Il titolo spiega lo spirito della manifestazione, dove la parola NIZZA ha un duplice significato, sia come toponimo della Città sia come denominazione della sottozona della Barbera d’Asti Superiore. La manifestazione si svolge per le vie e piazze del Centro Storico, con ricorrenza a partire da quest’anno, il secondo fine settimana del mese di maggio e viene organizzata dall’Enoteca Regionale di Nizza, in collaborazione con il comune, l’Associazione Produttori del Nizza – Barbera d’Asti e la locale Associazione Pro Loco.
Vinidamare 2015
Vinidamare: si ricomincia da zero o poco più, direi. Ma andiamo per ordine.
Non ho idea di chi sia la colpa, o meglio qualche idea la ho ma suffragata solo da voci di corridoio, quindi la tengo per me, fattostà che qui nel deserto tartarico enologico abbiamo un programma di eventi che, nel giro di un mese circa, elenca nell’ordine: Vinidamare a Camogli, Vino Naturalmente Vino a Chiavari, Mare e Mosto a Sestri Levante e Terroir Vino a Genova.
Nel mezzo, per buon peso, Slow Fish a Genova…
Certo, Slow Fish c’entra solo marginalmente e si svolge solo ogni due anni (ma mica lo si scopre adesso), ma auspicare una telefonata tra i vari organizzatori per gestire meglio il calendario è talmente banale che è inutile scriverlo.
Comunque è inutile girarci intorno, il vero casino è stato quello di Vinidamare, la rassegna dei vini liguri, da sempre organizzata da AIS assieme al comune di Camogli: è successo qualcosa tra i due partner e AIS ha deciso di spostare la manifestazione a Sestri utilizzando un nuovo nome (perché il marchio Vinidamare è registrato dal comune).
Camogli, non volendo rinunciare, ha messo in piedi comunque l’evento chiedendo l’aiuto di FISAR. Risultato: due vetrine con lo stesso tema (i vini liguri, appunto) a pochi giorni e pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro. Il solito colpo di genio tutto italico, fatto di beghe e frammentazioni: complimenti.
Vinidamare, dicevamo: non ho seguito le due giornate dell’evento; come non professionista mi sono al solito limitato ai banchi d’assaggio, scansando i dibattiti e le manifestazioni collaterali, e l’impressione è che nonostante si sia arrivati alla dodicesima edizione, si riparta da zero.
Dal punto di vista del visitatore è stata una grossa delusione: nessun programma stampato consegnato all’ingresso, soprattutto pochissimi i produttori (che evidentemente hanno scelto di presenziare alla manifestazione di Sestri), difatti molti banchi proponevano uno zibaldone di vari vini serviti dai poveri tizi di FISAR che ovviamente non potevano conoscere granché di quello che versavano. Risultato: molte bottiglie neppure sono state aperte e quasi tutte non sono state comunicate a dovere.
Aggiungiamo che qualcuno ha avuto la malaugurata idea di non tirare le tende dietro ai grossi finestroni, così molti rossi non messi in fresco erano a temperatura da brodo… Ciliegina sulla torta: i dibattiti (con tanto di microfono e altoparlante) si svolgevano nella stessa stanza della degustazione, con evidente frastuono e fastidio di tutti i visitatori.
Si ricomincia da zero o poco più, quindi, con l’auspicio che il prossimo anno si possa fare tesoro dei difetti organizzativi (e sono certo che non sarà difficile) ma soprattutto si riesca a trovare la quadra tra due manifestazioni gemelle ma separate (cosa che vedo nettamente più complicata).
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Ristorante Violetta, Calamandrana
Non so bene quando, ma ad un certo punto il ristorante Violetta si è regalato un nuovo sito (intrernet, intendo: la locazione fisica è sempre la stessa) al posto della paginetta precedente, che sembrava un residuato di inizio anni 90.
Lasciando perdere che il vuvuvù nuovo pare pure lui teletrasportato da un passato (appena un po’ meno) remoto, dato l’evento immaginavo e un po’ temevo fosse intervenuto un nuovo corso a stravolgere uno dei ritrovi storici della zona, ma così non è.
La Violetta di Calamandrana resta il ristorante che conoscevo: piedi saldi nella tradizione culinaria Piemontese e la volontà di essere qualcosa di più di una trattoria (anche nei prezzi), certificata dall’ambiente curato e dal servizio fin troppo affettato (ho smesso di contare i “grazie signore” dopo circa 10 minuti, quando il totalizzatore già era schizzato alle stelle).
