Brewdog: scoiattoli imbalsamati dalla Scozia.

BrewdogPer farsi una idea di cosa sia il birrificio scozzese Brewdog credo sia sufficiente vedere la grafica del sito e leggere come loro stessi descrivono le loro birre: “Rock’n’roll american session ale”, “Iconoclastic amber ale”, “Post modern classic pale ale”, “Twenty first century black ale”, “Explicit imperial ale”, “Intergalactic fantastic oak aged stout” e via cazzeggiando.

Non bastasse, potrei ricordare le boutade degli scorsi anni, partendo dalle IPA in viaggio per due mesi sull’Oceano, passando alla birra chiamata Speedball e alle conseguenti polemiche, per arrivare alla gara con i tedeschi di Schorschbock per stabilire il vincitore del dubbio titolo di birra più alcolica del mondo (terminata ovviamente con la schiacciante vittoria degli scozzesi, grazie alla sobrietà della “End of the history” venduta all’interno di uno scoiattolo o di un ermellino imbalsamati; n.b.: gradazione di 55% e prezzo da 500 a 700 sterline!).
BrewdogPotrei scrivere anche che Brewdog non si è fatta mancare le ormai canoniche birre tirate in serie limitata e le altrettanto obbligatorie collaboration beer con altri birrifici in voga, le baruffe con il partito dei tradizionalisti della birra inglese (il solitamente santificato CAMRA), i video Beer Golf, in cui prendevano a mazzate lattine e bottiglie dei produttori di birra-spazzatura mainstream. Eccetera eccetera.

Potrei scrivere ancora tanti eccetera, ma al netto di tutto l’hype resta il fatto che un birrificio nato dall’idea di due amici (James Watt e Martin Dickie) nel 2006, che ha prodotto le prime birre nel 2007, che ha venduto al pubblico 10.000 quote societarie nel 2009 e che ha iniziato ad aprire pub di proprietà nel 2010, è oggi un marchio ben noto in tutto il mondo nel circuito degli appassionati e non solo, che sforna circa un milione e mezzo di bottiglie l’anno e le esporta a più non posso.
Dire quindi che la strategia del casino mediatico è servita ad ottenere un successo strepitoso è quasi un understatement, ma ricondurre questo trionfo alla sola abilità di marketing sarebbe ingiusto e riduttivo: in Brewdog, con gli alti e bassi del caso e facendo la tara agli estremismi fini a sé stessi, se e quando vogliono, le birre le sanno fare!

Certo, gran parte della fama del birrificio deriva da una serie di prodotti “famolostrano” (a parte quanto già ricordato, cito a caso la serie Paradox, passata in botti di whisky, e la Nanny State, da circa 1% di grado alcolico), ma credo che un grande merito degli scozzesi sia l’essere stati tra i primi della nuova ondata dei birrifici indipendenti / di qualità (chiamateli come volete, ma vi prego non “artigianali”, che è una parola che non ha più alcun senso) a tenere un prezzo medio accettabile, ad entrare nel circuito dei supermercati e a sdoganare la lattina come contenitore per un prodotto non dozzinale: oggi è possibile andare al Carrefour e trovare, accanto alle abominevoli Nastro Azzurro e alla esose Baladin, le latte della Punk IPA a meno di tre euro. Certo, a me sembra solo parente della birra dei primi tempi, e molto probabilmente è pastorizzata o perlomeno filtrata pesantemente, ma è comunque più che potabile in relazione al prezzo.

Il proposito dei prossimi giorni è dunque quello di comperare le Brewdog che trovo al supermercato ed assaggiarle per voi. Vedremo assieme cosa ne esce.

Articoli correlati:

Porto: alcuni brevi cenni

Porto
Immagine tratta dal sito di Quinta do Noval

E’ quasi Natale, e tradizionalmente in questo periodo si risolvono molti regali con la canonica bottiglia di vino.
E’ anche il momento in cui si comperano più vini spumanti di qualità (di solito metodo classico, magari Champagne) e vini liquorosi: un classico di questi ultimi è il Porto.

Ne consegue che una bottiglia di Porto, il vino liquoroso più famoso del mondo, si trova in tante case italiane, ma non credo siano in molti a conoscere come si produce e quali sono le tipologie di questo vino; proviamo quindi a fare una breve e semplice introduzione.

Anzitutto, la zona di produzione è una delle più antiche aree viticole protette da denominazione: siamo ovviamente in Portogallo, a Nord, lungo la valle del fiume Douro, e come spesso accade in questi casi, la coltivazione se è da un lato aiutata dal microclima, dall’altro è resa difficile a causa delle pareti scoscese sulle quali si coltiva grazie a terrazzamenti.

