Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte quarta: Zidarich, sul tetto del Golfo di Trieste

Zidarich

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Pioggia… è ancora la pioggia che mi accompagna quando è ora di far rotta verso il Carso, a circa 300 metri di altitudine sul tetto del Golfo di Trieste. La visita da Zidarich sarà per forza di cosa veloce e incompleta, i motivi sono i soliti: la vendemmia è appena terminata con una certa fretta e c’è molto da fare in cantina. Pazienza.

Zidarich

L’arrivo è difficoltoso: l’azienda è inerpicata nella frazione di Prepotto, il navigatore la conosce ma chissà per quale pasticcio con le strade, propone un percorso piuttosto lungo e isolato e quando si arriva non ci sono cartelli o insegne ad indicare la cantina.
Strano, anche in ragione del fatto che Zidarich ha da poco aperto nella stessa struttura anche una “osimiza” (traduco malamente con osteria)…

Ad ogni modo, il maltempo può fare quel che vuole, ma la vista dall’alto sul mare è davvero unica: se ieri eravamo nell’antro di Radikon, qui ci troviamo nel nido di un gabbiano e nessun ostacolo si protende davanti alla collina che scende sul Golfo straordinariamente ampio e profondo per noi liguri, abituati a ben altre asperità.

E’ su questi declivi di roccia calcarea, permeabile e coperta da un sottile strato di terra rossa, totalmente indifesi rispetto al vento che già oggi spazza e che immagino  per molti giorni l’anno ancora più robusto e tagliente,  che crescono gli otto ettari aziendali piantati a Vitrovska, Malvasia, Sauvignon, Terrano e Merlot, da cui si ricavano circa 25.000 bottiglie l’anno.

La costruzione che ospita cantina e osimiza è sicuramente affascinante: terminata recentemente, si sviluppa su vari livelli, da quello superiore tutto vetrate fino a scendere a venti metri di profondità nella roccia scavata in nicchie, anfratti e gallerie, tenute a bada da volte in pietra.

Zidarich

Le vinificazioni sono improntate a quel rigore naturalistico che ormai bene conosciamo: massima selezione in vigna, lieviti autoctoni, macerazione anche per i bianchi (molto meno pronunciata rispetto a quanto accade con i vini di Radikon) , nessuna filtrazione, affinamento in grandi botti di rovere, minima aggiunta di solforosa.
Ne risultano vini particolari ma non estremi, molto personali ma che a mio modo di vedere non travalicano i confini della piacevolezza di bevibilità e che immagino possano essere graditi anche ai non fanatici della naturalità.
I canoni comuni sono quelli di una lieve opalescenza visiva (causata evidentemente dalla non filtrazione), di ottima freschezza e soprattutto da evidente ed estrema mineralità, declinata in sapidità e aromi di pietra focaia.
Nel dettaglio, la Malvasia 2011, olfattivamente ricca di frutta gialla matura e miele, in bocca è comunque bella affilata e non stucchevole; il Prulke 2011(uvaggio di Sauvignon, Malvasia e Vitovska) è più complesso, cangiante, vira dal floreale e aggrumato fino alla albicocca disidratata, con un sorso teso e scattante.
Il pezzo più pregiato del bianchi è  la Vitovska 2011, vitigno locale un tempo un po’ bistrattato e ora in gran spolvero; c’è tutto per definirlo un grande vino, l’olfattivo è ricchissimo e cangiante, floreale di camomilla, spezie, agrume, minerale… Bevibilità stellare e buona lunghezza.
Tutti vini bianchi (o meglio, orange) da servire a temperature da rosso giovane, in modo da placare la leggera tannicità e non mortificare il notevole spettro aromatico.
Una sorpresa bella e interessante il Terrano (dal nome del vitigno omonimo, autoctono, del quale non avevo mai assaggiato nulla): colore rubino accesissimo, fragranza di frutti di bosco, leggera speziatura e acidità spiccata. Mi sembra molto bevibile e lo immagino ottimo in accompagnamento a salumi.

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte terza: l’antro dell’alchimista Stanislao Radikon

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Per la terza tappa del mio personale avvicinamento alla cornucopia dei produttori Friulani occorre inerpicarsi sulle alture che, dalle spalle di Gorizia conducono al colle di San Floriano, in luoghi tristemente noti per i caduti delle battaglie della Prima Guerra Mondiale, celebrati appunto nel Sacrario Militare di Oslavia.

