usare i termini generici “spumante” e “bollicine”, e se Maurizio Zanella, il presidente del Consorzio per la Tutela del Franciacorta, dovesse leggere queste righe mi bacchetterebbe, ma ce ne faremo una ragione), anche se si potrebbe discutere a lungo su tante aziende di questa zona, sulle cuvée base di molti marchi blasonati e su prezzi mediamente non popolari.
Seriamente: l’espressione “Franciacorta”, caso unico nel panorama italiano, identifica un vino DOCG, un territorio (in provincia di Brescia, vicino alla parte meridionale del lago di Iseo) e un metodo di produzione (il famoso metodo classico della rifermentazione in bottiglia).

Nello specifico, la degustazione di questo venerdì presso la solita Cantina du Pusu di Rapallo, presentava la gamma di un produttore di Franciacorta tanto storico quanto poco noto al grande pubblico e non pervenuto sulle varie guide: l’Azienda Agricola Lenza.
L’azienda esiste dal 1967, è stata la prima della zona a produrre le tipologie rosé ed extra brut ed ha la particolarità di coltivare su colline terrazzate a circa 350 metri di altitudine.

E’ stata l’occasione per assaggiare un nuovo prodotto, il brut Levi: uno spumante bollicina metodo classico Franciacorta (contento, Maurizio?) da chardonnay 100%, fresco e facile, che staziona comunque 24 mesi sui lieviti (quando il minimo consentito dal disciplinare è 18), e che nelle preferenze di chi è intervenuto ha battuto il brut “storico” della casa, pure lui chardonnay in purezza, ma con 48 mesi di affinamento sui lieviti.

Terzo vino presentato, l’extra brut (chardonnay 90%, pinot bianco 10%, ben 72 mesi di affinamento), forse il prodotto che ho preferito: complesso ma non difficile, secchissimo (direi quasi un pas dosé), senza eccessi amarognoli nel finale, abbastanza lungo. Come si dice in questi casi, da berne a secchi.

Quarto vino, una tipologia che personalmente non amo ma che ha una sua nicchia di consumatori ben definita: il Saten (60 mesi sui lieviti). In realtà Lenza, non ho ben capito per quale motivo, lo chiama Cremant, ma di fatto la metodologia di produzione (chardonnay 100%, sovrapressione inferiore rispetto ai soliti 6 bar, leggero dosaggio) è quella appunto del Saten. Devo ammettere che, pur non essendo il mio territorio gustativo di elezione, la morbidezza non è eccessiva, impedendo di scadere nello stucchevole. Ad occhio, direi che è stato il preferito dal pubblico femminile.

Ultimo vino, il Rosè. Si tratta di un non dosato prodotto con una sorta di metodo solera da uve 100% pinot nero (e si sente per la pienezza del gusto, terroso e lampone in testa, e per il corpo decisamente presente). Io ho trovato anche un accenno di tannino, che da quanto mi dicono dovrebbe provenire non dal contatto con le bucce ma dal legno. Sicuramente un vino molto particolare, non adatto a tutti i palati e di certo da consumare pasteggiando, magari con pietanze sostanziose. Anche il prezzo non è per tutti: siamo sui 35 euro.

In conclusione, una bella gamma di vini, con prezzo adeguato (discutibile solo il rosé), nella quale riscontro una certa sovrapposizione tra i due brut, e non è difficile immaginare che a breve il secondo possa sparire per lasciare spazio al più fresco, differenziandolo meglio dal extra brut.

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Vini naturali: addendum

Solo un piccolo post di servizio per dirmi soddisfatto del fatto di non essere isolato nella mia posizione su vini naturali, biologici e biodinamici: leggo oggi sul blog Primobicchiere riflessioni e collegamenti ad altri autori che sono sulla mia stessa stessa lunghezza d’onda.
Non che il mio pensiero sia particolarmente originale, sia chiaro, ma fa sempre piacere trovarsi in buona compagnia, e si spera che le idee sensate e razionalmente fondate si diffondano sempre di più.

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Vini naturali: moda o cultura?