Le qualità di uva utilizzate sono una cinquantina a bacca bianca o rossa, ma quelle più usate sono Bastardo, Touriga Nacional, Touriga Francesa, Tinta Barroca e Tinta Roriz. La metodologia di produzione è singolare: il mosto viene fatto fermentare fino a 6 – 7% di alcol; a questo punto la fermentazione viene bloccata tramite l’aggiunta di alcol etilico o acquavite o brandy. Ne risulta quindi un vino con un sensibile residuo zuccherino (più o meno il 10% degli zuccheri non sono fermentati) e con circa 20% di grado alcolico, che viene messo a maturare nelle “pipe” da 500 o 600 litri.

Il tipo e il tempo di maturazione scelte dalle varie “quintas” (cantine produttrici) determinano la classificazione del Porto:

Esistono due grandi famiglie, per ciascuna della quale si producono blend e millesimati (vintage, anche se i vintage propriamente detti sono solo quelli affinati in bottiglia):

  • Porto riduttivi: sono affinati in ambiente riduttivo (bottiglia), quindi mantengono per quanto possibile colore vivo e freschezza, e devono essere consumati in fretta dopo l’apertura.
  • Porto ossidativi: sono affinati in ambiente ossidativo (botte), quindi il colore decade verso il mattone o l’ambra e gli aromi virano, ad esempio verso la frutta secca e le tostature.
Riduttivi:
  • Ruby: il tipo più comune, viene prodotto con un blend di uve non particolarmente pregiate, fa un breve invecchiamento in botte ed è un vino di color rubino, semplice, fresco e fruttato.
  • Vintage: si tratta di millesimati prodotti solo in annate eccezionali e da vigne particolarmente pregiate, invecchiati per due anni in botte e poi destinati ad un lungo affinamento in bottiglia (almeno 15 anni).
  • LBV (Late Bottled Vintage): in origine erano i vintage che restavano invenduti, oggi sono una categoria vera e propria che ha lo scopo di permettere l’assaggio di una annata senza dover attendere il lungo invecchiamento di un Vintage.
    Invecchiano in botte per 4 o 6 anni ed esistono in versione filtrata e non. Quella non filtrata, di maggiori potenzialità di invecchiamento, deve essere decantata prima del consumo.
Ossidativi:
  • Tawny: blend di Porto invecchiati in botte grande. Il blending cerca di riprodurre il profilo gustativo della casa, identico anno per anno. per due o tre anni.
    Quando non presenta altre indicazioni è un blend di Porto che hanno trascorso almeno 2 anni in botte.
    Quando si indica 20, 30 o 40 anni, si parla di Tawny invecchiati (Aged Tawny), un assemblaggio di vini invecchiati. L’invecchiamento indicato in etichetta rappresenta una media approssimata del blend e fa riferimento a un profilo gustativo, non ad un invecchiamento minimo.
  • Colheita: è un tipo Tawny millesimato, di una annata dichiarata straordinaria, con almeno 7 anni di invecchiamento in botte.
    Il profilo gustativo non è quello della casa, come accade per i normali Tawny, ma della annata riportata in etichetta. La differenza con il vintage è l’ambiente di invecchiamento.

Articoli correlati:

Oops! he did it again

BibendaFranco Ricci l’ha fatto ancora: al dilagante, strisciante pauperismo che subdolamente insidia le fondamenta del nostro moderno modus vivendi occidentale, ancora una volta ha contrapposto la sua lucida visione neo-keynesiana nel quale lo stimolo alla domanda aggregata non viene dallo Stato ma dal consumatore di vino e caviale: l’incipit del numero 43 della patinatissima rivista di Bibenda è una folgorante asserzione di intenti: “Capodanno col botto”.

Il sottotitolo vale un puntuale pamphlet di dottrina economica: “E’ un’incitazione al coraggio. Il coraggio di un ottimismo oggi indispensabile. Il lusso è un lusso che per una volta, per l’inizio di un anno, è possibile provare con gli amici e i compagni del cuore. Le nostre istruzioni anche per i palati difficili”.

Dunque, secondo la rivista sapientemente diretta dal maître à penser romano, la via maestra per sfuggire alle “opportunistiche logiche delle tante cassandre che sguazzano e traggono profitto dalla crisi di turno” è tanto semplice quanto geniale: “vivere secondo un ottimismo realistico”.
Certo, qualche scettica cornacchia potrebbe arcuare il sopracciglio e alzare il ditino per condannare un presunto eccesso di edonismo, malsopportabile in tempi di crisi, ma il saggio consesso delle menti di Bibenda anticipa e frantuma l’obiezione: “… quello che vi proponiamo … non è una mera lista di beni di lusso da ostentare, piuttosto il massimo che ciascuna categoria di prodotto l’uomo ha saputo cogliere dalla terra o realizzare … il solo lusso presente sarete voi, unici e senza eguali.”