In un’era di navigatori e telefonia mobile sembra facile trovare un indirizzo, tanto più se si tratta di quello di un produttore così noto come Radikon; in realtà il cellulare non funziona, perché siamo a pochi passi dal confine sloveno e l’oggetto decide di scegliere l’operatore in roaming, e il GPS è in difficoltà a condurmi a Località Tre Buchi n.4.
Alla fine, e l’episodio credo la dica lunga sulla filosofia aziendale, son costretto a scendere dall’auto e vagare sotto la pioggia verso l’unica casa che probabilisticamente può essere la mia meta, peccato che non sia presente alcun cartello o insegna; mi deciderò a bussare solo dopo aver notato sul retro alcune cassette con stampata sopra la ragione sociale…

RadikonL’importante è arrivare in qualche modo, peccato che l’appuntamento concordato sia passato in secondo piano (se non proprio dimenticato) a causa della pioggia, che minaccia il merlot ancora da raccogliere: gli altri produttori hanno vendemmiato tutto da diversi giorni, ma Stanislao Radikon ha voluto rischiare e ora è impegnato in vigna.
Vengo comunque accolto dalla moglie Suzana, che mi mostra le pendenze che ospitano i dieci ettari: siamo su un territorio posizionato a poco meno di 200 metri di altitudine, ben ventilato ed esposto a notevoli escursioni termiche, di composizione argillosa, che in profondità si compatta fin quasi a diventare roccia e che, a causa dello scoscendimento, può essere lavorato per la maggior parte solo manualmente,

Radikon

Si entra in cantina, dove Saša, il figlio di Stanislao, pur se assai indaffarato si ritaglia qualche minuto per parlare con me; proprio la figura di questo giovane vignaiolo sarà uno dei momenti più interessanti della visita: Saša è laureato in viticultura ed enologia, e il suo approccio pragmatico alla vinificazione è un interessante contrasto con l’immagine dogmatica della cultura aziendale che mi ero autonomamente creato, leggendo e assaggiando i vini.
Un passo indietro: Radikon, di cui ho già scritto qualcosa in passato, è uno dei beniamini degli amanti dei cosiddetti “vini naturali”: già dalla fine degli anni ottanta ha iniziato a percorrere al contrario la vicenda della tecnologia applicata al vino, quindi via l’acciaio per tornare al legno, reintroduzione alle lunghe fermentazioni sulle bucce anche per i vini bianchi, fino ad arrivare nel 1999 alla eliminazione di qualsiasi aggiunta di solforosa. In pratica tutte le sostanze utili alla conservazione anti-ossidativa vengono estratte dalle bucce, ma la condizione affinché questo procedimento (rischioso, come mi conferma Saša, in particolare nel caso di esportazione delle bottiglie) abbia successo è la perfetta salute dell’uva quando arriva in cantina, di qui la necessità di una selezione feroce in pianta.
RadikonE il contrasto di cui dicevo prima è anche visivo: la cantina della famiglia Radikon, piuttosto buia, con la roccia a vista e colma di vecchie botti in legno, forse anche a causa della suggestione dei vini lì dentro prodotti in maniera quasi ancestrale,  in qualche modo ricorda l’antro di un alchimista.
Un alchimista al contrario, visto che il procedimento è semplice ed è basato sulla sottrazione piuttosto che sulla aggiunta di sostanze miracolose: si diraspa e si esegue la fermentazione sulle bucce in botti da 25-35 hl effettuando frequenti follature, senza aggiungere alcun lievito; quando la fermentazione alcolica è terminata si sigilla la botte, lasciando le bucce sul fondo. Segue poi l’affinamento (e sono anni: tre, quattro… dipende) e l’imbottigliamento, quindi ancora circa un anno di attesa prima di andare in commercio. Fine. Su questa base, Stanislao ha sperimentato negli anni, allungando e perfezionando la tecnica della macerazione, modificando gli affinamenti, sia in funzione del millesimo che delle proprie convinzioni.

DSC_0494Il risultato di tanto impegno lo scopro quando ci si trasferisce in sala ed è il momento di assaggiare qualcosa assieme alla signora Suzana: si inizia con i vini più semplici, ideati e prodotti da poco tempo in autonomia da Saša, si tratta dello Slatnik (Chardonnay 80% e Friulano 20%) e del Pinot Grigio. In questo caso la macerazione è limitata a una quindicina di giorni circa, l’affinamento a 18 mesi e c’è una leggera solfitazione; ne risultano vini di certo più freschi e semplici da bere, comunque ricchi di profumi e gustosi, a mio parere anche più facili da abbinare nei pasti. Certo, meno unici.

I pezzi da novanta, i vini per cui Radikon è famoso, sono però altri: lo Jakot (significativamente Tokaj scritto alla rovescia, si tratta di Friulano al 100%), la Ribolla, l’Oslavje (un blend di Sauvignon, Pinot Grigio e Chardonnay) e il Merlot.
Lo Jakot 2007 è giallo dorato, lucente nonostante la mancanza di filtrazione, intenso, con una discreta aromaticità che non oltrepassa mai il limite dello stucchevole, buon corpo e tanta freschezza. Tra i vini di questa seconda batteria, quelli con macerazione “estrema”, mi pare quello più abbordabile per il pubblico comune.
La Ribolla (ho assaggiato il 2004 e uno stupefacente 1999) è il vitigno principe, sia perché tradizionale per la zona, sia perché la buccia molto spessa ben si presta alle lunghe macerazioni.
Il 2004, di colore ambrato, è olfattivamente ricchissimo: frutta gialla, floreale e speziatura, forse anche un accenno erbaceo. Al sorso, grande acidità e sensibile tannino, ma è tutto sotto controllo. Notevole la lunghezza.
Il 1999 resta ambrato nel colore, ma ancora più vertiginoso aromaticamente, si aggiungono il miele, la camomilla e tutto quello che vi pare: basta aspettare e il bicchiere regala di tutto. Enormi sapidità e lunghezza.
Ho bevuto anche il Merlot 2002, ma a mio parere era poco giudicabile: la bottiglia era aperta da tempo e il vino davvero spento. Peccato.