“Fosfato diammonico, Dicloridrato di tiamina, Anidride solforosa, Bisolfito di potassio, Carbone per uso enologico, Gelatina alimentare, Proteine vegetali ottenute da frumento o piselli, Colla di pesce, Ovoalbumina, Tannini, Caseina, Caseinato di potassio, Diossido di silicio, Bentonite, Enzimi pectolitici, Acido lattico, Acido L tartarico, Carbonato di calcio, Tartrato neutro di potassio, Bicarbonato di potassio, Batteri lattici, Acido L-ascorbico, Azoto, Anidride carbonica, Acido citrico, Acido metatartarico, Gomma d’acacia (gomma arabica), Bitartrato di potassio, Citrato rameico, Solfato di rame, Pezzi di legno di quercia, Alginato di potassio, Solfato di calcio”.

Queste sopra sono le sostanze autorizzate nell’uso nella produzione biologica di vino, secondo il regolamento di Esecuzione 203/2012 della Commissione Europea dell’8 marzo 2012.
Così, tanto per far capire cosa si intende quando si parla di “vino biologico” secondo la legge.

BiologicoDetto questo, il vino “biologico”, “biodinamico”, “naturale”, è sempre più sulla bocca dei consumatori, in parte come conseguenza di una ricerca più generale di stili di vita salutari (vedi i vari negozi “bio”), in parte per la recente moda dei cibi “di qualità” (il successo di Eataly ne è il simbolo), ma anche come fuga da una certa massificazione del gusto.
Sono infatti passati i tempi in cui si poteva incappare in vini cattivi: le moderne pratiche enologiche hanno fatto in modo che in enoteca, ma anche al supermercato, si possano trovare la stragrande maggioranza di bottiglie tecnicamente ineccepibili, a prezzo però di una netta mancanza di identità: i procedimenti standardizzati generano vini esenti da difetti ma scarsamente identitari.

Della biodinamica abbiamo parlato in precedenza, e del biologico abbiamo detto in apertura. Il tutto ricade nel grande cappello del “vino naturale”, locuzione abbastanza fumosa, perché pur non esistendo neppure una definizione “ufficiale” (anzi, per gli enotecari è persino pericoloso usare il termine), in Italia si contano ormai diverse (troppe) associazioni di produttori che ambiscono di potersi fregiare dell’espressione in voga. Andrea Scanzi, uno dei massimi osservatori del fenomeno, ha spiegato tutto con una frase: “i vinoveristi hanno più partiti che bottiglie. In confronto, la sinistra extraparlamentare è coesa”.
Se poi aggiungiamo che, in perfetto spirito italiano, spesso tra i vari consorzi e associazioni non corre buon sangue, si capisce quanto possa essere poco comprensibile la situazione per i consumatori.

Alla fine, il minimo denominatore comune è quello del massimo rispetto possibile della natura durante la coltivazione della vigna (no ai fitofarmaci ed ai concimi chimici, per esempio) e il rifuggire dalle pratiche spericolate in cantina (in sostanza, produzioni più tradizionali ma condotte con consapevolezza moderna, ad esempio con estremo rigore per igene e travasi, senza addizioni di sostanze magiche e senza interventi dell’enlogo-guru di turno).
Ne risultano vini certamente meno massificati nel gusto, non globalizzati nell’aspetto e all’olfatto, a volte magari più scorbutici, sicuramente di resa meno costante ma di certo più personali e unici.

Tutte cose ragionevoli, visto che oggi, al di là delle mode (che ieri imponevano il vino fruttatissimo o barricato e oggi dettano le nuove parole d’ordine di acidità e mineralità), è in atto un mutamento del gusto degli appassionati: data per scontata la qualità minima sindacale, il bevitore moderno cerca nel bicchiere una piccola avventura, la capacità di distinzione da altre mille bevute, l’identità di una zona di produzione, la personalità di un vignaiolo. Cose che un vino prodotto con tecniche modernamente standardizzate e con vitigni internazionali difficilmente si possono ottenere.