Ma gli esperti del New Deal Bibendesco non si limitano ad affermazioni generiche, e mettono nero su bianco la ricetta per aggredire la crisi, trasformandola (tramite la ricerca del Piacere), in roboante opportunità epicurea di rinascita e di affermazione di un Nuovo Uomo.
E leggiamoli, finalmente, alcuni dei consigli per gli acquisti proposti dai Virtuosi di Bibenda: “Tartufo bianco d’Alba: 400 euro l’etto”, “Aceto balsamco tradizionale di Modena DOP 50 anni Acetaia Malpighi: 220 euro per 100 ml”, “Zafferano purissimo di Cascia: 240 euro l’etto”, “Caviale Almas caviar Beluga del Mar Caspio: 2500 euro l’etto”, “Champagne Clos du Mesnil 2000: 1.100 euro a bottiglia”, “Romanée-Conti Grand Cru 2002: 10.000 euro a bottiglia”.
Ci fermiamo qui per non rovinarvi la sorpresa di scoprire da soli con quali materie prime armare la miccia del vostro Ottimista e Anticrisi Cenone Col Botto.

Per parte mia, ancora una volta non posso che dimostrarmi ammirato per il coraggio, la lungimiranza e la cristallina visione del mondo contemporaneo dimostrata dall’intraprendente team di Bibenda, sapientemente gudato dal visionario nocchiero Ricci.

(Certo, deve girarne di roba buona dalle parti di Roma…).

Articoli correlati:

Vini naturali: addendum

Solo un piccolo post di servizio per dirmi soddisfatto del fatto di non essere isolato nella mia posizione su vini naturali, biologici e biodinamici: leggo oggi sul blog Primobicchiere riflessioni e collegamenti ad altri autori che sono sulla mia stessa stessa lunghezza d’onda.
Non che il mio pensiero sia particolarmente originale, sia chiaro, ma fa sempre piacere trovarsi in buona compagnia, e si spera che le idee sensate e razionalmente fondate si diffondano sempre di più.

Articoli correlati:

Vini naturali: moda o cultura?

“Fosfato diammonico, Dicloridrato di tiamina, Anidride solforosa, Bisolfito di potassio, Carbone per uso enologico, Gelatina alimentare, Proteine vegetali ottenute da frumento o piselli, Colla di pesce, Ovoalbumina, Tannini, Caseina, Caseinato di potassio, Diossido di silicio, Bentonite, Enzimi pectolitici, Acido lattico, Acido L tartarico, Carbonato di calcio, Tartrato neutro di potassio, Bicarbonato di potassio, Batteri lattici, Acido L-ascorbico, Azoto, Anidride carbonica, Acido citrico, Acido metatartarico, Gomma d’acacia (gomma arabica), Bitartrato di potassio, Citrato rameico, Solfato di rame, Pezzi di legno di quercia, Alginato di potassio, Solfato di calcio”.

Queste sopra sono le sostanze autorizzate nell’uso nella produzione biologica di vino, secondo il regolamento di Esecuzione 203/2012 della Commissione Europea dell’8 marzo 2012.
Così, tanto per far capire cosa si intende quando si parla di “vino biologico” secondo la legge.

BiologicoDetto questo, il vino “biologico”, “biodinamico”, “naturale”, è sempre più sulla bocca dei consumatori, in parte come conseguenza di una ricerca più generale di stili di vita salutari (vedi i vari negozi “bio”), in parte per la recente moda dei cibi “di qualità” (il successo di Eataly ne è il simbolo), ma anche come fuga da una certa massificazione del gusto.
Sono infatti passati i tempi in cui si poteva incappare in vini cattivi: le moderne pratiche enologiche hanno fatto in modo che in enoteca, ma anche al supermercato, si possano trovare la stragrande maggioranza di bottiglie tecnicamente ineccepibili, a prezzo però di una netta mancanza di identità: i procedimenti standardizzati generano vini esenti da difetti ma scarsamente identitari.

Della biodinamica abbiamo parlato in precedenza, e del biologico abbiamo detto in apertura. Il tutto ricade nel grande cappello del “vino naturale”, locuzione abbastanza fumosa, perché pur non esistendo neppure una definizione “ufficiale” (anzi, per gli enotecari è persino pericoloso usare il termine), in Italia si contano ormai diverse (troppe) associazioni di produttori che ambiscono di potersi fregiare dell’espressione in voga. Andrea Scanzi, uno dei massimi osservatori del fenomeno, ha spiegato tutto con una frase: “i vinoveristi hanno più partiti che bottiglie. In confronto, la sinistra extraparlamentare è coesa”.
Se poi aggiungiamo che, in perfetto spirito italiano, spesso tra i vari consorzi e associazioni non corre buon sangue, si capisce quanto possa essere poco comprensibile la situazione per i consumatori.

Alla fine, il minimo denominatore comune è quello del massimo rispetto possibile della natura durante la coltivazione della vigna (no ai fitofarmaci ed ai concimi chimici, per esempio) e il rifuggire dalle pratiche spericolate in cantina (in sostanza, produzioni più tradizionali ma condotte con consapevolezza moderna, ad esempio con estremo rigore per igene e travasi, senza addizioni di sostanze magiche e senza interventi dell’enlogo-guru di turno).
Ne risultano vini certamente meno massificati nel gusto, non globalizzati nell’aspetto e all’olfatto, a volte magari più scorbutici, sicuramente di resa meno costante ma di certo più personali e unici.