P.S:: Il mese seguente alla mia visita, Stanislao e sua moglie sono stati protagonisti di una degustazione dalle mie parti. Ho avuto occasione di assaggiare lo Slatnik 2011, lo Jacot 2006, le Ribolla 2006 e 2005 e gli Oslavje 2006, 2005, 1999, 1998 e 1997.
Brevemente: confermo le impressioni dello Jacot, secchissima la Ribolla 2006, leggermente più rotonda la 2005, ma sono gli Oslavje che mi conquistano, trovo che il blend permetta complessità aromatiche superiori.
Non al massimo il 1997, che sembra un po’ a fine corsa già dal colore scarico, due le bottiglie aperte del 1999, curiosamente molto diverse l’una dall’altra, già ottimo il 2006, che immagino un campione tra qualche anno. Meno ricco il 2005, sembra un po’ chiuso. Travolgente il 1998, frutta secca, miele, fiori, spezie…

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Voltalacarta: Profumi (e impressioni) d’autunno

Mi piacerebbe una volta parlare con Maurizio Pinto, lo chef di Voltalacarta a Genova, parlargli davvero, non quelle solite due parole di cortesia e circostanza che si fanno dopo la cena, quando il cuoco esce in sala.
Mi piacerebbe chiedergli, sinceramente, il perché di una tale discrepanza tra una cucina ricercata, curata, anche un pochino avventurosa se misurata con i crismi di una ristorazione genovese assai asfittica, e un contorno così poco attraente, che non mi azzardo a definire sciatto ma che, insomma, sembra quasi buttato là…

Andiamo per ordine: la serata “Profumi d’autunno” mi intriga quel tanto da invogliarmi a tornare in questo ristorante del quale ho già scritto in passato le mie impressioni ambivalenti.
La cortesia è sempre la stessa, encomiabile, così come i mille e uno tipi di pane serviti e continuamente riforniti appena il cestino accenna a svuotarsi sono una magnifica (per qualità e varietà) e crudele (impossibile non divorarli compulsivamente) ossessione.
Sempre buono il ritmo di servizio, che permette di concludere il pasto in tempi non biblici, come spesso accade in tante serate a tema, e più o meno sempre lo stesso anche il conto (35 euro, vino escluso), abbordabilissimo se accostato alla qualità e la ricchezza di una cena che nel dettaglio comprendeva:

Porcini dorati su crema di funghi alla maggiorana
Soufflé al parmigiano reggiano con crema di boraggini e tartufo
Polenta morbida con crostacei e funghi porcini
Tortelli di zucca con pesto di noci e pinoli
Cuore di baccala’ al tartufo nero con salsa ai porri e pure’ tartufato
Semifreddo di castagne con salsa ai cachi

Qualche impressione: ottima la doratura dei porcini, che si sposano a perfezione con la delicatezza della crema; meravigliosi i tortelli di zucca, con una bella pasta ruvida e piacevolmente grezza: il ripieno dolce della zucca contrasta in maniera fantastica con la aromaticità della salsa di noci e pinoli.
Non mi ha esaltato la polenta morbida con crostacei e funghi: può essere solo una preferenza personale, ma la polenta è davvero troppo liquida e i crostacei mi sono sembrati un po’ troppo cotti.
Molto buono il semifreddo, peccato una eccessiva durezza in alcuni punti, immagino dovuta al raggrumarsi delle castagne raffreddate.

Cosa non funziona, quindi?
Anzitutto la carta dei vini: forse un poco migliorata dalla mia ultima visita, ma sempre stringatissima (non sarebbe un gran problema) e soprattutto mancante di qualche etichetta più sfiziosa, curiosa.  Per gli appassionati come me, è poi davvero tristemente misera la sezione delle bollicine, sia italiane che straniere.
Se si aggiunge alla ristrettezza della scelta anche il fatto che la bottiglia scelta risulta non presente, e che quella decisa in seconda battuta c’è, ma non è a temperatura, si capisce come il fronte enoico non sia proprio il terra di conquista…

Altro tasto dolente: la logistica.
Immagino i costi di un affitto in centro, e dati i prezzi umanissimi del menu chiudo quindi un occhio sul fatto che la sala non abbia finestre, ma resta il fatto che entrando nel locale si avverte odore di cucina: non è proprio possibile predisporre un ricircolo forzato di aria, con qualche sistema di filtro?
Sempre pensando alla correttezza del conto, sono disposto a glissare sulle sedute non comodissime, su una certa rumorosità della (pur non enorme) sala e su una posateria un po’ così…
Trovo invece francamente indisponente, perché la soluzione sarebbe semplice ed economica, il tavolo traballante che hanno lamentato i signori accanto a me e il fatto che pannelli e pareti chiedano a gran voce una mano di vernice.

Ecco, io non mi spiego come sia possibile tanta cura in cucina, tanta evidente dedizione nella accoglienza, e al contempo così poca attenzione a particolari che, se pur non essenziali, sono comunque parte integrante nell’esperienza del cliente.