Certo, non sempre le cose vanno lisce, perché il rifiuto di tecniche ben consolidate porta talvolta (sempre meno spesso, per la verità) a bottiglie se non difettate, perlomeno borderline (in questi casi, si dice pietosamente “difficili da capire”).
La drastica diminuzione di questi incidenti va a tutto vantaggio del consumatore che può così accedere con una certa tranquillità a prodotti interessanti e piacevolmente diversi, più digeribili e prodotti nel rispetto dell’ambiente.

A parte quanto sopra, credo occorra fare la tara a tutte le istanze di naturalità ostentata, e ricordare che il vino è una manipolazione dell’uomo: resta scolpita nel granito la massima di Francesco Paolo Valentini, uno dei campioni della qualità del vino in Italia: “l’uva naturalmente diventa aceto, io sono un produttore di vini artigianali“.
Per parte mia, credo che al di là delle metodologie di produzione, il vino debba essere ben fatto e piacevole; certo, se il vignaiolo non ha usato solforosa e la bottiglia è fantastica, tanto meglio, ma un vino che puzza non ha giustificazione anche se prodotto con uve bio.

Chiudo esprimendo un certo fastidio perché al carro del fenomeno, creato e tirato da agricoltori coscienziosi, mi pare si stiano attaccando anche i personaggi che vedono solo una nuova opportunità di business: se tutto è “naturale” (e con una legislazione come quella riportata in apertura è proprio così), nulla lo è, se non i vini di quei vignaioli che credono davvero nella qualità del loro prodotto e nella salvaguardia del loro ambiente, e se ne infischiano delle certificazioni e dei bollini.

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Viognier Chateau du Trignon 2010: il vino boh…

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 13 Euro]

Perché ci piace bere il vino?

Ciascuno di noi ha le sue motivazioni, ma più o meno possiamo ricondurle al fatto che accompagna bene i pasti, è conviviale, affascina con i suoi colori, aromi e gusti, a volte (non nascondiamolo) si può gradire una leggera ebbrezza.
Per me, e credo anche per molti altri, c’è anche una fascinazione ulteriore: nel caso di annate particolarmente vecchie, il vino ha il potere di farmi pensare a chi ero e cosa facevo in quel millesimo, immaginare i luoghi di produzione e magari desiderare di visitarli.

Credo che sia per questo che amo particolarmente vini con una personalità più spiccata, talvolta magari imperfetti, ma in grado di raccontare una storia o perlomeno capaci di stimolare l’immaginazione. Spesso (ma non sempre e non esclusivamente) queste caratteristiche le ritrovo nel calderone di quelli che sono oggi definiti “vini naturali”, dove con questo termine si intendono genericamente vini prodotti con il minimo intervento umano in cantina e cercando di rispettare per quanto possibile la natura in vigna, anche a costo di rischiare l’annata storta o il difetto.

VIOGNIER 2010 CHATEAU DU TRIGNONQuanto sopra per spiegare perché ho qualche riserva (del tutto personale, sia chiaro) sul vino che di seguito cercherò di raccontare.
Non conoscevo il produttore ma avevo alte aspettative, credendo per vari motivi di trovare nel bicchiere il prodotto di uno dei rappresentanti di questa tendenza “naturale”, per giunta proveniente da una regione francese enologicamente importante come il Rodano, anche se il Rodano in questione è quello meridionale, meno blasonato e più noto per i blend da uve a bacca rossa che per un bianco 100% Viognier.

Appena lo ho assaggiato sono rimasto spiazzato e mi è saltata in testa la definizione di “vino boh”: tutto perfetto, un vino corretto, ben fatto, anche piacevole per carità, però impersonale, dal canonico giallo paglierino con riflessi verdolini e con intensità olfattiva abbastanza scontata di frutta (tropicale, direi ananas) e fiori bianchi.

In bocca è ben saporito, con un tocco di morbidezza ruffiana, sapido e fresco e di corpo e lunghezza discreti; azzarderei a descriverne una piacioneria un poco grossolana e sfacciata.
Insomma, un prodotto precisino che potrebbe provenire dal Rodano come da altre cento zone, con tutte le misure nella media ed esente da alcun difetto; tutto anonimamente “a posto”.