Tutte cose ragionevoli, visto che oggi, al di là delle mode (che ieri imponevano il vino fruttatissimo o barricato e oggi dettano le nuove parole d’ordine di acidità e mineralità), è in atto un mutamento del gusto degli appassionati: data per scontata la qualità minima sindacale, il bevitore moderno cerca nel bicchiere una piccola avventura, la capacità di distinzione da altre mille bevute, l’identità di una zona di produzione, la personalità di un vignaiolo. Cose che un vino prodotto con tecniche modernamente standardizzate e con vitigni internazionali difficilmente si possono ottenere.

Certo, non sempre le cose vanno lisce, perché il rifiuto di tecniche ben consolidate porta talvolta (sempre meno spesso, per la verità) a bottiglie se non difettate, perlomeno borderline (in questi casi, si dice pietosamente “difficili da capire”).
La drastica diminuzione di questi incidenti va a tutto vantaggio del consumatore che può così accedere con una certa tranquillità a prodotti interessanti e piacevolmente diversi, più digeribili e prodotti nel rispetto dell’ambiente.

A parte quanto sopra, credo occorra fare la tara a tutte le istanze di naturalità ostentata, e ricordare che il vino è una manipolazione dell’uomo: resta scolpita nel granito la massima di Francesco Paolo Valentini, uno dei campioni della qualità del vino in Italia: “l’uva naturalmente diventa aceto, io sono un produttore di vini artigianali“.
Per parte mia, credo che al di là delle metodologie di produzione, il vino debba essere ben fatto e piacevole; certo, se il vignaiolo non ha usato solforosa e la bottiglia è fantastica, tanto meglio, ma un vino che puzza non ha giustificazione anche se prodotto con uve bio.

Chiudo esprimendo un certo fastidio perché al carro del fenomeno, creato e tirato da agricoltori coscienziosi, mi pare si stiano attaccando anche i personaggi che vedono solo una nuova opportunità di business: se tutto è “naturale” (e con una legislazione come quella riportata in apertura è proprio così), nulla lo è, se non i vini di quei vignaioli che credono davvero nella qualità del loro prodotto e nella salvaguardia del loro ambiente, e se ne infischiano delle certificazioni e dei bollini.

Articoli correlati:

…qu’ils mangent de la brioche

Non ho idea se voi lettori siate tipi simpatici. Non so neppure se vi piace lo champagne, ma immagino di sì.
Nel caso foste simpatici e amanti dello champagne, potreste allearvi con Bibenda per combattere la crisi!

Franco Ricci - Maria AntoniettaA me era sfuggito, ma Andrea Petrini di Percorsi di vino ha prontamente riportato sul suo sito l’imperdibile iniziativa del Direttore di Bibenda, Franco Ricci, e io lo ringrazio, perché rischiavo di perdermi la splendida opportunità di fare del bene al mio Paese, incoraggiando la ripresa con la semplice prenotazione dell’Evento dell’anno.
Del resto, cosa sono 250 Euro (o 500, camera inclusa) di fronte al luminoso futuro della Patria?

Il titolo è chiaro, così bello in maiuscolo: “A ROMA / BIBENDA AUGURI DI NATALE! INSIEME CONTRO LA CRISI”.
Non fosse stato per Petrini avrei rischiato di non far parte del coraggioso manipolo dgli “80 lettori simpatici” che per donare slancio all’economia della nostra amata Italia, il 20 Dicembre saranno disposti ad immolarsi degustando “caviale, crudi di pesce, frittini, prosciutto crudo, spaghetti cacio e pepe… e panettone”.

Tra una sganasciata di Beluga e un sorso di Champagne agguantato dal “contenitore colmo di ghiaccio”, mi vedo sin d’ora impegnato a risolvere il fastidioso problema degli esodati o lo sconveniente disagio della caduta del PIL.
Mi si arrota già la erre se mi immedesimo nella illuminata borghesia che si aggirerà corrucciata per la Sala Belle Arti, angosciata al proponimento di far fronte alla calante produttività delle nostre aziende mentre doverosamente sbocconcella distratta un boccone di sushi al suono della “famosa band Bibenda”.
Fortunatamente, a stemperare la tensione ci penseranno le “barzellette di Ubaldo”!

Maria Antonietta e il suo celebre “S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche” sono nulla di fronte allo Champagne scacciacrisi ideato da quel gran cuore del Ricci.

Che grande idea! Grazie, Franco Maria!

Articoli correlati:

Germany reduced: la classificazione tedesca per tutti.

Si dice che i tedeschi son gente seria, precisa, sistematica, lineare.
Per carità, immagino sia vero… magari per tutto meno che per la classificazione dei vini, che è di un incasinato micidiale. In più, certo, non aiuta la lingua…

Cerco di fare chiarezza, premettendo che l’intento è di semplificare anche a scapito di un minimo di approssimazione.
Disclaimer: questa classificazione è valida solo per la Germania: in Austria ci sono alcune differenze.