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso): Ronco del Gelso

Ronco del Gelso

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Quando si dice la programmazione… per vari motivi il mio viaggio nel Collio è arrivato in un momento non particolarmente indicato: pioggia e vendemmie ancora in corso (o appena ultimate) non sono certo le condizioni più adatte ad un viaggio a sfondo enoico, sia dal punto di vista prettamente turistico che da quello riguardante il rapporto con i produttori da visitare, oggettivamente indaffarati in questioni ben più importanti rispetto alle curiosità del sottoscritto…

CollioCollioDi certo immaginavo il territorio più scarno, brullo, quando invece, partendo dal pianeggiante limite meridionale segnato dall’Isonzo, si ondeggia in un susseguirsi di rilievi dolci e riccamente verdeggianti, costellato di piccoli paesini ordinati e immersi in un mare di vigne e di tranquillo silenzio.
Qualche ora di sole mi ha permesso di sfruttare la Vespa gialla messa a disposizione da Picech con cui ho attraversato a casaccio le colline (attenzione al telefono: ci si muove costantemente sul confine con la Slovenia, a volte superandolo senza accorgersene, e se il roaming dati è attivo, si rischia di drenare velocemente il credito residuo…), restando stupefatto dalla concentrazione di aziende agricole, molte famosissime, altrettante note solo per averne letto chissà dove, moltissime altre a me sconosciute.

Ronco del GelsoLa prima cantina che ho visitato è Ronco del Gelso, che, avendo le sue vigne proprio sul suolo magro e pianeggiante al confine tra Collio e Isonzo, produce vini di denominazione Isonzo.
L’azienda di Giorgio Baldin produce circa 150.000 bottiglie l’anno suddivise in una ampia gamma di tipologie che ottengono spesso ottimi riconoscimenti, e che, come si legge sul sito, sono vinificate in “modo laico, lontano da rivendicazioni ideologiche”, distaccandosi quindi dalla tradizione (o forse anche da quella che attualmente è anche una moda) dei vini macerati. L’approccio è estremamente razionale, lucido: lo si capisce dalla cantina, moderna, ordinata e pulitissima, che riflette le tecniche di vinificazione adottate (lieviti selezionati, temperature controllate, acciaio o rovere a seconda della bisogna, sala attrezzata all’appassimento con controllo di temperatura, umidità e arieggiatura forzata).
Ronco del GelsoLa cantina è davvero all’avanguardia e di fatto autosufficiente dal punto di vista energetico grazie al fotovoltaico e ad una caldaia che brucia gli scarti di potatura per poi diffondere calore ovunque necessario grazie ad un impianto ad anello.

Nei vini assaggiati ho riscontrato il tratto comune di grande pulizia unita a notevole sapidità e aromaticità; vini direi gastronomici, nel senso di prodotti facili da bere senza essere banali.
Gran vino il Pinot Grigio Sot Lis Rivis, di cui preparerò scheda a parte: per ora mi limito a dire che mi ha davvero colpito per possenza di corpo e robustezza alcolica, ma acrobaticamente in equilibrio verticale, evitando di scivolare nell’eccesso. Ben fatto!
Facile e gradevole l’uvaggio Latmis (Friulano, Riesling, Pinot bianco, Traminer), molto piacevole il Friulano Toc Bas, con piacevoli accenni di nocciola e buon corpo (ho un debole per il vitigno, magari minore, ma che pur senza grandi pretese riesce sempre a sfoderare prodotti molto versatili per l’accompagnamento a tavola).
Bene la malvasia Vigna della Permuta: aromatica come dovuto ma diritta, di bella tensione sapida; piacevolmente fresco, intenso e per nulla stucchevole il passito Aut (da uva Traminer).

Meno interessanti il Riesling (un po’ anonimo, ma devo dire che raramente lo capisco quando vinificato fuori dai suoi territori d’elezione di Germania e Alsazia) e il Sauvignon, dal varietale troppo evidente (forse perché molto giovane).

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Fornovo 2013: naturale e rustico (troppo?)

Come ogni anno da dodici a questa parte, a cavallo dello scorso weekend Fornovo ha ospitato una delle manifestazioni più note dell’enomondo italico, “Vini di Vignaioli – Vins de Vignerons“, non solo banchi di assaggio ma anche dibattiti, presentazioni eccetera.
La ragione sociale dell’evento dice tutto: si parla di vini veri, naturali, con tutto il casino che questa denominazione non ufficiale si porta appresso (mancanza non solo di un disciplinare ma persino di una definizione condivisa, molteplicità di associazioni in contrasto l’una con l’altra, confusione dei consumatori), ma anche con tutto l’appeal che la  patente di naturalità suscita ormai nel pubblico sia degli appassionati  generici che in quelli più hardcore.
La parte di titolo in francese completa la definizione: non sono presenti solo produttori italiani ma anche stranieri: francesi in particolare, ma anche sloveni, greci e georgiani.

La recente ventata di naturalità, di attenzione al biologico e di avvicinamento al biodinamico in pochi anni ha traghettato l’attenzione ai temi del biologico e biodinamico dai ristretti circuiti di carbonari fino alla massa dei consumatori, e manifestazioni come questa di Fornovo sono ormai meta di una massa significativa di partecipanti, al di qua e al di là del banco. Il risultato netto è che l’evento è arrivato a disporre di una quantità di proposte di assaggio da capogiro (si parla di oltre un centinaio di vignaioli presenti con varie referenze ciascuno), con una affluenza di pubblico ovviamente direttamente proporzionale.

Fornovo
Coda all’ingresso alle 11

Peccato che Fornovo non sia cresciuta allo stesso modo per quanto riguarda l’organizzazione: non ho idea di cosa sia accaduto gli altri giorni, ma domenica mattina alle 11 c’era già coda all’ingresso e la situazione era poco sostenibile dal punto di vista degli spazi interni, con difficoltà notevoli nello spostarsi da un banco all’altro e ben poche possibilità di parlare decentemente con il produttore senza alzare la voce.
I bicchieri forniti puzzavano, e per sciacquarli dopo le degustazioni (e per permettere la pulizia della bocca del pubblico) gli espositori avevano in dotazione minuscole brocche di acqua di rubinetto (non del tutto inodore), peraltro vuote in pochi istanti; ça va sans dire, non potevano mancare in terra i soliti pittoreschi secchi al posto delle comuni sputacchiere; del tutto assenti grissini e pane.
L’area esterna, che avrebbe dovuto fungere da spazio di “decompressione” e dar modo di mangiare qualcosa con un  minimo di calma, alle 13 aveva ancora le panche accatastate l’una sopra l’altra, inutilizzabili, e in ogni caso presentava ben poche zone coperte (e a novembre, si sa, di solito piove).

Fornovo
Folla all’interno alle 12

Sempre in considerazione della stagione e dell’inevitabile corollario di freddo e pioggia, non sarebbe male prevedere un servizio di guardaroba (a pagamento, per carità), in modo da poter depositare giacche e ombrelli, permettendo così di muoversi con maggiore libertà e senza morire di caldo.

Quanto sopra potrebbe non costituire motivo di lamentela per un evento di recente organizzazione e di limitate risorse, ma di sicuro è rilevante per una circostanza che si ripete da dodici anni, che chiede un biglietto di ingresso di 12 euro (più un euro per il pieghevole con l’elenco degli espositori, che peraltro è appunto un mero elenco, senza indicazione delle referenze presenti e senza una mappa dei banchi per facilitare il percorso! Dai, almeno fate un pdf e mettetelo sul sito…) e che può vantare varie sponsorizzazioni (leggo sul sito: Comune di Fornovo, Provincia di Parma, Regione, Pro Loco di Fronovo e altre sei aziende).

Lamentele logistiche a parte, luci ed ombre anche per quanto riguarda i vini proposti, visto che in più di una occasione si è trovata qualche bottiglia decisamente sgraziata, dove il concetto di “naturalità” non è ancora in accordo con quello di qualità.
Qualche appunto più o meno a caso riferito alle poche cose che ricordo: piccola delusione i due Alsaziani, Bannwarth e Paul Humbrecht: del primo ho trovato piacevole il Cremant (ad ottimo prezzo) e poco altro, e il secondo mi ha lasciato indifferente, mentre lo scorso anno aveva ottimi Pinot Gris e Gewurztraminer.
Molte riserve sugli champagne presentati da Boulard: interessante e personale il Vieilles Vignes e il Les Rachais 2007, ma i prezzi mi sembrano poco competitivi.
Piacevoli (e di prezzo abbordabile) gli Chenin di Loira di Bertrand Jousset: mi piacerebbe riassaggiarli con più calma e magari con qualche anno in più.
Sempre bene Maule, con una bella vendemmia tardiva di Garganega oltre ai “soliti” Masieri e Sassaia ; estremamente territoriali, sapidi, complessi di vini di Princic e Montinar; facilità e scorrevolezza di beva inconsueti per i rossi di Arianna Occhipinti (SP68 e Siccagno, peccato mancasse il Frappato); i miei soliti dubbi su Il Pendio: ne sento sempre parlare benissimo, lo incontro solo in qualche manifestazione quindi l’assaggio è giocoforza poco approfondito, e ogni volta ne ho la stessa impressione di vino ben fatto, piacevole ma nulla più.

Arrivederci all’anno prossimo, Fornovo, confidando nella solita naturalità ma magari in un pizzico di pittoresca rusticità in meno…

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte prima: l’ospitalità di Roberto Picech

picech

Picech

Basta osservare la forma della cantina, un perfetto quarto di cerchio, per capire qualcosa della personalità di Roberto Picech e di conseguenza anche dei suoi vini.
L’architetto cui si era rivolto al momento della costruzione gli aveva proposto un cubo o una grande “L” che abbracciasse l’aiuola dinanzi alla costruzione, ma a Roberto entrambe le idee sembravano scontate, così si è fatto venire in mente questa stranezza, coreografica, non pacchiana, comunque funzionale. Poi, per buon peso, Roberto ne ha anche costruito buona parte del tetto con le sue mani!
Quanto sopra me lo ha raccontato lui, con una piccola punta di orgoglio condita da vari attestati di modestia, come se tutto ciò fosse roba quotidiana.
Geniale e razionale, estro e applicazione.

Picech

Di Picech avevo già scritto dopo averlo incontrato dalle mie parti, e in quella occasione, oltre ad averne apprezzato i vini, avevo avuto modo di gradire il suo garbo e la sua comunicatività. Per questo, quando ho voluto trascorrere qualche giorno in Friuli, non ho avuto dubbi e ho deciso di far base a Cormons, prenotando una camera presso la sua struttura, una splendida casa di campagna immersa nel silenzio dei vigneti e ristrutturata in maniera encomiabile per cura dei dettagli, ampiezza degli spazi e sobria eleganza.

PicechPicechLa camera che ho scelto è situata nella torretta che sovrasta la struttura ed è in realtà un vero e proprio appartamento: si sviluppa su due piani (sotto ingresso, bagno e armadio; sopra la zona letto vera e propria),  e gode di una vista mozzafiato sulle colline grazie alle grandi vetrate disposte su tutte e quattro le pareti e ad un bel terrazzino.

A completamento dell’accoglienza, non posso non citare la Vespa gialla, messa a disposizione degli ospiti per

Vespa

esplorare il territorio in pieno contatto con la natura, e soprattutto la sontuosa colazione, ricchissima di prodotti di grande qualità: oltre ai consueti cereali, frutta e yogurt, vengono offerti il prosciutto di D’Osvaldo, vari formaggi artigianali, marmellate fatte in casa e uno dei migliori strudel mai assaggiati.

La visita della cantina, gli assaggi e una lunga chiacchierata con Roberto, sono stati l’occasione per una piccola confessione, il suo non amore per la ribolla, che difatti usa solo in blend, e per ribadire la sua filosofia di vinificazione: vini di carattere prodotti con naturalità (no ai lieviti selezionati e al controllo delle temperature, minimo uso di solforosa), 

picechsenza estremismi (leggi: senza ricorrere alle lunghe macerazioni, usate con frequenza in zona), sempre piacevolissimi, ricchi di mineralità e sapidità, adatti al lungo invecchiamento ma godibili fin da subito.

picechNessuna nota di degustazione particolare, non ho scoperto nulla che non conoscessi già, ma ho ritrovato sempre notevole lo Jelka, e personalmente continuo ad avere un debole per l’Athena, però prodotto solo in magum e in numero limitato di bottiglie…

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Bersi Serlini: una giornata particolare

Bersi Serlini

Capita talvolta che l’essere appassionato di questo strano mondo del vino riservi sorprese e curiosità.
Bersi SerliniIl prologo: lo scorso mese ricevo un cortese invito da Bersi Serlini per partecipare al Festival Franciacorta, roba che per un malato di bollicine come il sottoscritto è come scodellare un vasetto di miele davanti a un orso appena risvegliato dal letargo, ma purtroppo a causa di un precedente impegno devo declinare.

Prima sorpresa: mi dicono che non c’è problema e che possiamo concordare un’altra data; beh, lo scorso week-end era “l’altra data”, e quanto segue è la cronaca di un appuntamento che si è rivelato ben diverso da quanto avevo immaginato.

Bersi Serlini

L’antefatto: ero già stato in Franciacorta e ne avevo ricavato impressioni contrastanti; il territorio non mi era sembrato entusiasmante dal punto di vista paesaggistico e, al giudizio sommario di un profano, forse in alcuni casi non del tutto ideale per la viticultura di altissima qualità.

D’altro canto avevo recepito netta l’idea di una zona gestita da produttori alacri, fattivi, sempre estremamente professionali, e infatti il miracolo Franciacorta (una zona vinicola che dal sostanziale anonimato raggiunge l’assoluto protagonismo in Italia e nel mondo nel breve volgere di circa 40 anni) non nasce certo per caso, ma grazie a notevolissimi sforzi imprenditoriali, credo unici in Italia per il settore specifico.

Bersi Serlini

Visitando aziende di varie dimensioni, avevo anche notato in molti casi (non tutti,ovviamente) una certa propensione al lusso, allo sfarzo, alla grandeur un po’ “Milano da bere” che, se ovviamente ben si adatta al marketing internazionale, poco si accorda con la ventata di attenzione alla territorialità e naturalità che soffia attualmente tra gli appassionati.

E, non da ultimo, ammetto di avere a volte qualche riserva sul rapporto qualità-prezzo dei prodotti Franciacorta di fascia base e media, quelli che poi sono destinati alla gran parte di noi comuni mortali.

Bersi Serlini

Date queste premesse, e non conoscendo nulla di Bersi Serlini (che nelle enoteche della mia zona non è attualmente reperibile) se non per quanto riportato da un sito internet francamente demodé e poco ricco di informazioni (ma mi dicono sia in dirittura d’arrivo una ristrutturazione totale), e non lo nascondo, temendo vagamente che il doppio cognome fosse foriero di pretenziose ostentazioni di quarti Bersi Serlininobiliari, mi sono avvicinato a Provaglio d’Iseo con un certo scetticismo: normalmente chiedo appuntamenti ad aziende ben più piccole, sperando di avere un contatto reale con il produttore e potendo quindi dare un senso alla visita, non riducendola ad un banale tour tra i fermentatori condito da assaggi e sputacchiate.

