Il calendario di chi beve e di chi mangia

Comunicazione di servizio: magari ve ne siete accorti, magari no, ma in questi giorni ho aggiunto un calendario di eventi a tema eno-birro-gastronomico che ritengo interessanti e che di solito si svolgono più o meno nel Nord Italia.

Ora, non è escluso che possa estendere il calendario a tutta Italia, ma neppure che decida di sbaraccare tutto a breve, visto che inserire gli eventi e tenerli aggiornati richiede tempo.

In ogni caso, come ovvio, non mi assumo responsabilità alcuna nel caso in cui vi facciate 100 Km di auto per arrivare all’indirizzo sbagliato o con la manifestazione cancellata all’ultimo momento: per ogni evento inserisco sempre il link al sito ufficiale e possibilmente anche una mail e/o un telefono, fatene buon uso.

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Flavio Roddolo, ritratto di vignaiolo in Langa

E’ ora di distruggere quel briciolo di reputazione che mi resta e diventare definitivamente un eno-paria; confesso i miei peccati facendo coming out e dichiarandolo pubblicamente: a me, spesso, la mitizzata “visita in cantina” provoca una noia degna della visione coatta di un paio di puntate di Porta a Porta.

Ti emoziona vedere l’ennesima linea di imbottigliamento? Ti interessa davvero la lista dei materiali eco-compatibili con cui è stata costruita la cantina all’avanguardia di turno?
No, perché diciamolo: sovente la routine è: occhiata alla vigna (che avevi visto altrettanto bene prima di suonare il campanello), giro in cantina, banco di assaggio, acquisto. Fine, per fortuna.
Il tutto condito da qualche massima che già conoscevi, avendo letto tutto del produttore su varie guide e siti, e da molti sbadigli.

Vado oltre, e confesso anche di non avere il mito della campagna e dei bei vecchi tempi andati, dei quali sembrano nutrirsi molti appassionati di vino, magari mentre vanno in pellegrinaggio in Borgogna con l’aereo o con il SUV.
Mi spiego: nulla in contrario alla tradizione e ai suoi riti, ma non posso dimenticare che lo stato di natura dell’uomo è vivere (temo in modo non particolarmente piacevole) prima nelle grotte e poi sulle palafitte, dove non mi risulta fossero disponibili salotti con cantinetta termo-condizionata e umidificata per conservare bottiglie di Monfortino.
Insomma, la tanto bistrattata modernità direi che qualche progresso ce lo ha fatto fare: mio nonno, uomo mite e nato contadino, quando sentiva recitare il classico luogo comune “come si stava bene una volta in campagna, quando non avevamo niente”, si incazzava e rispondeva che la vecchia cascina era disponibile e potevano andarci quando volevano sul monte, senza corrente elettrica e senza acqua in casa, a soffrire il freddo e a sfamarsi con la polenta tutti i giorni.

Roddolo vigne 2Tutto questo lungo preambolo, che spero perdonerete, per dire che nei giorni scorsi sono stato da Flavio Roddolo, produttore di nicchia assai raccontato e mitizzato in certi ambienti (Scanzi in primis), e che quando mi avvicinavo da Monforte verso la Frazione Sant’Anna, Bricco Appiani, stavo cercando di far chiarezza nelle mie aspettative.
Avrei trovato l’ennesima declinazione del Contadino All’Antica con la tv satellitare? O del Vignaiolo Etico che ti racconta di come ama api e insetti nei filari?

Poco tempo per riflettere, appena metto piede fuori dall’auto sbuca fuori casa un omone barbuto, insospettito dal rumore di automobile; una stretta di mano frettolosa e mi chiede se voglio vedere la cantina (che poi sarebbero due: una, quella vecchia, un piccolo antro con ammassate alcune barrique e un paio di scaffali di bottiglie vecchie, e l’altra più grande e nuova, tanto umida da avere il pavimento praticamente zuppo e pericolosamente viscido).