Ripe grapes of Riesling.
Tom Maack, Riesling grapes and leaves. Rheingau, Germania, Ottobre 2005

La classificazione si basa sulla regione di origine, sulla eventuale aggiunta di zucchero e sulla maturazione delle uve; in più si appoggia alla scala Oechsle, un metodo di misurazione della maturazione e dello zucchero basato sulla densità del mosto ideato da Ferdinand Oechsle.
Facendola facile, i gradi Oechsle (Oe) indicano di quanti grammi un litro di mosto supera il peso di un litro di acqua; poiché la differenza è causata praticamente solo dallo zucchero disciolto nel mosto e poiché l’alcol del vino è dovuto alla conversione dello zucchero da parte dei lieviti, è chiaro come la scala sia usata per predeterminare il potenziale alcolico del vino finito.
La parola chiave è “potenziale”: non è detto che tutto lo zucchero venga svolto in alcol, in questo caso avremo un vino più o meno dolce.

Alla base della piramide ci sono i Tafelwein (vini da tavola), che devono essere prodotti in una delle regioni autorizzate, devono raggiungere almeno i 44° Oe (corrispondenti ad un alcol potenziale del 5%) e il contenuto alcolico finale deve essere di almeno 8%, che può essere ottenuto anche con l’arricchimento di zucchero.

Il secondo step sono i Landwein. La provenienza deve essere da zone determinate, il contenuto alcolico finale superiore dello 0.5% rispetto ai Tafelwein e il vino deve essere secco (troken) o semisecco (halbtrocken).

A seguire iniziano i “vini di qualità”: Qualitätswein bestimmter Anbaugebiete (brevemente detti QbA, vini di qualità prodotti in regione determinata): provenienza da 13 regioni autorizzate, grado Oechsle compreso tra 51°Oe e 72° a seconda della zona di raccolta e contenuto finale di alcol almeno 7%. E’ ammessa la aggiunta di zucchero al mosto.

Arriviamo poi ai Prädikatswein o Qualitätswein mit Prädikat (QmP, vini di qualità superiore). Questi non possono subire l’arricchimento con aggiunta di zucchero, possono coprire tutta la gamma da secco a dolce, devono essere prodotti con uve provenienti da ben definite sottoregioni delle 13 autorizzate ai QbA e sono ulteriormente classificati con la scala seguente:

  • Kabinett: possono essere semidolci (lieblich), semisecchi (halbtrockeno secchi (trocken). Devono avere almeno 73° Oe.
  • Spatlese: da uve raccolte con vendemmia tardiva, quindi con maggiore concentrazione zuccherina (almeno 85° Oe). I vini possono andare da secchi a dolci.
  • Auslese: vendemmia selezionata di uve raccolte manualmente, che possono essere state già attaccate dalla muffa mobile, la botritys cinerea. La concentrazione di zucchero deve essere almeno 95° Oe, e anche stavolta il vino finito può essere secco o dolce.
  • Beerenauslese: vendemmia di acini selezionati. Gli acini devono essere raccolti a mano scegliendo quelli attaccati dalla muffa nobile o almeno surmaturi. Il vino finito è solo dolce, in quanto gli almeno 125° Oe non si riescono a convertire interamente in alcol.
  • Trockenbeerenauslese: vendemmia di acini selezionati vecchi. Gli acini devono essere o botritizzati o appassiti sulla pianta, in modo da ottenere almeno 150° Oe. Il vino finito è dolce.

Fanno categoria a parte gli Eiswein (vini del ghiaccio), ottenuti da uve vendemmiate a Novembre o Dicembre quando gli acini (non intaccati da muffa nobile) sono ghiacciati, ottenendo mosto concentrato naturalmente, in quanto durante la pressatura si elimina la parte ghiacciata (sostanzialmente acqua). Il mosto deve avere almeno 125° Oe e il vino finito è solo dolce.

[Update: c’è una appendice a questo articolo: Germany reduced: la classificazione tedesca per tutti (reprised)]

Articoli correlati:

L’oroscopo in vigna: biodinamica for dummies

Rudolf SteinerRudolf Steiner si è occupato di filosofia, di pedagogia, di esoterismo, di sociologia, di antropologia, di musicologia.
Rudolf Steiner è morto nel 1925.