Il risultato è ambiguo: il cibo è buono, nulla da dire: plin perfetti e leggeri, stracotto che si scioglie in bocca ed è impossibile resistere, devi fare scarpetta, faraona ripiena gustosa e finanche elegante. Eccetera. La carta dei vini è come te la aspetti: centratissima sui nomi del posto, con una sfilza di barbere da far girare la testa e ricarichi onesti.
Di contro il menù è sempre lo stesso, inchiodato, e pazienza, ma soprattutto (ed è una cosa che non sopporto) non ti lasciano la carta, che non esiste, ma ti elencano le portate a voce, quindi non sai cosa spenderai e devi decidere in un amen davanti a chi recita il rosario… Fastidiosissimo.
Ancora, come dicevo prima, il servizio è sicuramente troppo ossequioso e fa pendant con la sala curata ma un po’ demodé.
Conto quasi corretto: alla fine, a spanne, si spende sui 12 euro a portata (primi e secondi): qualche inchino e tovaglietta in meno potrebbero limare gli spiccioli e perfezionare quella che è una (ottima) trattoria, oppure si abbia il coraggio di fare il passo e traghettare la cucina verso qualcosa di più impegnativo e, certo, adeguare al rialzo i prezzi. Così siamo in mezzo al guado.
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Vinidamare 2015
Torna a Camogli “Vinidamare” l’annuale appuntamento nella “Città dei Mille Velieri” dedicato ai vini liguri Doc promosso dal Comune con il sostegno della Regione Liguria e Unioncamere Liguria.
Vinidamare 2015″, giunta alla quindicesima edizione, è in programma domenica 3 maggio sul lungomare Garibaldi e in via della Repubblica e lunedì 4 maggio nei saloni dell’hotel Cenobio dei Dogi, sempre a Camogli.
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Vorberg 2011, Cantina Terlano
Da tempo non lo ribevevo, ed era quindi il momento di un gusto ripasso per quello che (secondo me) è uno dei grandi vini bianchi d’Italia, oltretutto proposto ancora ad un prezzo abbordabile. Riecco quindi nel bicchiere il Vorberg di Cantina Terlano.
In una precedente degustazione l’annata 2010 mi aveva lasciato qualche dubbio, ed è proprio a quella scheda che rimando per alcuni accenni più generali sul produttore.
Denominazione: Alto Adige Terlano DOC
Vino: Vorberg
Azienda: Cantina Terlano
Anno: 2011
Prezzo: 20 euro
Molto bello a vedersi, paglierino luminosissimo con alcuni accenni dorati, anche olfattivamente non tradisce: finissimo e complesso, con un arcobaleno che parte dal melone, attraversando poi i classici sentori aggrumati, virare sul vegetale erbaceo e per il floreale fino a chiudere su una decisa nota minerale. Lasciandolo nel bicchiere arriva persino l’eco di caramella charms. Difficile far di meglio.
In bocca è accompagnato da freschezza netta senza essere tagliente, buoni calore e sapidità ed estremamente ampio ed intenso; ottimo equilibrio e lunghezza rimarchevole. C’è un lontano e appena accennato punto di amaro che pulisce e invoglia il sorso, ma non è il solito amaricante di mandorla a termine bicchiere, bensì curiosamente si presenta a metà bocca per poi lascia spazio (tenendolo a bada) al finale giustamente aromatico: sorso largo senza tema di opulenza.
Vino di grande versatilità: dal ricco aperitivo fino all’acompagnamento di formaggi di media struttura e all’abbinamento a piatti di buona complessità e millesimo capace ancora di grandi soddisfazioni in futuro.
Il bello: elegantissimo e complesso olfattivamente,
Il meno bello: forse un pizzico di acidità in più…
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Emiliana 2013, Lusenti
L’azienda Lusenti possiede 17 ettari di terreno a conduzione biologica in Val Tidone, nel Piacentino, e produce vino utilizzando principalmente uve tipiche della zona: la Malvasia di Candia, l’Ortrugo, la Bonarda.
La cantina offre una serie piacevolissima di rifermentati in bottiglia che rientrano perfettamente in quella categoria che qualcuno giustamente chiama “vini glu-glu”, per dire di bottiglie magari semplici, non particolarmente sofisticate o complesse ma tremendamente facili da seccare.