Roddolo Cantina 3Le parole arrivano con parsimonia e sincerità; sono quelle con cui l’omone risponde alle domande: le barrique le ha sempre usate perché ha poca uva e a volte le botti grandi sono, appunto, troppo grandi ed è un problema, e le vecchie bottiglie le conserva in piedi perché le avevano messe via così, non pensando di conservarle per venti, trenta o quaranta anni, e insomma perché spostarle?
Una breve sosta all’aperto, dove mi mostra fin dove arrivano i suoi vigneti e poi, lamentandosi della temperatura che non gli consente di imbottigliare il dolcetto, entriamo in casa per assaggiare qualcosa.

Roddolo Cantina 1Così sorseggi, scaldandoti dal freddo di una giornata che appartiene più all’inverno che al mese di Aprile, davanti ad un signore dall’aria severa, che ti fa accomodare, ti serve bicchierate pantagrueliche del suo vino (senza raccontartelo: grazie a Dio non spende una parola su mineralità, acidità, terroir e lieviti), dimentica di porgerti il cestino con i grissini, e magicamente (ma tutto sommato non del tutto inaspettatamente) si mette a parlare di mille argomenti, come se infondo gli facesse quasi piacere averti in visita, e infatti ti tiene oltre due ore nelle quali ti getta dei frammenti di verità, raccontando di come, ai tempi di suo padre, al mosto si aggiungesse talvolta zucchero e/o sale, del rifiuto di andare alle varie manifestazioni (“sono stato tre o quattro volte al Vinitaly, me lo avevano chiesto degli amici, ma dopo qualche ora me ne sono andato. Adesso non vado più, ho troppo da fare.”), della passione per la caccia (trascurata), della difficoltà burocratiche e legislativa di poter assumere aiutanti e soprattutto, con un pizzico di commozione, delle tre bottiglie di dolcetto del ’67 che ha ritrovato recentemente (forse il suo primo vino; una dice di averla stappata da poco e di essersi stupefatto trovandolo ancora perfetto).

Ancora, si apre senza problemi raccontando del perché delle vigne di cabernet (“negli anni ’90 lo volevano tutti”), della assurdità della moda con cui si insiste sulla solforosa, mentre magari si assaggiano in batteria 100 vini, e invece il vino è fatto per essere bevuto poco e durante i pasti, altrimenti fa male, e delle repentine conversioni al biologico di tanti colleghi, avvenute in cinque minuti, mentre lui per eliminare gli insetticidi ci ha messo anni.

Prima di congedarti, ti offre un bicchiere di bianco da uva Favorita che ha fatto per lui,  dice che lo ha lasciato in damigiana per 10 anni(!) (“continuava a fermentare, lo ho lasciato andare e poi l’ho dimenticato”) e lo ha imbottigliato da poco, dopo averlo portato ad analizzare per curiosità.
Ovviamente è meraviglioso: oro, aromatico, caldo, fresco, pieno, mi ricorda alcuni importanti friulani, e solo in questo momento, per un attimo, pensi che forse ti stia prendendo in giro, che non è possibile, e che forse ti ha ingannato con una recita ben architettata; poi lo vedi con quella faccia, dura ma gentile e tranquilla, e passa subito.

Comperi le tue due cassette di vino, paghi e te ne vai a pranzare, che è quasi l’una. Tornerai tra 10 minuti perché hai dimenticato la macchina fotografica: dovrai suonare a lungo e verrà ad aprirti in tuta da lavoro: “Come, non mangia?”. Risposta: “Eh, c’è da fare”.

Roddolo vigne 1Ah, I vini?
Fate voi, non ho certo tirato fuori il libricino per prendere appunti, mi sarei sentito oltremodo ridicolo e imbarazzato; ad ogni modo, sarà stata la suggestione della Langa e del personaggio, ma mi sono sembrati tutti speciali, dal Dolcetto superiore (senza dubbio il dolcetto più piacevole e particolare mai assaggiato, pur restando invidiabilmente austero), passando per la ricca freschezza della Barbera e per uno stupefacente Nebbiolo, sicuramente ben superiore a tanti Baroli rinomati e di ben altro prezzo, per finire con il Barolo (che, pur implorandoti di esser messo via per altri dieci anni, è già godibile fin d’ora) e con il Cabernet (di grande spessore e complessità, dal quale emerge un varietale netto ma non stucchevole).