Bersi Serlini

Come scrivevo all’inizio, a volte le sorprese accadono e magari anche più di una nella stessa giornata; la prima è che al mio arrivo ho trascorso diverse ore non con un addetto alla comunicazione, ma direttamente con la disponibilissima patron, Chiara Bersi Serlini, che si è rivelata persona semplice e alla mano, oltre che visibilmente appassionata del suo lavoro ed estremamente comunicativa.

Bersi Serlini

 

Chiara ha fatto iniziare la visita con un inusuale quanto piacevole sopralluogo dei 30 ettari di vigne a bordo di una auto elettrica, e subito ho avuto la seconda sorpresa: i filari che circondano la cantina lambiscono la riserva naturale Torbiere, una sorta di affascinante propaggine del lago d’Iseo ricca di fauna, piacevolmente selvaggia e silenziosa.

Abbiamo proseguito visitando il complesso antistante la cantina, articolato sulla base di una costruzione vecchia di mille anni, valorizzata da una sapiente illuminazione e recentemente ristrutturata e adibita a foresteria e salone per ricevimenti e congressi.

Bersi Serlini

Bersi Serlini

La cantina, molto di impatto come facilmente immaginabile, per fortuna non tradisce eccessive velleità coreografiche; il processo di vinificazione è tradizionale: raccolta manuale delle uve (principalmente Chardonnay, ma anche Pinot bianco e Pinot nero) in piccole cassette e rapido trasporto in cantina, facilitati dalla adiacenza delle vigne.

Bersi SerliniPoi pressatura soffice, temperature controllate e lieviti selezionati, solforosa in dosi minime, in molti casi passaggio in botte piccola e quindi imbottigliamento. Curiosamente, visto il numero di bottiglie prodotte, il remuage è manuale.Bersi Serlini

 

Gli assaggi sono stati un esempio da manuale di quello che ogni appassionato vorrebbe trovare in queste occasioni: le bottiglie sono state stappate tutte appositamente per me, servite e commentate dalla titolare della azienda, e accompagnate con taglieri colmi di ottimi affettati, parmigiano e grissini! Davvero impossibile chiedere di meglio.
Bersi SerliniChi mi segue sa che non sono troppo amico delle descrizioni immaginifiche applicate alla degustazione, e che, per quanto mi diverta nelle occasioni di assaggio seriale, ho grossi dubbi sulla validità e replicabilità delle informazioni che se ne traggono, e che per questo mi limito a qualche impressione su quello che mi colpisce maggiormente, senza la pretesa di avere giudizi oggettivi da spendere.
In generale mi è parso di riuscire a cogliere una filosofia aziendale riconoscibile in tutta la linea di prodotto: grande classicità di gusto, pulizia ed equilibrio millimetrico dei vini, senza eccessi di morbidezza da dosaggio o acidità sparate a mille, uso della botte piccola praticamente inavvertibile, sentori di panificazione tipici della permanenza sui lieviti estremamente delicati, e soprattutto assenza di finale amarognolo pronunciato, che è una delle caratteristiche che meno amo nei metodo classico, in quanto trovo si rinforzi con la durezza delle bollicine e spesso sfoci in un risultato poco piacevole.

Trascrivo qualche appunto preso in diretta durante gli assaggi:

  • Brut 50 Anniversario:
    100% Chardonnay, 24 mesi sui lieviti. Paglierino verdolino, perlage finissimo, fragrante, al naso nettissima mela verde.
    Semplice e fresco, valida alternativa ad un banale charmat come aperitivo
  • Satèn:
    Chardonnay 100%, 30 mesi sui lieviti. Paglierino, perlage leggermente più grande rispetto al precedente. Mi ha colpito per assenza di ruffianerie a volte tipiche dello stile. Intenso, ricco, frutta matura e leggero anice.
    Davvero piacevole.
  • Brut Cuvée 4, 2008:
    Chardonnay 100% dai 4 vigneti più vecchi, 48 mesi sui lieviti. Giallo dorato, bolla estremamente fine, molto morbida in bocca, naso molto intenso e complesso, fiori bianchi, leggera speziatura, frutta matura.
    Già così molto interessante, voglio risentirlo tendolo con calma nel bicchiere: mi sembrava evolversi in maniera notevole
  • Brut:
    80% Chardonnay, 20% Pinot bianco, 20 mesi sui lieviti. Paglierino verdolino, bolla fine e continua, naso abbastanza intenso e piacevole, floreale.
    Forse il vino che mi ha colpito meno
  • Extra Brut Riserva 2004:
    Chardonnay 70%, Pinot bianco 30%, 84 mesi sui lieviti. Paglierino carico, bolla copiosa e continua, fine. Olfattivo inizialmente troppo lieve, occorre attendere qualche  minuto per ottenere ricchezza di panificazione e frutta secca. Bocca straordinariamente piena, intensa, lunga.
    Il vino che ho sicuramente preferito.
  • Brut Cuvée Rosé:
    Chardonnay 70%, Pinot nero 30%, 24 mesi sui lieviti. Colore rosa timido, bolla fine, olfattivamente robusto, si distingue netto il Pinot nero. Di buona potenza in bocca, forse un po’ monocorde. Un buon prodotto non del tutto compiuto: forse un affinamento più prolungato potrebbe regalare maggiore complessità?