L’esempio principe di questi vini frizzanti è l’Emiliana, da malvasia aromatica di Candia al 100%, che oltretutto è stata una delle prime folgorazioni che ho avuto quando ho iniziato ad occuparmi con più attenzione all’argomento vino: torbido, con una DOC sfigata sul groppone, eppure così gradevole…
Denominazione: Colli Piacentini DOC
Vino: Emiliana
Azienda: Lusenti
Anno: 2013
Prezzo: 12 euro
Paglierino con evidente velatura e perlage (ma quale perlage… qui siamo rustici: diciamo pizzicore) fine e, come ovvio, di numero e persistenza limitati.
Bella e semplice aromaticità olfattiva, di fiori freschi e frutta (pera in particolare, e un leggero agrume).
In bocca si conferma semplice e piacevole, con una struttura leggera come si conviene alla tipologia e una apprezzabile traccia sapida che bilancia bene la chiara aromaticità del sorso.
Finale senza accenni amari, bevibilità alle stelle e bottiglia terminata in un amen, anche grazie al lieve grado alcolico (11,5 gradi).
Da mettere a tavola con un bel tagliere di salumi e formaggi delicati, magari anche con verdure pastellate e fritte, senza dimenticare di agitare prima di stappare e di servire fresco ma non troppo: per me è ok sui 10-12 per poi salire pian piano durante la bevuta, esaltando la aromaticità.
Il bello: gradevolezza, bevibilità
Il meno bello: l’aspetto molto rustico
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La Voglia Matta, Genova
A volte sospendi il giudizio, perché è chiaro che non sarebbe corretto: è quello che mi è successo la prima volta che ho mangiato a La Voglia Matta, a Genova Voltri.
Era lo scorso anno, a pranzo, ed è stato chiaro fin da subito che si trattava della classica giornata storta, partita male fin da subito con il calice offerto che aveva qualche difetto e poi proseguita sulla falsariga di una medietà poco rilevante.
Ci sono tornato, e posso dire di essere contento di essermi astenuto, ché la cena non è stata affatto disprezzabile.
Andiamo per ordine: sul posto (la famigerata “location”) c’è poco da dire, è un vicolo ben poco significativo di una zona di Genova un tempo sicuramente meravigliosa ma adesso massacrata dal porto, dall’incuria, dai cavalcavia della autostrada… Per fortuna è meglio l’interno, piuttosto curato, con qualche spunto di colorata fantasia mai troppo sopra le righe. Unici difetti: le luci poco calibrate e l’acustica: quando il locale (comunque diviso in due sale non enormi) si riempie, il rumore è fastidioso.
La proposta culinaria (che presenta chiaramente qualche velleità di innovazione) si basa principalmente sul pesce e si articola in maniera interessante in una bella selezione alla carta e in diversi menu degustazione, che a me piacciono perché permettono di assaggiare più piatti seguendo un percorso coerente deciso dallo chef.
Bella la carta dei vini, che evita di affogare in un mare di referenze e di annoiare con le solite etichette ben note, esibendo un ricarico corretto.
Proprio sui vini ho un appunto: ho scelto uno Chenin Blanc della Loira che non conoscevo. Ora, lo so che lo chenin blanc è versatile e si può trovare fermo, spumantizzato, dolce eccetera, ma se in carta non c’è nessuna indicazione al riguardo, e la persona cui lo ordino non dice nulla, e io sto scegliendo un vino a tutto pasto, mi aspetto si tratti di un vino secco. Non è stato così, e ho ricevuto un (ottimo) vino dolce… Bastava una domanda: “E’ un vino dolce, è sicuro di quello che ha scelto?”.
Decido per un menu basato sul pesce povero e inizia la cena: buoni il pane e i grissini preparati sul posto e ottimo il prosecco colfondo offerto (chi ha versato ha omesso il nome del produttore, purtroppo).
Non mi dilungo sui singoli piatti, trovo non abbia molto senso. Di certo si avverte la volontà di proporre qualcosa di diverso, di rispettare la materia prima (che mi è sembrata di livello) e di lavorare con passione; altrettanto certamente si avverte in maniera trasversale a quasi tutte le portate la mancanza di un piccolo spunto in più, sia esso un pizzico di sale, un giro di pepe, un giro d’olio, una grattata di zenzero… insomma, di un piccolo spunto a completare un piatto comunque ben fatto, tanto più se la base è appunto “povera” e, immagino per questioni di pescato, sei costretto ad usare lo sgombro in più di un piatto.