La prima conclusione è che Roddolo non è un sofisticato gentiluomo di campagna o un vignaiolo furbamente affabulatore, semplicemente è un contadino che sembra davvero amante della sua campagna e che ci tiene a fare un buon vino, e l’unico metodo che considera adatto per produrre le sue ventimila bottiglie l’anno è quello che ha visto usare da suo padre.

La seconda conclusione è che confesso un leggero moto di imbarazzo nello scrivere queste righe: cosa c’è di più distante della moderna vanità di un blog personale dalla imperturbabile semplicità di un vignaiolo che ancora possiede un vecchio telefono, di quelli della SIP, grigi e con la rotella per selezionare i numeri?

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Vinitaly Vs Bloggers

In giro per l’angusto spazio della blogosfera enoica italiana, s’ode strepitare una polemica che pare sbuffo di tempesta in un bicchier d’acqua (o di vino?): i bloggers italici si indignano perché i cattivoni del Vinitaly non passano il biglietto di ingresso gratis alla loro categoria.
In ulteriore sfregio, il Sanremo del vino ha approntato una saletta e un pizzico di wifi per i “reputable foreign bloggers”, qualsiasi cosa essi siano.

E’ da poco tempo che bazzico in questo mondo, ma ogni anno sento questa litania del Vinitaly brutto e cattivo perché non capisce l’importanza degli scrittori non professionisti, perché non c’è la wireless libera e perché le celle telefoniche sono sovraccariche e non si riesce a postare la fotina della bottiglia o a mandare il tweet spiritoso in tempo reale.

Oggi come in passato, francamente il problema mi sfugge: se la fiera non abbraccia il formidabile valore aggiunto della comunicazione veicolata dai bloggers, beh, saranno un po’ cavoli degli organizzatori, se invece il problema è quello del prezzo di ingresso posso capire, ma allora benvenuti nel club: ci son tanti divertimenti dei quali mi piacerebbe godere ma che non posso permettermi, il Vinitaly non sarà né il primo né l’ultimo.

La doleanza della mancanza della wireless e delle celle sovraccariche la tralascio per carità di patria: sei in fiera a bere e a divertirti, se senti che la tua sopravvivenza è minata dal dover attendere il ritorno a casa per scrivere su Facebook che hai assaggiato un favoloso rosso dell’Etna, credo che forse la cosa ti abbia preso un po’ troppo la mano.

Poi, per carità, certo che sarebbe meglio entrare a gratis e avere banda a secchiate, ma insomma….

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Entropia sovrana: breve addendum

Evviva: non siamo soli!
Talvolta pare di essere dei marziani buzzurri e si rischia di far la figura dei fessi, quando si critica l’oggettività delle degustazioni seriali imbocca-e-sputa, così come quando si vuole mettere un freno alla ridda dei descrittori psichedelici sparati a mitraglia durante le esibizioni pubbliche di qualche super-sommelier…
Poi, invece, capita che leggi le parole di qualcuno che della materia ha fatto una professione e che cita, condividendolo, il pensiero di un grande tecnico del vino che riconosce i limiti dell’approccio in batteria:

“Imboccare una piccola frazione di vino, emettendo il solito repertorio di gorgoglii, risucchi, suoni di scarico, sciacquettando il liquido tra una guancia e l’altra, infine espellendolo fino all’ultima goccia, “è un’operazione artificiale”, secondo le parole di Dubourdieu, “e non offre la possibilità di capirne fino in fondo la reale qualità”.

Poi, è chiaro: se vuoi editare una Guida non hai altra scelta, e persone di grande esperienza di sicuro traggono comunque valide indicazioni da un simile approccio, ma da qui a teorizzarne uno strumento di misura oggettivo, beh, ne corre.

Un grazie alla sincerità di Fabio Rizzari.

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Tappo a vite VS sughero: altre impressioni

Curioso: scrivo alcune note di degustazione su alcuni vini appena assaggiati in comparazione vite / sughero, e dopo pochi istanti vedo un post del sommo Masnaghetti / Enogea che parla di una situazione analoga, e mi pare con risultati comparabili.