Bersi SerliniHo colpevolmente saltato il Demi Sec, che peraltro mi era stato lasciato in fresco in camera per assaggiarlo dopo la cena, ma francamente dopo aver bevuto anche a pasto (consumato presso l’Hostaria Uva Rara di Monticelli Brusati, magari ne parlerò in un altro post) lo avrei aperto per berne solo un sorso e mi sembrava davvero uno spreco!

In conclusione, ho scoperto una Franciacorta diversa, paesaggisticamente più gradevole e naturale, e una azienda condotta con grande umanità ma altrettanta ambizione (posso solo immaginare lo sforzo legato alla comunicazione, se la gentilissima Chiara si è prodigata così tanto con me, signor nessuno), direi giustificata da una gamma di prodotti che ho trovato ben fatti con alcune punte di eccellenza. Non guasta il fatto che il listino prezzi mi sembra del tutto adeguato alla qualità, e compatibile con le mie tasche di consumatore medio.

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Haderburg Pas Dosé, 2009

haderburg

Ho già parlato di Haderburg, ma ho piacere a ribadire che si tratta di un nome sicuro per quanto riguarda la spumantistica italiana d’eccellenza; per saperne di più sulla azienda rimando alle mie note riguardanti il Brut base e al sito del produttore.

Stavolta mi approccio al Pas Dosé, una tipologia non facile, sicuramente di nicchia ma che da qualche tempo gode di buon favore nelle cerchie degli appassionati più hardcore (si può far riferimento a questo post per un veloce ripasso sui dosaggi e la relativa classificazione).
Personalmente, forse anche per questioni territoriali e climatiche, apprezzo decisamente la assenza di dosaggio in molti metodo classico italiani, più che francesi.

haderburgDenominazione: Alto Adige DOC
Vino: Pas Dosé
Azienda: Haderburg
Anno: 2009
Prezzo: 25 euro

Al sodo: si tratta di un millesimato, prodotto con 85 % chardonnay e 15 % pinot nero, affinamento in acciaio e rovere, 36 mesi sui lieviti, assenza di fermentazione malolattica e appena 2 grammi per litro di dosaggio zuccherino.

Colore paglierino brillante, bolla non troppo copiosa ma fine e ben continua. Olfattivo tenue, delicato di agrume, mela verde, erba e lievito.

Come facilmente intuibile parte secchissimo, citrino, con bella freschezza, ma pur essendo un pas dosé non è una lama acida, al contrario c’è equilibrio. Sicuramente lascia bocca pulitissima, senza stucchevolezza.
Buone struttura e corpo, il sorso è bello pieno.

Il bello: dritto, fresco, pulito. Prezzo accessibile
Il meno bello: naso non particolarmente intenso

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Percoranera 2004, Tenuta Grillo

Si dirada il caldo estivo, finalmente torna la voglia di vino rosso e possiamo riprendere gli assaggi dei prodotti di Tenuta Grillo.
Se le puntate precedenti avevano riguardato il Tornasole e Baccabianca, oggi è il turno del Pecoranera, un blend di Freisa (principalmente), Dolcetto, Barbera e Merlot, vinificato con la consueta metodologia aziendale: lieviti autoctoni, lunghe macerazioni, nessuna filtrazione.

Tenuta-Grillo-Pecoranera-280x280Denominazione: Monferrato DOC
Vino: Pecoranera
Azienda: Tenuta Grillo
Anno: 2004
Prezzo: 16 euro

Subito si rivela di aspetto invitante: rubino pieno, intenso, ben vivo e luminoso.
Al primo giorno naso esce prepotente un fruttone rosso maturo, accompagnato da leggeri etereo, alcol e smalto, che si mostrano un pochino invadenti. C’è un accenno puzzetta (riduzione?).

La bocca è calda, con ingresso peno che prosegue corposo, e una bella freschezza acida coerente col colore: difficile pensare di trovarsi di fronte ad un millesimo 2004.
Il tannino c’è, ma è un po’ sfocato, confuso, polveroso. Discreta la lunghezza.

Memore di quando avvenuto con gli altri vini di Tenuta Grillo, lascio da parte mezza bottiglia per proseguire gli assaggi il secondo giorno: l’olfattivo è nettamente migliorato, è del tutto scomparsa la puzzetta ed è praticamente inavvertibile l’etereo; resta un bel frutto maturo con un accenno balsamico. Non si modifica invece la percezione del tannino.

Una bottiglia interessante, magari non particolarmente complessa ma sicuramente piacevole e probabilmente adatta ad un ulteriore invecchiamento. Alla luce dell’assaggio, non ho dubbi nel consigliare l’apertura il giorno precedente o comunque molte ore prima della bevuta.

Il bello: facilità di bevuta, prezzo interessantissimo dato l’invecchiamento
Il meno bello: la necessità di stappare con molto anticipo

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