Unica preparazione completamente sbilanciata è stato lo sgombro marinato nell’aceto: l’aceto copriva in maniera assoluta il pesce, annullandone ogni aromaticità; notevoli invece il carpaccio e il tataki. Non amo particolarmente i dolci, ma ho trovato gradevolissimi sia il biancomangiare alle mandorle che il millefoglie, nessuno dei due stucchevole.
Il servizio è stato cortese e professionale, e il conto sicuramente correttissimo. Da rivedere i tempi di preparazione: sono entrato alle 20 in punto e sono uscito dopo altre due ore e mezza, decisamente troppo.
Trovo qualche analogia con uno dei miei ristoranti preferiti a Genova, Voltalacarta: stessa volontà di ricerca, stessi mezzi un po’ risicati e medesima attenzione al prezzo finale. In questo caso decisamente meglio la carta dei vini, ma un punticino in meno alle portate, proprio a causa di quella mancanza di spunto di cui ho scritto più sopra.
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Metodo Interrotto, Furlani
Non avevo neppure mai sentito parlare della Cantina Furlani, ma il consiglio di un amico unito al mio apprezzamento per le bolle trentine hanno fatto breccia e ho provveduto all’acquisto.
Cerco qualche informazione sulla bottiglia appena portata a casa e sul produttore ma trovo davvero poche note: un sito di questo tenore nel 2015 è quantomeno indice di poca lungimiranza…
Da quanto capisco, la Cantina dispone di sei ettari di terreno vicino Trento, coltivati con varietà autoctone ed internazionali, ed appartiene al “giro” dei produttori “naturali”, con conduzione biodinamica, rifiuto dei prodotti di sintesi in vigna, affidamento ai lieviti autoctoni, nessun controllo della temperatura in vinificazione, nessuna aggiunta di solforosa e nessuna filtrazione.
Denominazione: VSdQ
Vino: Metodo Interrotto
Azienda: Furlani
Anno: –
Prezzo: 16 euro
La bottiglia in questione è composta per l’80% da chardonnay e il rimanente da pinot nero, con due anni di riposo sui lieviti.
Un accenno al tappo a corona: non mi scandalizzo, anzi per certi versi è meglio, eliminando alla radice i problemi di sentori di TCA, ma da un vino di una certa importanza con un prezzo di gamma medio bassa ma comunque non regalato, mi aspetto qualcosa di più professionale.
Il ciclo di produzione è quasi quello di un “normale” Metodo Classico, non fosse che viene omessa la fase di sboccatura, quindi non c’è aggiunta di liquore di dosaggio e solforosa: questo ovviamente rende il bicchiere opalescente, lattiginoso, con un aspetto tipicamente da metodo ancestrale o da rifermentato sur lie. Oggettivamente bruttino a vedersi.
La bolla non è da manuale, mantiene una buona finezza ma è ma un po scarsa e l’olfattivo è sempliciotto: floreale e accenni aggrumati, nulla di più.
Il sorso non è male: abbastanza pieno e di discreta lunghezza, ma manca un po’ di acidità, di tensione: si sente qualche accenno dolcino eccessivo, ed è abbastanza sorprendente data la assenza di dosaggio. Per fortuna in chiusura non fa capolino alcun richiamo amaro.
Spumante semplice, di non troppe pretese, non troppo rustico e con una sua dignità; direi una valida alternativa al prosecco per un antipasto disimpegnato.
Il bello: semplice ma gradevole
Il meno bello: manca la spinta acida acida
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Pas Dosé 2009, Rizzi
Gli spumanti prodotti in Piemonte, siano o meno sotto denominazione Alta Langa, sono una tipologia su cui a mio avviso si tende troppo spesso a sorvolare con una alzata di spalle: nel mio piccolo mondo di assaggi ho spesso incontrato bottiglie di buon livello vendute a prezzi corretti.
Non fa difetto neppure questo Pas Dosé, messo a punto da un importante produttore di Treiso, ovviamente noto per i suoi Barbaresco: Rizzi.
Denominazione: VSDQ
Vino: Pas Dosé
Azienda: Rizzi
Anno: 2009
Prezzo: 20 euro
Il vino è a base chardonnay con apporto di nebbiolo e pinot nero e viene prodotto ovviamente con il Metodo Classico, facendo uso di lieviti selezionati su cui riposa per ben 56 mesi.
Nella stessa giornata lo ho assaggiato dapprima nel pomeriggio, durante una degustazione di Barbaresco, versato da una magnum sboccata da circa tre mesi, ed era sicuramente un bel bere, poi la sera: convinto della validità del prodotto ne ho portato a casa una bottiglia di formato standard con sboccatura di circa un mese, forse troppo recente (a proposito, complimenti per la precisa indicazione in controetichetta, con data completa di giorno, mese e anno).
I miei appunti parlano di giallo verdolino con bolla copiosissima e piacevolmente esuberante che solletica senza essere fastidiosamente dura, di uno spettro olfattivo abbastanza classico (fiori e frutta tropicale, comunque molto fresco) e di un sorso piacevolmente teso ma equilibrato, senza le acidità stellari, strappagengive di certi non dosati, con un finale senza traccia di fastidiose scie amare.
Segnalo che il vino della magnum aveva una compiutezza maggiore, in particolare a livello olfattivo; ad ogni modo: ottima bevuta a prezzo tutto sommato corretto.
Il bello: bella spinta acida ma ottimo equilibrio del sorso
Il meno bello: in questo caso, bottiglia forse troppo giovane
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Le vieux clos 2009, Nicolas Joly
Nicolas Joly è ormai qualcosa di più di un (bravo) vignaiolo della Loira: su di lui tanto si è scritto e detto, anche perché in questi ultimi anni altrettanto si è parlato di biodinamica, pratica di cui Joly è considerato uno dei guru e di cui è da sempre carismatico divulgatore.
Da parte mia, ho esplicitato Il mio pensiero su questa metodologia in un vecchio post, quindi è inutile ripetermi, e d’altro canto a me poco importa se quel che bevo è stato ottenuto usando il cornoletame o la temperatura di fermentazione controllata, i lieviti selezionati o il diserbo meccanico… tutto molto interessante, eh, ma quel che conta davvero è poi il bicchiere…
Siamo dunque all’interno della denominazione Savennières, circa 150 ettari sul lato destro della Loira, dove domina lo chenin blanc, vitigno dalla rilevante acidità, tanto interessante quanto sottovalutato, forse anche perché usato in tutto il mondo in produzioni spesso intensive e poco qualitative.
Oltre al mitizzato Coulèe de Serrant (che personalmente non ho mai avuto modo di assaggiare, intimorito dalla micidiale accoppiata di prezzo importante abbinato a rilevanti alti e bassi di qualità), Joly vinifica un second vin a denominazione Savennières: Les Vieux Clos; ecco, questo l’ho bevuto un paio di volte da millesimi diversi e, con le dovute differenze, entrambe le occasioni hanno avuto il denominatore comune di un miglioramento costante ed estremamente rilevante delle qualità organolettiche dal momento dell’apertura sino al giorno seguente.
Denominazione: AOC Savennières
Vino: Les Vieux Clos
Azienda: Nicolas Joly
Anno: 2009
Prezzo: 30 euro
Quello che ho avuto stavolta nel bicchiere: vino color oro, lucente e abbastanza fluido, che olfattivamente parte male, con accenni di zolfo.
L’etichetta dice di decantare, a me non va e preferisco aspettare e spillare qualche sorso ogni qualche ora.
Dopo mezza giornata la musica cambia: lo zolfo è scomparso e finalmente domina una albicocca matura, fine e decisa, frammista a fiori gialli e pietra focaia. Bellissimo
il sorso è sorprendente: dato il punto cromatico, gli aromi e l’alto grado alcolico, immaginavo di trovare un vino pericolosamente in bilico, pronto a scivolare nello stucchevole; invece scalda, si, ma vibra di acidità e scorre veloce, accompagnato da un lunghezza rimarchevole.
Sicuramente un vino da non mortificare con una temperatura di servizio troppo bassa: i 14 gradi indicati in etichetta sono corretti, ma se si sbaglia per difetto non si fa nulla di male, anzi… Altrettanto certamente è una bottiglia di difficile abbinamento: la freschezza notevole unita alla ottima persistenza e alla intensità dei sapori esigerebbero un cibo complesso, di buona struttura e magari con una certa aromaticità, ma il problema vero è la necessità di stappare con ore di anticipo e soprattutto di seguire il vino nella sua evoluzione. Alla fine forse è meglio gustarlo in splendida solitudine, magari con qualche grissino e pezzetti di formaggio, in accompagnamento ad una giornata di pigrizia.
Il bello: ricco, cangiante, profondo, personale
Il meno bello: poco facile da reperire; necessità di stappare ore prima del consumo