Rilancio qui quanto scritto a suo tempo

Sarebbe bello avere più spesso queste occasioni di assaggio, in modo da poter confutare o confermare certezze antiche, spesso fondate solo sulla tradizione.

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Di scontrini, ricevute, fatture e anonimato: la critica credibile non ci mette la faccia

Ne ha parlato recentemente Enofaber, e quelli come noi che hanno uno spazietto su internet nel quale si divertono a scrivere qualche impressione su vino e cucina conoscono il fenomeno: appena hai qualche articolo e qualche lettore (ma ne bastano davvero pochi), ti arriva una mail a proporre il famigerato “sponsored post”, ossia qualcuno che chiede di parlare (bene) del suo prodotto in cambio di spiccioli.

La risposta ovvia è “no, grazie”, perché lo scopo originale del sito è diverso; fuori di ipocrisia, è chiaro che se il conquibus proposto fosse esponenzialmente superiore si potrebbe pensare di trasformare il blog in un prodotto editoriale: non ci sarebbe nulla di male ma si tratterebbe di una cosa diversa.
Così come non ci sarebbe nulla di male se qualcuno di noi piccoli peones della tastiera decidesse di pubblicarli, questi benedetti post sponsorizzati: l’importante sarebbe mantenere ben chiara la distinzione tra contenuti a pagamento e riflessioni personali.
Del resto su questo spazio (e su molti altri) già vige la consuetudine di esplicitare quanto paghiamo ogni bottiglia e di dichiarare i regali.

Non è solo una questione puramente formale (che comunque ritengo doverosa nei confronti del lettore): è che, in barba ad ogni pretesa di oggettività, sono profondamente convinto che la mia “piacevolezza percepita” sia inevitabilmente modificata dalla eventualità di un omaggio.

Il ragionamento, di per sé risibile per la sua prospettiva minuscola, ci consente di estendere lo sguardo alla critica enogastronomica nel complesso e di riflettere sulla sua credibilità.
Estremizzando, ritengo che in una ipotetica equazione capace di determinare matematicamente la qualità e la piacevolezza di un vino (o di una cena), nell’elenco delle variabili dovrebbe entrare (oltre al prezzo pagato) anche il reddito del degustatore.
Mi spiego: escludiamo pure malafede e recensioni comperate, ma è così irreale pensare che se io vado a mangiare da Bottura (investendo un terzo del mio stipendio mensile e quindi potendomelo permettere forse una volta l’anno), avrò aspettative e idee di perfezione ben diverse da chi si siede a certi tavoli una volta la settimana, addirittura a fine serata non apre il portafogli e comunque gode di attenzioni riservate ai volti ben noti dei recensori famosi e conosciuti nell’ambiente (la portata fuori carta, il servizio certamente puntuale eccetera)?

Capisco che chiedere la dichiarazione dei redditi sia troppo, ma perlomeno, cari professionisti e semi-pro, siate trasparenti e ditemi chi paga; scrivetelo chiaro (e magari pubblicate la foto dello scontrino o della fattura) se la bottiglia in questione è arrivata in omaggio, la ha pagata la casa editrice o avete tirato fuori i quattrini di tasca vostra.
Semplicemente, ditemelo quando sniffate il vino da 250 euro, e poi io farò la tara che ritengo opportuna alle vostre mirabolanti degustazioni da punteggio 95 e superiore (immancabilmente definite “commoventi” o “da lacrima”).

Mi interesserebbe sapere se una azienda che vuole promozionare una certa bottiglia, ha invitato il recensore sul posto e ha pagato viaggio, albergo e cena… mica per altro: temo che l’indulgenza al giudizio favorevole sia decisamente inferiore nel caso di prodotto comperato dall’enotecaro scorbutico a 80 euri (risparmiati bastonando con decisione la moglie che voleva investire il tesoretto in un nuovo taglio di capelli) e portato a casa facendo a cacciavitate nel traffico.