Scrivo questi dati per ricordare a quale distanza socio-temporale facciamo riferimento quando parliamo di biodinamica: Rudolf Steiner è infatti l’ispiratore di questo metodo di coltivazione.
Un tempo nel quale, per fare alcuni esempi, Herry Ford aveva da poco inserito la catena di montaggio nel suo processo produttivo, il cinema diventava sonoro, nasceva il partito comunista cinese di Mao Tse-tung e Mussolini diventava capo del governo.
Un tempo in cui un uomo, Steiner appunto, poteva aver studiato matematica e fisica e poi diventare curatore delle opere di Goethe, credere alla reincarnazione, inventarsi una “arte del movimento” chiamata Euritimia, dirsi sicuro della vita su Saturno, formulare le basi di una medicina alternativa detta antroposofica.
Eccetera eccetera (tanti eccetera).
Per inciso, la medicina antroposofica (che ovviamente non ha alcun riconoscimento da parte della scienza medica) è una di quelle teorie squinternate che, per dirne una, cura il tumore con l’estratto di vischio…

Ora, il povero Steiner era uomo del suo tempo, sicuramente colto, ma dire che tante delle idee alla base delle sue teorie siano, al meglio, obsolete, se non del tutto prive di qualsiasi fondamento scientifico o del tutto strampalate dovrebbe essere una banalità. Invece…

Invece una delle parole d’ordine dell’enomondo attuale è “biodinamico”, un termine figo, quindi molto più voga dell’ormai assodato “biologico”. Peccato siano in pochi tra i consumatori a sapere davvero cosa ci sia dietro alla parolona magica.

Prima di procedere a spiegare, vorrei raccontare un aneddoto: lo scorso anno sono stato in Trentino a visitare un Noto Produttore biodinamico; grandi vini, ottima ospitalità, cantina meravigliosa.
Ad un certo punto vengo fatto entrare nella barricaia e c’è una musica accesa; l’addetto alle visite mi racconta che il suono e le vibrazioni accompagnano l’affinamento dei vini. Vabbè.
Poco dopo mi fanno notare con orgoglio che sui muri ci sono dei piccoli tubi: i cavi della corrente elettrica passano all’interno di questi e sono “annegati” in un gas inerte per minimizzare l’influsso dei campi elettromagnetici.
Vabbè.
Un istante dopo, non posso fare a meno di notare a pochi metri di distanza una antenna ripetitore per telefono DECT. Non vado oltre per non insultare l’intelligenza del lettore.

Dunque, cosa è la agricoltura biodinamica?
Brevemente e per accenni: un metodo di coltura “fondato sulla visione spirituale antroposofica del mondo”, in cui più ogni sostanza è diluita, più ha effetto sugli organismi con cui viene a contatto. Per migliorare la qualità del terreno vengono così creati dei “preparati” (in diluizione tale da, secondo le leggi della chimica, non aver più nessuna parentela con la sostanza di partenza) poi usati o per il compostaggio o spruzzati sulle piante, non prima però di essere stati conservati dentro a parti di corpi animali (es. corna svuotate di vacche che abbiano già partorito!).
Date le premesse non stupisce che si dia grande importanza alla astrologia (sì, proprio gli oroscopi), che si parli di “forze cosmiche e spirituali” e di “energia vitale” della materia.
Senza proseguire oltre, rimando chi volesse approfondire a questo bel articolo di Dario Bressanini.

Con questo non voglio demonizzare la agricoltura biodinamica: la sua ideazione precede lo sviluppo della agricoltura biologica e ne incorpora molti aspetti pregevoli, come ad esempio la pratica del sovescio e il non uso di fitofarmaci, fertilizzanti, erbicidi e pesticidi di sintesi.
Sono sicuro ci siano moltissimi vignaioli che abbracciano questa filosofia misticheggiante come estrema riverenza nei confronti della natura dei loro terreni, convinti di ottenere in questo modo prodotti migliori e più sani possibili, e sono anche convinto che ci riescano, visto che, in quanto veramente innamorati della campagna se ne occupano al meglio, con tutte le loro forze e la loro passione.
Sono sicuro che i risultati ci siano; altrettanto sicuramente si ottengono non grazie alla biodinamica, ma nonostante essa.

Infastidisce semmai che, accanto a bravi (e mi permetto, ingenui) contadini convinti della efficacia di questa stregoneria e ad altri più razionali (che dei suddetti esoterismi prendono razionalmente solo la piccola e parte sensata), ci sia chi usa il termine magico per farne un business, confidando nella impreparazione della massa, affascinata da una parola che suona più bio del biologico.

A tramutare la superstizione in affare ci sono di sicuro alcuni produttori pronti a seguire la moda del momento (ieri erano le barrique, dunque via di trucioli nel mosto e di “vino del falegname”, oggi tira “il naturale” e allora perché non sfoderare le corna di mucca?), ma non solo: Demeter, la associazione preposta a certificare i produttori biodinamici guarda caso, ha un tariffario per chi vuole fregiarsi del bollino…

Articoli correlati:

Riesling: un nobile del Nord

Anche senza che io confessi, chi ha sbirciato il sito poco meno che distrattamente si sarà accorto da sé della mia predilezione per i vini bianchi del Nord, in particolare per Riesling e Champagne.