Sicuramente è un vino giovane, ed è possibile che con il tempo spunti fuori qualche nota evolutiva che lo possa caratterizzare maggiormente, ma non mi sento di scommetterci sopra.
In definitiva, un vino che non posso non definire buono, ma che consiglio solo a chi preferisce una bevuta garbata, senza avventure.

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Dinavolo 2006: estremismo al potere

“Orange wine” è la definizione appioppata a quei vini prodotti da uve a bacca bianca che, a causa della lunga macerazione sulle bucce (di fatto, una vinificazione in rosso), hanno ottenuto caratteristiche particolari come ad esempio colore aranciato, corpo rilevante, una certa carica tannica e un corredo aromatico ben particolare.
Tale pratica, cui indulgono solitamente i produttori della cosiddetta stirpe “naturale” (minori interventi possibili sia in vigna che in cantina), non è in realtà nulla di nuovo, anzi semmai il recupero di una lunga e antica tradizione contadina, integrata con le moderne attenzioni e conoscenze.

DinavoloUno dei campioni della categoria dei pesi massimi di questa strana federazione è il Dinavolo della azienda Denavolo (sul serio, non ho sbagliato a scrivere); siamo in provincia di Piacenza, le vigne si trovano ad altezza di circa 500 metri, sono condotte biologicamente, di varietà bianche tipiche della zona come malvasia, ortrugo, trebbiano eccetera.
In cantina, ovviamente lieviti autoctoni, lunghe macerazioni, nessuna aggiunta di solforosa, no al controllo della temperatura, addirittura nessun travaso e filtrazione

Quindi come è questo Dinavolo, quando ha alle spalle ben sei anni di invecchiamento?
Il colore è pazzesco, ambra brillante come se fosse un Sauternes, e il naso è intenso di frutta disidratata e fichi secchi, poi terziari di smalto per unghie e persino un filo di formaggio. C’è una leggera acidità volatile, che è poi una caratteristica di questi vini e, quando ben controllata come in questo caso, contribuisce a renderli vivi e dinamici.

In bocca entra dolce sulla punta della lingua, poi arrivano enormi l’acidità e la sapidità, è freschissimo e sicuramente tannico. Caldo. salmastro, lungo.
Date le altre caratteristiche ti aspetteresti un corpo più potente, invece è ben presente, ma certo non un mattone.

Abbinamento difficile: direi formaggi di media stagionatura o carni speziate, oppure in solitaria, dopo il pasto. Rigorosamente a temperatura ambiente o poco più fresco: il freddo estremizza il tannino e lo rovina inesorabilmente.

Alla fine non si può certo definire fine, composto o addirittura bere da tutti i giorni; semmai un vino affascinante, scorbutico, unico, imperfetto e complesso. Da provare, se si ha il palato avventuroso.
Sui 25/30 euro in enoteca.

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Rossese Anfosso: piccola Borgogna in Liguria

Bella degustazione, quella di ieri presso la Cantina du Pusu di Giovanni Tassara.
Protagonisti dell’ennesimo appuntamento del fine settimana in avvicinamento al Natale , sono stati i Rossese di Tenuta Anfosso.

Tenuta AnfossoFaccio mea culpa: non ho mai dato l’importanza dovuta a questa DOC, forse perché è un nome dal blasone meno scintillante rispetto ad altre denominazioni, forse perché (come spesso accade) ci si interessa più facilmente alle cose lontane rispetto a quelle sottocasa, certamente perché per indole sono più appassionato di vini bianchi.

Sbagliavo, perché la realtà di provenienza è affascinante: territorio impervio, piccole aziende, coltivazione tradizionale ad alberello, vigne spesso decisamente vecchie o antiche (nel caso di Anfosso alcune piante risalgono addirittura al 1888); in aggiunta, le notevoli differenze territoriali e di microclima, danno vita ad una serie di cru dalle caratteristiche particolari ed uniche.
Soprattutto sbagliavo perché la batteria di Anfosso di ieri era addirittura entusiasmante.

Due note al volo sul produttore: 4 ettari di terreno per circa 20.000 bottiglie, coltiva due cru (ma ci ha raccontato di aver appena acquisito un terzo): Luvaira e Poggio Pini. Vinificazione in acciaio con temperature controllate.

I vini assaggiati:

  • Rossese di Dolceacqua 2011
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2010
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2010
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2009
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2008
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2008
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2007
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2007
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2006

Tenuta AnfossoLa traccia comune è quella di vini di grande finezza ed enorme bevibilità, con bei colori vivi e mai concentrati, aromi ricchi di speziatura, tannini mai aggressivi e acidità e sapidità spiccate ma mai fuori controllo: vini di grande equilibrio, finezza ed armonia, certamente perfetti per pasteggiare, pronti fino da subito ma capaci di buon invecchiamento.

Alcuni dettagli dei vini che mi hanno dato più emozione: Il 2010 in entrambi i cru, in particolare il Luvaira, è di beva irresistibile, perfetto già da ora, promette di diventare un campione. Da comperare e dimenticare per alcuni anni, se possibile.
I 2008 risultano essere i più muscolari del lotto, ed iniziano ad evidenziare più nettamente le differenze dei due cru: più “dritto”, fresco, scattante il Luvaira, più evoluto, complesso, ricco il Poggio Pini.
Nel 2007 la distinzione dei due vigneti è nettissima, e, a mio modo di vedere, regala la vittoria al Luvaira, che abbina acidità e mineralità di un ragazzino alla complessità aromatica di un vino evoluto. Grande vino.
Interessantissimo il Poggio Pini 2006:decisamente evoluto, presenta precisa coerenza tra colore granato e gusto-olfattivo ricco di terziari; azzarderei un vino già da dopo pasto.

Da non trascurare: vini così godibili sono acquistabili a prezzi del tutto abbordabili.

 

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Malvasia Skerk: il Carso in bottiglia

Malvasia Skerk

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu nell’ambito della iniziativa “15 recensioni in cerca di autore”. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 20 Euro]

Malvasia SkerkChi legge malvasia non si aspetti un vino dolce, o comunque docile e arrotondato, che qui siamo nel cuore del duro Carso e Skerk è una azienda priva dei bollini bio-tutto tanto di moda ma sicuramente legata ad una produzione veramente tradizionale: circa 20.000 bottiglie l’anno, in vigna vengono usati solo zolfo e rame. in cantina si svolgono lunghe macerazioni in tini aperti, nessun controllo della temperatura, nessuna chiarifica e filtrazione, si usano solo lieviti autoctoni e si limita al massimo la solforosa.

Ne deriva un vino giallo paglierino carico, con una lieve velatura dovuta alla mancanza di chiarifica, all’olfatto abbastanza intenso e di buona complessità: sicuramente minerale (salmastro); si percepisce un tocco di floreale e distintamente la nespola; attendendo e scaldandolo arriva il balsamico e si rivela la aromaticità varietale della malvasia, che sfuma in frutta candita.

In bocca è secchissimo; buona la freschezza, ma a risaltare è la enorme sapidità, evidente richiamo al territorio.
C’è anche un leggero tannino, evidentemente donato dalla lunga macerazione sulle bucce.
L’unico limite che ho riscontrato è una certa carenza di corpo, che, se da un lato rende la bevuta facile nonostante i 13,5 gradi, ne mortifica un poco le grandi potenzialità.

Solitamente sono restio ad usare l’aggettivo “territoriale”, che sembra essere diventato uno degli eno-mantra del periodo, ma se esiste un vino-specchio del suo terroir, di una terra dura, povera e sferzata dal vento, lo è questa Malvasia, che si rivela vino molto interessante, in grado certamente di farsi bere con piacere dai consumatori occasionali, ma soprattutto di raccontare storie e immagini ai bevitori più attenti.

L’abbinamento consigliato sul sito è pesce e carni bianche; secondo me, il grado alcolico e la lieve carica tannica fanno pensare anche a zuppe di pesce o formaggi di media stagionatura.
Direi di servirla appena fresca, per non mortificare lo spettro olfattivo e non indurire il tannino.

 

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Bollinger Special Cuvée: classico senza tempo

Bollinger special cuveeGià dire che ti piace lo Champagne è da sboroni, ma aggiungere che uno di quelli che preferisci è Bollinger rasenta l’indifendibile.

La maison di Ay non è infatti uno dei piccoli récoltant-manipulant che vanno oggi per la maggiore, magari biologici o biodinamici, ma uno dei grandi marchi storici della regione: è stata fondata nel 1829, gestisce oltre 150 ettari di vigne ed è stata una delle prime a capire l’importanza del marketing (quale Champagne pensate bevano molti dei James Bond cinematografici?).

Quindi, a rischio di fare la figura del parvenu arricchito (magari…), mi sono fatto un regalo: ho investito 49 euro in una bottiglia di Bollinger Special Cuvée, uno dei vini che preferisco in assoluto.
Si tratta del prodotto base di Bollinger, come dice il nome stesso una cuvée, quindi un assemblaggio di diverse annate e diversi cru, composto da 60% Pinot nero, 25 Chardonnay, 15 Pinot Meunier.
Le uve provengono quasi totalmente dalla vendemmia dell’anno, più il 10% circa di vini di riserva, che possono essere raggiungere fino a quindici anni di invecchiamento.

I vini base da cui la maison ricava i suoi Champagne, fermentati in legno di rovere, sono ovviamente di livello notevolissimo, basti pensare che l’85% circa dei vigneti di proprietà è classificato Grand Cru o Premier Cru e la vinificazione è fatta solo con la prima spremitura delle uve (2050 Litri ogni 4000 Kg di uva; la seconda spremitura, detta “première taille” viene venduta ad altre cantine).
Inoltre Bollinger lascia maturare sui lieviti per almeno tre anni (i non millesimati, molti di più i grandi vini), contro i quindici mesi previsti dal disciplinare

Ok, bei discorsi, ma alla fine come è questa Special Cuvée?
Giallo dorato brillante, mentre si versa forma una spuma esplosiva: gonfia e persistente, così come le bolle, numerose e finissime e setose, per nulla aggressive al palato.

L’olfattivo è ricchissimo: pan di spagna, limone, ananas, arachidi, leggera speziatura e tostatura.
Ricordo che una volta, a proposito dello stesso vino, lessi il descrittore “olio di semi di girasole” e mi sembrò una minchiata colossale, ma in effetti ce n’è un ricordo.

In bocca è ben secco ma non tagliente, più fresco che sapido, pieno senza essere opulento: la potenza del pinot nero è ben controllata dal corpo e dall’assemblaggio con gli altri vitigni, così come le durezze sono stemperate dalla malolattica e dal leggero dosaggio (otto, nove grammi per litro). Tornano la panificazione e la sensazione citrina.
Finisce elegante, con un retro olfattivo abbastanza lungo.

Sicuramente da consumare a tutto pasto, ma stasera io sono pigro e degusto con prosciutto San Daniele, parmigiano e focaccia genovese: grande abbinamento, semplice e da piacere puro.
Un pochino mi vergogno, pensando che un vino del genere meriti di più, ma poi vedo il sito di Bollinger e sorrido: nei “Pairings” (abbinamenti) consigliati, si indicano tra gli altri “parmesan, prosciutto especially Pata Negra”.

Vale i soldi che costa? Sì, no, forse.
Esiste un vino che valga più di 15 euro? E’ morale spendere quarantanove sacchi per una bottiglia?
Io non so rispondere e so che sicuramente non posso permettermelo tutti i mesi, ma di certo per chi ama le bollicine è una esperienza notevole.
Ci tengo a far notare che uno dei punti di forza di maison come Bollinger è la costanza: quando tiri fuori i soldi sai cosa comperi e sei certo che non ci saranno sorprese.
C’è meno poesia rispetto al “prodotto unico”, forse, ma visto l’impegno economico direi che ne vale la pena.

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