E’ curioso che tra molti di noi bloggers dilettanti ci si diano regole ben più severe di quelle seguite dai “professionisti” (che, ricordiamolo, sono coloro che mangiano e bevono per mestiere, e da questa attività traggono profitto): noi paghiamo le bottiglie, paghiamo la benzina o il treno per andare alle manifestazioni, paghiamo l’eventuale pernottamento, paghiamo le cene, dichiariamo quando ci regalano un vino da 15 euro al pubblico e ci indigniamo pubblicamente quando ci propongono lo sponsored post. E i professionisti?

E’ ingenuo domandarsi come mai a fronte di un solo Valerio Visintin, l’unico critico gastronomico “invisibile” di cui nessuno conosce le fattezze, ci sia uno stuolo di recensori che danno del tu ai cuochi? Ed è così folle chiedersi come mai i suoi colleghi “con la faccia” non amino granché l’anonimato?

Un paradosso: professionisti della critica enogastronomica, non metteteci la faccia ma il portafogli.

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Entropia sovrana, o di degustazioni oggettive e bottiglie identiche ma diverse.

Alert: questo non è il vero articolo. E’ una anteprima, uno spot, un trailer, una sinossi, o, come dicono quelli  fighi, un teaser, infatti su questa storia delle degustazioni oggettive, delle sfide all’ultimo descrittore psichedelico, dei punteggi centesimali spaccati con il cesello e delle guide con relativi premi, frizzi, lazzi e cotillon ho in previsione di scrivere da tempo, ma ogni volta che mi approccio alla materia mi ritraggo sconfortato.

Peraltro mi preme lasciar traccia di quanto accaduto la settimana scorsa e che, incidentalmente, rafforza le mie convinzioni.
Primo episodio: consueta bella degustazione presso la Cantina du Pusu di Rapallo; stavolta il tema sono i famigerati Supertuscans, una sparata di otto referenze che hanno visto la luce nel periodo dal 95 al 99.

Tra gli assaggi, due Merlot: Sant’Adele ’99 Villa Pillo e Merlot ’97 La Braccesca.
Più o meno tutti concordi: La Braccesca è più fresco, più vivo, più ricco. Verso fine serata si stappa una seconda bottiglia del Sant’Adele, e, più o meno tutti concordi, è un altro vino, più ricco, espressivo, pieno ed elegante, infinitamente migliore del precedente omonimo e del suo “concorrente”.
Ovviamente stessa annata, stessa conservazione, stessa partita e, credo, persino stesso cartone originale.

Secondo episodio: casa mia, apro una bottiglia (ne parleremo in un prossimo articolo) davvero poco convincente, sia al naso che al palato. Ne lascio tre quarti, aperta, e aspetto un giorno, e poi un secondo. Senza arrivare all’eccellenza, il prodotto da quasi sgradevole si è trasformato in discreto.

Alla luce di questo banale esempio, la domanda è scontata: di cosa parliamo quando facciamo le nostre affilate recensioni basate su 10cc di un vino elemosinato al banchetto di una manifestazione nel corso della quale il produttore avrà stappato dieci diverse bottiglie dello stesso prodotto?
Di cosa parlano i vari recensori delle blasonate guide, che si scofanano fino ad oltre cento (100!) vini in una stessa giornata, investendo in ciascuno un sorso, un gargarismo, uno sputo e 20 secondi?

Dai, siamo seri: sono indicazioni di massima, stop!
Poi, possiamo parlarne, ci divertiamo e nessuno lo nega, ma credo sarebbe bene ricordare che stiamo facendo al più una mappa in scala uno a diecimila della realtà di un vino, altro che “questo 84 punti, quello 85”, altro che dotte dissertazioni sul sentore di tabacco del Kentuky piuttosto che della Virginia…

A latere: parlavamo di Supertuscan, bene, io non c’ero ma mi pare di capire (e mi sono documentato, ho le prove scritte del reato e le conservo con cura, in vista di un auspicabile Norimberga enoica), che vitigno internazionale, barrique, enologo di grido e similari, sono stati per anni il grido di battaglia di tanti fenomeni degustatori e dei loro relativi premi, e ovviamente hanno formato una stirpe di consumatori schiavi del trend del momento, incapaci di decidere con la loro testa e che si sono a lungo beati di “sentori vanigliati”, “grande frutto maturo” e altra paccottiglia varia.
Ora il vento degli “esperti” è cambiato e ne consegue che se avessi in tasca un euro per ogni invasato che, roteando un bicchiere, straparla solo di “mineralità” e “acidità” e declama icastico “Si sente il legno piccolo!”, potrei quasi bere Romanée-Conti una volta la settimana. Sono passati dieci anni, non diecimila.

Mondo curioso, quello del vino: “frutto” e “minerale” saranno mica come i “vita alta” e “vita bassa” del fashion? Nel caso, mettete via una cassa di syrah siciliano bello concentrato e rotomacerato: sia mai che il prossimo autunno-inverno tornino in voga i borselli per uomo e l’osmosi inversa?

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La giungla dei solfiti

I solfiti sono spesso al centro di scambi di idee abbastanza contrastanti, mi è capitato da poco di leggere un articolo che trattava quest argomento, e che mi ha fatto pensare che effettivamente è facile fare un pò di confusione tra solfiti aggiunti e solfiti naturalmente presenti nel vino.

Cercherò di fare, per quello che mi è possibile, un quadro più chiaro della situazione sperando che vi sia utile.

Inizialmente l’ anidride solforosa veniva utilizzata unicamente per i processi di sanificazione dei tini, come prodotto della combustione di zolfo. Solo in seguito si è iniziato ad utilizzarla come adittivo chimico per le sue molteplici funzioni nel processo di vinificazione come: antisettico, estrattore di colore, miglioratore organolettico, antiossidante. Bisogna fare subito una precisazione: i solfiti sono presenti naturalmente nel vino spetta poi al produttore decidere se aggiungerne o meno ulteriori quantità.

All’ anidride solforosa vengono imputati diversi effetti collaterali come la sensazione di pesantezza e il famigerato cerchio alla testa, ricordiamoci però che é presente oltre che nel vino in moltissimi alimenti conservati (riscontrabile in etichetta tra gli ingredienti come antiossidante E220, E223, E224).

Anche nei vini biologici sono presenti solfiti e, secondo un disciplinare che ho  trovato sul sito del Fondo Europeo Agricolo, al produttore é data la possibilità di intervenire aggiungendone una quantità che dovrà comunque essere inferiore a quella consentita nei vini non biologici, e che varia in base alla tipologia di vino.

Limiti del contenuto di solforosa totale definiti dal regolamento europeo di vinificazione biologica: nei vini rossi (convenzionali) il limite é di 150 mg/l in quelli biologici é di 100mg/l questa proporzione si mantiene per tutte le diverse tipologie di vino prodotto.

Alla luce di questo credo sia importante seguire i propri gusti senza farsi influenzare da questa spasmodica ricerca del biologico e del naturale a tutti i costi, anche perchè come dice il mio amico Marco in una bottiglia di vino ci sono altre cose potenzialmente più “dannose”per la nostra salute come l’ alcool.

Detto questo il mio consiglio è quello di bere ciò che ci piace di più.

 

 

 

 

 

 

 

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Cheap Thrills: recensioni di vini al tempo della crisi

cheap thrillsCheap Thrills in breve:
Francesca ed io abbiamo deciso una cosa che crediamo interessante: a cadenza più o meno regolare uno dei due sceglierà in enoteca un vino rigorosamente sotto i 15 euro; tutti e due lo assaggeremo e ne scriveremo da soli, in autonomia.
Obiettivo: scovare piacevolezze (o schifezze) da bere a buon mercato e sfatare il mito della degustazione oggettiva; inoltre crediamo che il casino pseudo-organizzato delle due recensioni alla cieca l’una dell’altra possa aggiungere un pizzico di divertimento.

A breve la prima puntata di Cheap Thrills.

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Bolle per tutti: i vini spumanti

Tempo di feste uguale tempo di vini con le bollicine.

Non mi è ben chiaro per quale motivo, ma in generale in Italia questa tipologia di vino si consuma quasi solamente sotto l’albero o comunque in momenti di celebrazione, magari con vini secchi in criminale abbinamento al panettone.
Detto che per me le bolle sono uno dei piaceri della vita e che mi faccio promotore di un comitato che ne sponsorizzi il consumo se non quotidiano perlomeno settimanale, credo di fare cosa gradita (dopo aver sentito vari discorsi in la confusione regna sovrana su dosaggio, metodo di lavorazione ecc) proponendo la mia semplificazione sulla faccenda.

Intanto facciamo chiarezza sulla principale differenza: la spumantizzazione può avvenire o con Metodo Classico (anche detto della rifermentazione in bottiglia o champenoise) o con Metodo Martinotti-Charmat (solita diatriba italo-gallica: Martinotti lo ha ideato e il francese lo ha utilizzato e brevettato).
Esiste anche un metodo, poco usato, detto “Charmat lungo”, che è una sorta di ibrido dei due.

Il Metodo Martinotti-Charmat:
è particolarmente indicato per vini spumanti prodotti da uve aromatiche o semiaromatiche (brachetto, moscato, prosecco/glera, malvasia), con le quali si ottiene un prodotto semplice, da bere giovane, con colore tenue verdolino/paglierino, fruttato e di gradevole freschezza, che può essere secco, amabile o dolce.
Si parte da un vino base, fermo, a cui viene aggiunto un “liquore di tiraggio”, composto da vino, lieviti, zuccheri e sali minerali, grazie al quale in autoclave (un contenitore ermetico resistente alla pressione) avviene la presa di spuma, che dura pochi mesi, nei quali i lieviti convertono gli zuccheri in alcol e anidride carbonica; la quantità di zucchero determina la pressione finale (una atmosfera ogni quattro grammi/litro).
Seguono la filtrazione e l’imbottigliamento isobarico (cioè mantenendo la pressione originale).

Il Metodo Classico o Champenoise:
si ottiene un prodotto più maturo, complesso e strutturato rispetto al metodo Martinotti.
Le uve vengono raccolte leggermente in anticipo (in modo da ottenere maggiore acidità) e trattate con pressatura soffice e temperatura controllata; di solito la fermentazione viene innescata con l’inoculo di un “pied de cuve”, composto da lieviti, zuccheri e altre sostanze nutrienti.
Si ottengono così dei vini base da assemblare nella “cuvée”, una miscela di diverse vigne e annate, creata per garantire costante lo stile gustativo della casa di produzione. Se  la cuvée è composta da almeno l’85% dei vini della stessa annata, si può parlare di “millesimato”, altrimenti di “sans année”.
La cuvée con in aggiunta il “liquore di tiraggio” viene imbottigliata in modo da ottenere la presa di spuma, con una pressione generalmente di 6 atmosfere (24 grammi/litro di zuccheri).
Nel giro di circa sei mesi il lievito consuma tutti gli zuccheri e si degrada con processo di autolisi, che regala aromi e profumi complessi, spesso di crosta di pane; questo affinamento “sui lieviti” si prolunga da 15-18 mesi a molti anni, a seconda del produttore e del prestigio del vino che si vuole ottenere.
Terminato l’affinamento, le bottiglie vengono inclinate e ruotate periodicamente per un paio di mesi: è il “remuage”, che ha lo scopo di concentrare tutte le fecce nel collo della bottiglia. Questi scarti verranno espulsi tramite la “sboccatura”: la bottiglia viene stappata e la sovrapressione espelle le fecce.
Prima di ritappare, occorre rabboccare la bottiglia per compensare il liquido perso con la manovra di sboccatura: la manovra viene effettuata tramite il “liquore di spedizione”, una miscela di zucchero, vino e a volte distillato diversa da produttore a produttore e che determina la dolcezza finale del prodotto.

La classificazione dei vini spumanti è basata sulla quantità di zuccheri residui nel prodotto finale:

Denominazione Zuccheri residui (g/l)
Pas dosé / Brut nature / Dosaggio zero ecc. <3
Extra brut <=6
Brut <12
Extra dry 12-17
Dry 17-32
Demi sec 32-50
Doux >50

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