Se la bolla francese più o meno la conoscono in tanti, magari anche solo nelle sbiadite versioni da supermercato di qualche grande maison, i Riesling restano affare un pochino più da carbonari per il grande pubblico, comunemente in difficoltà ad accettare un bianco a volte dolce o semidolce, che dà il meglio di sé dopo lungo invecchiamento.
Genera confusione anche il fatto che ne esistano alcune varietà solo lontanamente parenti, ad esempio il riesling italico, che in Germania viene chiamato Welschriesling.

Zell (Mosel), Germany
Zell (Mosella), Autore Friedrich Petersdorff

La sua origine è situata nella valle del Reno (da qui la definizione di Riesling Renano), in particolare nella regione della Rheingau; gli antenati dovrebbero essere il Gouais Blanc (nome francese del tedesco Weißer Heunisch), ormai raro ma pare assai comune in epoca medioevale, e il Traminer.
Le prime fonti scritte che ne parlano risalgono a metà del 1400, e il suo crescente successo a partire dal XVII secolo è dovuto agli ordini religiosi, che ne riconobbero la grandezza e lo coltivarono diffusamente.

Resistenza al freddo, elevata acidità e maturazione tardiva sono caratteristiche distintive del vitigno, ma è soprattutto importante notare, oggi che tutti parlano di terroir, che il Riesling è una delle uve che meglio riflette i caratteri del suolo di coltivazione.
La produzione attuale è concentrata in Germania, in Alsazia, in Austria, in Australia e Nuova Zelanda, negli Stati Uniti e nel Canada.
La Germania è ovviamente lo stato in cui, per tradizione e per caratteristiche climatiche e di territorio, la coltivazione del Riesling è preponderante; le zone tedesche più vocate sono:

  • Mosel-Saar-Ruwer (o Mosel in breve)
  • Nahe
  • Pfalz
  • Rheingau
  • Rheinhessen

Per la quantità delle sostanze odorose concentrate sulla buccia (costituite per la maggior parte dai terpeni) è definito come vitigno semiaromaticoinoltre, con l’evoluzione, questi aromi primari sono accompagnati da secondari e terziari assai complessi.
Mi piace per questo definirlo un vino camaleonte: da fresco e facile in gioventù a profondo e ampio con l’invecchiamento, forse è questo il grande fascino del Riesling.
Troveremo quindi in partenza vini ricchi di profumi floreali (ad esempio acacia, erba sfalciata) e fruttati (agrumi, frutta tropilcale, mela, pera, albicocca); gli anni porteranno poi toni mielati, ricchezza minerale (pietra focaia, idrocarburo) e speziata (tabacco, pepe).

La tradizione tedesca prevede la vinificazione con bassa gradazione e residuo zuccherino (vini dolci o semisecchi), anche se le abitudini dei consumatori attuali hanno portato ad un incremento nella produzione di vini secchi (troken). In ogni caso, la eventuale dolcezza e il ricco corredo aromatico sono stemperati e bilanciati dalla grande freschezza derivante dalla naturale acidità del vitigno, che garantisce anche lunghissima conservazione al prodotto imbottigliato.

Rimando ad un prossimo post qualche chiarimento sulla classificazione, spero utile all’orientamento nella giungla delle etichette tedesche.

[Aggiornamento: ecco la guida alla classificazione]

Articoli correlati:

Sughero contro vite: tradizione e ragione.

Curiosa la coincidenza: capita l’ennesima bottiglia non banale cui si disintegra il tappo durante l’apertura e proprio in questo periodo, nel solito giro dei blog enoici, compaiono diversi post dedicati a questa tipologia di chiusura.

Bouchons de vin
Dave Minogue, Bouchons de vin

Parlare della sostituzione del tappo in sughero, tutto sommato un fatto puramente tecnico, equivale a sollevare un piccolo polverone nel mondo del vino, che vive molto di emotività, di tradizioni, di suggestioni e, perché non dirlo, di leggende.

Così, fra gli enostrippati, trovi quelli che sostengono di non poter fare a meno del costume della apertura con annessa snasata e che piuttosto di rinunciare a questa ritualità sono disposti a subire una percentuale di bottiglie puzzolenti; immagino siano le stesse persone che, parlando di libri, sostengono di non poter leggere su e-book in quanto “si perde l’odore della carta”…
E’ anche vero che le preferenze sono personali e come tali non discutibili: chi sono io per rovinarti la cerimonia di taglio della capsula, estrazione e sniffo correlato?

Ci sono poi quelli che adducono ragioni scientifiche per perpetrare la continuità della chiusura in sughero: curiosamente c’è chi dubita della ermeticità delle chiusure alternative e chi al contrario sostiene che solo il sughero permetta lo scambio di ossigeno con l’esterno. Tutto e il suo contrario.
Premesso che non sono un enologo, vedo di riassumere quello che ho capito documentandomi con varie fonti.

Intanto, i fatti.
Pare che le più vecchie testimonianze di chiusura con sughero vadano fatte risalire già in epoca romana, ma la prima applicazione su bottiglie dovrebbe risalire al 1600 in Francia.
Oggi il sughero di qualità è sempre più raro e costoso: si ricava da particolari querce di 25-30 anni, e con successive estrazioni ogni circa 10 anni.
In commercio esistono varie tipologie di tappo in sughero: monopezzo, a due dischi, eccetera.

I problemi accertati.
Il più noto è il famigerato “odore di tappo” (2, 4, 6-tricloroanisolo o TCA, per gli amici) è dovuto alla presenza di una una sostanza organica (un fungo) nel sughero.
L’incidenza di questo fenomeno non è bassa: vari studi statistici ci dicono che circa il 5-7% delle bottiglie incappano nel problema.
Ma, TCA a parte, il problema maggiore della tappatura in sughero è la non uniformità dei risultati della conservazione delle bottiglie anche nel caso di tappi non difettati: le classiche bottiglie stanche, appannate, spente eccetera.

Le soluzioni alternative sono di vario tipo: tappo a corona (il classico “da birra”), sintetico (molto in uso nel caso di vini economici), vetro (in realtà la chiusura è garantita da una guarnizione sintetica, quindi il vetro è solo coreografia), a vite (spesso chiamato anche Stelvin, che in realtà è il brand di un produttore).

La situazione attuale vede il tappo sintetico diffuso nei vini economici e di “pronta beva” e un crescente utilizzo del tappo a vite, in particolare nei mercati con consumatori (e produttori) meno legati alla tradizione (ad esempio Australia, Nuova Zelanda, ma anche Germania).

A quanto pare il tappo sintetico non si adatta al lungo invecchiamento per problemi di tenuta: le osservazioni riportano di vini ossidati dopo alcuni anni.
La chiusura a vite è invece sperimentata con successo da molti produttori storici e di qualità, ma l’uso è limitato da fattori commerciali: il pubblico abbina il sughero alla qualità e la vite a vini più dozzinali.
Il punto che generalmente viene sollevato dagli amanti dell’imbottigliamento con sughero è che una chiusura di questo tipo (se di ottima qualità) permetterebbe un ideale micro-scambio di ossigeno con l’esterno, favorendo una evoluzione controllata del vino.

La riposta a questa affermazione viene indirettamente da un commentatore puntuale come Angelo Peretti, che annuncia come Pierre Frick, Alsaziano bio-tutto, abbia deciso di passare addirittura al tappo a corona. La sua risposta alla classica obiezione della evoluzione del vino è perentoria: “Già da trent’anni Emile Peynaud ha dimostrato che nella bottiglia nessun vino assorbe l’ossigeno dell’aria quando questo è tappato da un eccellente sughero; è proprio perché l’impermeabilità al gas è variabile da un tappo all’altro, che alcuni viticultori mettono della cera sul collo e sul tappo della bottiglia … gli Champagne e i crémant maturano sur latte per anni in bottiglie tappate da capsule. La maturazione del vino è un processo fisico-chimico che non necessita di ossigeno dall’esterno”.

Lo scorso anno, Intravino ha dato notizia di un interessante esperimento condotto da Australian Wine Research Institute e durato oltre 10 anni. Le immagini presenti nell’articolo e tratte dal pdf che illustra la ricerca, dicono più di mille parole.

Ci sono evidenze fondate che l’uso del tappo a vite non abbia conseguenze organolettiche nefaste, anzi: sul sito di Slow Wine, la notizia del recente Decreto che autorizza l’uso del tappo a vite anche sui vini DOCG, è corredata da alcune impressioni di assaggio comparata di alcune etichette prestigiose in sughero e in vite.
Il risultato in breve: immediatamente dopo l’apertura i vini con tappo a vite sono più chiusi, ma bastano pochi minuti per renderli più espressivi dei fratelli conservati con sughero.

In Italia, uno dei sostenitori più convinti della chiusura a vite è certamente Armin Kobler, che ha spiegato più volte le motivazioni della sua scelta, basate su prove empiriche e conoscenza scientifica.

Ad ulteriore confutazione della tesi degli amanti del sughero, mi pare di capire che in commercio esistano varie tipologie di tappo a vite, più o meno permeabili all’ossigeno, permettendo quindi uno scambio controllato con l’esterno.

Per finire, i dati disponibili concordano nel dire che la chiusura a vite permette di utilizzare dosaggi minori di solforosa rispetto al classico imbottigliamento in sughero.

In conclusione, per quanto riguarda i grandi vini da invecchiamento ci può essere forse qualche margine di discussione, ma credo che nessuno (esclusi gli amanti delle ritualità) possa avere nulla da ridire riguardo l’uso della chiusura a vite perlomeno nel caso di vini bianchi di varia tipologia, rosati e rossi da bersi entro un periodo non particolarmente lungo (5 anni?). I vantaggi sono evidenti: nessuna bottiglia “tappata” da buttare e totale uniformità del lotto di produzione (produttore e consumatore sono tutelati al massimo).

Articoli correlati: