Festival Franciacorta

Di solito succede che vai alle manifestazioni (degustazioni, festival, incontri eccetera) e poi se qualcosa ti ha colpito, in positivo o negativo, scrivi le tue impressioni.
Stavolta non posso fare a meno di spendere qualche riga su di un evento prima che accada e soprattutto sapendo che non potrò presenziare, ma il programma è così ricco e interessante che davvero relegare la sola segnalazione al calendario eventi mi sembra uno spreco.

logo-franciacortaNon ho voglia di andare a controllare e a contare i post, ma chi mi segue ha di certo notato che una parte considerevole dei vini di cui parlo sono spumanti (sì, lo so che non si può più usare la definizione generica di “spumante” ma occorre specificare: metodo classico, charmat, Franciacorta, Trento DOC, Prosecco dei Colli Asolani e via così, passatemi la semplificazione), e quindi si può immaginare come mi dispiaccia non potermi prendere due giorni in libertà (il 28 e il 29 Settembre) per affondare nel mare di bolle del Festival Franciacorta, per il quale avevo ricevuto il cordiale invito di una azienda che non conosco e della quale ho in programma di assaggiare i prodotti quanto prima: Bersi Serlini.

Sono stato in Franciacorta due anni fa circa, ho visitato un paio di cantine, una grande e una più piccola, e ho mangiato in un paio di ristoranti: ho attraversato (purtroppo) velocemente un territorio magari non paesaggisticamente affascinante come possono essere le Langhe o certi colli Toscani, ma di certo ho incontrato persone e aziende cordialissime e soprattutto estremamente professionali e determinate.
Per questo non mi sono stupito più di tanto quando ho visto la incredibile ricchezza del programma del Festival: ci sono ovviamente le degustazioni con cibo in abbinamento, eventi artistici e musicali, incontri e dibattiti con operatori del settore, passeggiate guidate nei vigneti, merende e picnic all’aperto, cene formali e non e molto altro ancora (qui il programma completo).
Trovo molto interessante l’idea dei tour con bus gratuiti: in pratica vari bus sono abbinati ad alcuni percorsi con visita guidata e degustazione in due o tre aziende.

Per chi ne ha la possibilità, direi si tratta di una manifestazione da non perdere.

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Ché, stai a rosicà pè Francone tuo?

Franco Ricci

Franco RicciPoi dice che uno si fissa sulle cose, che rimugina, che ‘sta a rosicà (visto che parliamo di Bibenda e AIS Lazio…) ma la verità e che io da quella volta del “Capodanno col botto neanche ci pensavo più all’amicone mio Francone Ricci, ma quando ti arriva la newsletter appunto di Bibenda (cito: “La Rivista nata per rendere più seducenti la cultura e l’immagine del vino, il magazine più esclusivo, la rivista che parla di vino più bella del mondo”), come fai a non ripensare che di tutto questo rutilante sciupio di carta patinata in teoria sei colpevole anche tu, umile associato AIS della profonda provincia italiana che lo splendore della capitale lo hai calpestato solo in gita scolastica?

Quale è la mirabolante novità di casa Bibenda, annunciata in pompa magna? La rivista, cito, “da oggi potrà essere “gustata” anche online! Basterà cliccare sul titolo dell’articolo che vi interessa e sarete immediatamente accompagnati nelle raffinate ambientazioni Bibenda style”.
Accidempoli! (Scusate l’affermazione: volevo adeguarmi alla prosa dandy della rivista del Francone).

Ma questo è niente, i veri pezzi da novanta della comunicazione sono la presentazione di due nuovi servizi: “BIBENDA Ricevimenti d’Autore” e “BIBENDA Grafica”.
L’autrice Paola Simonetti, allineandosi alla modestia che sembra contraddistinguere il Francone, descrive così i due nuovi settori di business di Bibenda: la prima sarà “… la proposta di un servizio catering che rispecchi tutti i criteri di eccellenza che ci hanno caratterizzato fin qui … L’eccellenza dalla a alla zeta, a partire dalla progettazione dell’evento fino alla sua realizzazione, dai luoghi più suggestivi fino ai grandissimi chef d’Italia, i più “desiderabili”, dalla scelta della mise en place ai cristalli e agli addobbi fino ai fuochi d’artificio”, mentre la seconda attiverà “un servizio di grafica, di creatività per i vostri nuovi prodotti o per rinnovare l’immagine di quelli già esistenti, dalle etichette dei vini e degli oli extravergine alla realizzazione di loghi o dell’immagine coordinata, insomma per tutte le vostre esigenze di comunicazione e design”.

Ora, seriamente: se già da prima mi sfuggiva il motivo per cui AIS dovesse legarsi mani e piedi con il business di Francone per far uscire un giornale e una guida, adesso che detta azienda diventa di fatto imprenditrice nel settore non della critica e divulgazione, ma della ristorazione (catering) e della produzione (comunicazione e design), la commistione è francamente inaccettabile.

Ma forse la cosa che più mi scoccia è lo schizofrenico e sfumato avviluppo che impedisce di capire dove finisce l’azienda e inizia la associazione, per cui il provinciale come me fatica a distinguere i contorni di AIS Roma e Lazio da quelli di Bibenda e quindi se da un lato ti becchi il Francone che ti vende i fuochi artificiali, dall’altro sul sito di Bibenda ci sono una sparata di corsi AIS meravigliosi per i quali sì che “stò a rosicà”, visto che non potrò mai frequentarli…

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Eataly Genova: in picchiata (verso il mare?)

eataly

L’immagine che si fissa subito in mente quando si sale per la prima volta da Eataly Genova è la straordinaria veduta del porto che si gode nei pochi secondi di ascensore in vetro panoramico necessari ad arrivare all’ingresso: una ascesa sul mare e le navi, magari al tramonto, decisamente invitante e poetica.

Quanto sopra era accaduto alla mia prima visita, poco dopo l’apertura, e resta vero anche adesso. Peccato invece che le perplessità iniziali non si siano dissolte, anzi, se ne siano aggiunte di nuove.

eatalyPremesso che questo inverno ho avuto forse la migliore cena dell’anno proprio al Marin, il ristorante “serio” di Eataly (e, causa pigrizia, ho colpevolmente omesso di scriverne), e permesso che il costo di un pasto al Marin non è banale, capita che talvolta ci scappi un piatto in uno dei cosiddetti “ristorantini tematici”.

Se la prima volta che sono stato da Eataly avevo trovato il personale non all’altezza delle pretese di qualità del luogo e ne davo la colpa alla recente apertura, alla sempre troppo citata “necessità di rodaggio”, a questo punto non è più possibile nascondersi dietro ad un dito: nei famigerati “ristorantini” i ragazzi che servono e che prendono le ordinazioni non sono adeguatamente istruiti.

Già devi sorbirti di fare l’ordinazione in maniera più abominevole che alle sagre di paese: ti ammazzi per trovare un tavolo libero (che è piccolo, troppo: con due piatti, due calici, il pane, olio e pepe hai tutto in un equilibrio precario come la salute di coloro che guardano la tv pomeridiana), lo occupi mandando uno solo del gruppo a far la fila a più di una cassa (non puoi ordinare il pesce dove fanno la carne ecc.)…
Se aggiungi che la ragazza cui detti la comanda non conosce i vini che ha in carta e devi farle vedere quello che ordini puntando il dito sul menu altrimenti ti guarda attonita, se prosegui che comunque ti portano il vino sbagliato, che dimenticano di portarti il pane, che la mozzarella di bufala (indicata in carta “con olio extravergine di oliva e sale”) è appunto senza olio e sale ed è ghiacciata dentro e che quando fai presente che mancano i condimenti ti rispondono che “Facciamo così, in modo che il cliente possa scegliere”….
Se aggiungi che naturalmente pochi dei ragazzi parlano le lingue, e di conseguenza ho visto discussioni banalmente risolvibili in un battito di ciglia degenerare in infinite, esilaranti pantomime degne di un film di Totò, ecco, se assieme a tutte queste cose aggiungi i prezzi da oreficeria e il fatto che la decantata qualità ormai prevede ad esempio la vendita di articoli di pregio come la birra Peroni, ecco che all’uscita, durante la meravigliosa discesa in ascensore, in picchiata verso il blu del mare incendiato dal rosso del sole, qualche dubbio di essere preso per il culo inizia ad invaderti prepotentemente.

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Oltre il “Drink-porn”?

Finalmente! Posso dirlo: non sono solo.

Non sono solo nel sostenere che le grandi eno-manifestazioni, con la moltitudine dei banchetti d’assaggio e la relativa cornucopia di vini, pur certo divertenti per noi appassionati, sono però una aberrazione rispetto al vero scopo finale del vino, che sarebbe poi la bevuta a tavola, in accompagnamento al cibo.
Non a caso ho coniato la definizione di drink-porn

Ne risulta di conseguenza il mio parere assai scettico sulle degustazioni in batteria, dove esimi critici (e semplici peones, come il sottoscritto) si esprimono su decine e decine di prodotti, dedicando a ciascuno pochi secondi e uno sputacchio.

Tutte cose di cui sono sempre più convinto e di cui ho già parlato, ad esempio quando ho incontrato Flavio Roddolo e le due volte in cui ho discusso di entropia durante le degustazioni seriali, e che ora Vittorio Rusinà declina in maniera più compiuta con un post sul blog collettivo “Gli amici del bar”.

Oltretutto la discussione capita nel momento in cui Filippo Ronco parla di una certa stanchezza della formula del banco di assaggio, e può essere un ottimo spunto di discussione per chi si occupa di organizzare degustazioni in maniera professionale.

p.s. un grazie a Vittorio, oltre che per l’articolo, anche e soprattutto per aver avuto l’idea di accaparrarsi e far girare cibo durante la DDB: io c’ero e ho molto gradito

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Dalle stelle alle stalle: Summer Beer Festival

Dalle stelle alle stalle: passare in pochi giorni e in pochi chilometri dalla teutonica perfezione organizzativa di Terroir Vino a Genova all’indefinibile Summer Beer Festival di Chiavari regala la straniante sensazione della realizzabilità dei viaggi spazio-temporali.

In poche parole, è un periodo in cui ho poco tempo, quindi decido di farci un salto sabato pomeriggio: alle 16 e 20 circa sono all’ingresso. Ci siamo io, la tensostruttura e la polvere, mentre elementi magari poco coreografici ma abbastanza essenziali come il tizio alla cassa e quelli che dovrebbero spillare risultano non pervenuti.
Temendo di aver capito male gli orari, mi guardo attorno: tutti i volantini e i cartelli sostengono (come le info su internet) che l’apertura avrebbe dovuto essere alle 16.

Faccio un giro e mi ripresento verso le 16 e 45.
E’ ancora tutto deserto, ma ci sono due ragazzi della Compagnia della Birra che iniziano a mettere a posto i banchi di servizio e un tizio che, mosso a compassione, prova ad aprire la cassa per me, senza successo.
Mi dicono che siccome il giorno precedente la gente è arrivata in massa verso le 20, hanno deciso di aprire dopo…

Sono senza parole, di solito mi incazzo per i canonici 15-30 minuti accademici di ritardo nelle serate e nelle cene di degustazione, ma addirittura veder posticipata l’apertura di una manifestazione di qualche ora è davvero una prima assoluta.

Voglio fare i complimenti ai responsabili della solerte organizzazione, che mi pare comprendesse anche i soliti bicchieri di plastica e il prezzo di 4 (quattro) euro per ogni birra.
I responsabili da elogiare risulterebbero essere tali “Storico, Modà Cafè, Vinoria e Crystal, in collaborazione con Arte Group e la Compagnia della Birra”.
A ciascuno il suo: da quel poco che mi è dato sapere la Compagnia c’entra poco, essendo stata contattata solo per fornire un paio di persone per i laboratori e per le spiegazioni.

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Terroir Vino 2013: basta che non sia l’ultimo

C’è poco da dire, Terroir Vino è il mio appuntamento preferito per quanto riguarda il drink-porn smodato (click qui per spiegazioni sulla definizione); confesso di essere mosso da un certo affetto: dopotutto è stata la prima manifestazione enoica cui ho partecipato, la prima in cui sono stato cazziato da un produttore, la prima in cui ho imparato ad usare le sputacchiere…

Al netto delle questioni sentimentali, occorre aggiungere che TV è organizzato bene, benissimo, addirittura per me è l’esempio di come si dovrebbe svolgere un incontro di questo tipo: tanti produttori ospitati in una struttura bella, agibile, spaziosa e fresca, con aree relax dotate di divani, facile da raggiungere in auto (si riesce persino a parcheggiare, pagando salato, ovvio) o con i mezzi, con torte di verdura e panini che girano incessantemente da metà mattina fino a conclusione e con qualche interessante appuntamento collaterale (le Degustazioni Dal Basso) che aiuta a spezzare la serialità degli assaggi.

Su questi fronti, niente di nuovo (per fortuna), se non una leggera brezza di crisi: all’ingresso invece di libricino e penna veniva consegnata solo una mappa, sicuramente erano presenti meno espositori (anche se non saperei quantificare quanti meno), e temo di aver notato anche meno visitatori al pomeriggio, ma potrei sbagliare.
Soprattutto, su vari canali internet mi pare di aver colto momenti di stanchezza (meglio, direi di scazzo) del patron Filippo Ronco, che minaccia di trasformarsi il prossimo anno nel Moloch che sacrifica la sua stessa creatura.

Ecco, al netto dei soliti appunti temo poco interessanti su quanto ho bevuto (mi sono goduto specialmente lo Zero di Pojer & Sandri, che finalmente mi sembra un ottimo vino fatto e finito, lo splendido Pas Dosé di Haderburg, indistintamente tutti gli spumanti di Letrari e quelli per me inediti di Opera, i sempre notevoli Barbaresco dei Produttori e gli idrocarburici Timorasso di Mariotto) e tralasciando i complimenti per la Degustazione Dal Basso cui ho partecipato (“Eroi della Barbera, i luoghi e le persone”, molto interessante, forse solo un filo poco coinvolgente, con tre relatori bravi ed appassionati, ma ad occhio non abituati a parlare e stuzzicare il pubblico), dicevo, a parte tutto quanto sopra, mi preme spendere qualche riga per stimolare Ronco a non sbaraccare un evento che, oltre a non avere pari in Liguria, a mio avviso ha pochi concorrenti tout court).

Ovvio che Ronco farà quello che è più giusto per lui, io non ho idea se i problemi stiano in un entusiasmo diminuito, o siano di natura finanziaria, o forse ricadano nella necessità di focalizzarsi su altri progetti o magari in un po’ tutte queste cose assieme, e dopotutto chi sono io per dare l’egoistico consiglio di non smettere, ma mi permetto di suggerire di cercare collaborazione da parte sia di professionisti che di amatori, magari modificando leggermente la formula per rendere più appetibile l’appoggio di qualcuno dei soggetti interessati. Anche una dimensione minore dell’evento sarebbe accettabilissima, così come capirei un legame più marcato a VGM, sempre mantenendo gli standard qualitativi cui siamo stati abituati.

Insomma, Filippo nun ce lascià!

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Le mille luci in cantina

In fondo non era così imprevedibile pensare che l’autodistruttivo yuppie protagonista de “Le mille luci di New York”, cocainomane frequentatore di locali alla moda negli anni ’80, con la maturità si sarebbe convertito ai più borghesi piaceri delle bottiglie di gran nome, fascino e relativo prezzo.

Stiamo parlando ovviamente del personaggio senza nome creato nel 1984 da Jay McInerney per il suo folgorante esordio “Bright Lights, Big City” (“Le mille luci di New York”, nella poco felice traduzione italiana), simbolo del post-minimalismo americano assieme agli altrettanto notevoli esordi di Bret Easton Ellis e Tama Janowitz.
Romanzo agilissimo, in cui si sviscerava l’ambiguità della vita sfavillante e disperata dei giovani arrembanti e carrieristi nei rutilanti anni ’80, tratteggiava con metodo il fastidio misto a sottile piacere della vita metropolitana dissoluta, repressa nei sentimenti e annegata nella solitudine pubblica.

Autore: Jay McInerney
Titolo: I piaceri della cantina
Editore: Bompiani
Prezzo: 18,50 Euro

I Piaceri della cantinaE proprio di McInerney lo scorso anno è andata in stampa la traduzione italiana de “I piaceri della cantina”, una raccolta di brevi articoli sul vino, scritti in origine per il New York Times.
Il formato antologico se da un lato è il limite del volumetto (non c’è una vera e propria trattazione organica, un pensiero forte, una tesi da svolgere), dall’altro è anche motivo di agilità, rendendo possibile ad esempio la lettura disordinata dei capitoli

Si intuisce che McInerney è un appassionato autodidatta che, grazie alla sua agiatezza, ha giovato di ottimi assaggi e altrettanti viaggi e, leviamoci il dente dicendolo subito, che è bravo davvero!
Infatti sforna pagine acute, precise ma alleggerite da accenni ironici e da qualche aneddoto e citazione, senza annoiare coi tecnicismi o con estenuanti analisi organolettiche, ma allo stesso tempo evitando di scadere nel banale: un sonoro schiaffo in pieno volto alla stragrande maggioranza degli eno-scrittori professionisti, di solito pedantemente in bilico tra il didascalico sport dell’intarsio del capello e il lisergico affastellare dei descrittori.
Insomma, si vede chiaramente che McInerney gioca un altro campionato, e scorrere quelle pagine dopo il quotidiano spulciare dei blog enoici dà la sensazione di assistere a Germania-Brasile subito  dopo essersi sorbiti novanta minuti di controlli sbagliati, rimpalli e calcioni in un derby di Terza Categoria regionale…

Altro punto a favore per noi lettori italiani, una visione internazionale del fenomeno vino: si parla certo di Francia e Italia (e comunque di Europa), ma ci sono tanta Australia, Nuova Zelanda, soprattutto tantissimi (troppi?) Stati Uniti, e comunque non non si cerca la verità apodittica sullo scibile vino (per l’Italia, per dire, si parla tra gli altri di Soave e Friulano ma non di Barolo e Barbaresco) e, essendo stato scritto prima del 2006, manca la contemporanea ossessione su biologico e biodinamico (certo, se ne accenna, ma vivaddio con distacco).

Qualche esempio dei temi che ho trovato più godibili: si battono strade tutto sommato laterali con un bel capitolo su Bandol, si insiste spesso sul Riesling, si rivelano personalità di produttori statunitensi inedite e incomprensibili per noi europei, ci sono il profilo Alsaziano di Olivier Humbrecht e quello.mitico di Michel Chapoutier, si spande amore per un grosso calibro delle bolle come Salon così come per molti Champagne artigianali. C’è persino una piccola incursione nel passato dell’autore, non propriamente alieno alle droghe ricreative, quando si racconta delle virtù assenzio…
Una pagina curiosa è quella in cui si accenna al concetto statunitense di vino come performance: produzioni “one-shot” reperibili esclusivamente una tantum (filosofia recentemente mutuata dal mondo della birra: avessimo letto prima il libro avremmo potuto essere facili profeti).

Insomma, un volume dalla prospettiva esageratamente personale, godibilissimo per i neofiti e in una certa misura informativo anche per chi pensa di saperne di più, che riscatta con una prosa stellare alcuni passaggi discutibili.  Oltretutto, contrariamente a quanto ho letto da qualche parte, credo anche utile a sfatare tanti luoghi comuni sugli americani: in più parti si trovano ad esempio parole non accondiscendenti sulle superconcentrazioni e sulla robustezza dei vini, e si celebra l’ossessione terroiristica della Borgogna…

Il bello: la scrittura! La propettiva differente da quella cui siamo abituati
Il meno bello: troppe pagine dedicate a prodotti extra-europei (in particolare i garagisti USA) che non conosciamo e non potremo mai reperire

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… e gli inglesi fanno un po’ quel ca**o che gli pare. Norme minime di abbinamento cibo-vino: introduzione

abbinamentoIn questi tempi di mille trasmissioni tv sulla cucina e di infinite pubblicazioni, corsi e blog riferiti a tutto lo scibile dell’umanamente edibile, in questa epoca in cui tutti siamo esperti nell’analisi organolettica dei fermentati d’uva e di malto, la faccenda del corretto abbinamento cibo-vino per molti appassionati assume ancora i contorni fumosi del culto neopagano, con tanto di sapienti druidi capaci di dispensare vaticini, inappellabili e ponderosi come un menhir, a fronte delle ingenue richieste di neofiti e spaesati adepti…

Grazie alla ricostruzione del colloquio Adepto-Sapiente, oltre al raggiungimento di vette di illuminazione degne dell’esperienza di un solstizio d’estate a Stonehenge, possiamo anche identificare la categoria druidica di appartenenza di questo ultimo:

– Adepto: “Supremo Cathbad, cosa ci bevo con un risotto al radicchio sfilacciato, cubetti di aringa affumicata, riduzione di sugo di cottura di maiale in agrodolce e spolverata di cacao amaro e zenzero?”.

– Druido della casta dei Lacoonici: “Romanee Conti Grands Echezeaux 1989”.
– Druido della casta dei Verbosi: “Per bilanciare la tendenza dolce del riso e del maiale serve un vino di ottima spalla acida e sapidità, ma che abbia anche notevole intensità e persistenza gusto-olfattiva in modo da tener testa alla aromaticità dello zenzero e alla forza del cacao amaro. Da non dimenticare, una certa morbidezza per mitigare la affumicatura”.

– Adepto: “Supremo Cathbad, rendo grazia della tua illuminazione. Ce piazzo ‘na latta de Fanta”.

Più seriamente, è vero che esistono svariate teorie sul corretto abbinamento, dalla più semplice (“pesce con bianco, carne con rosso”), alla simil meccanica quantistica del famigerato Metodo Mercadini, vero e proprio totem dell’AIS, che sarà oggetto della seconda parte di questa dotta trattazione.
Senza farla troppo lunga, nella prossima puntata, cercheremo di illustrare alcune delle metodologie più note.

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Slowfish 2013: impressioni di sfuggita

Alla fine ci sono andato, a Slowfish 2013. Per una serie di casini personali pensavo di non farcela, ma visto che avevo prenotato un Master of Food (diobuono, ma un nome meno pomposo non riescono proprio a inventarselo? C’è quasi da vergognarsi a ddirlo: “Dove vai?”, “Eh, c’ho un Master of Food…”, “Mavaff…”), mi sono ritagliato una mattinata.

Nuova ubicazione (area del Porto Antico invece che la Fiera del Mare), e conseguenti ingresso libero (bene!) e mancato tetto sopra la testa in caso di maltempo (male, ma fortunatamente non ha piovuto).
Ho avuto l’impressione di un minor numero di espositori rispetto all’ultima volta, ma potrei essere stato ingannato dalla ampiezza dell’area; di sicuro la crisi si è fatta sentire: una vocina mi ha detto che il prezzo richiesto agli espositori per uno stand è diminuito, e anche la scelta di non far pagare il biglietto ai visitatori immagino sia dovuta a questo…

Ho fatto un giro veloce, quindi butto giù poche note e pure confuse.
Il famigerato Master of Food conferma le bieche impressioni di collusione Petrini-Farinetti, infatti viene tenuto in una delle aule corso di Eataly. Nulla di nuovo, per carità, è ben noto che Slow Food e Eataly collaborino su vari progetti, ma francamente mi pare che la liason stia andando troppo oltre e che gli obbiettivi prettamente commerciali di Eataly (seppure ammantati di etica) facciano fatica a quagliare dignitosamente con le linee guida di Slow Food.
Ad ogni modo, il Master of Food è organizzato con precisione teutonica: la lezione è ripresa con una telecamera in modo da mostrare i dettagli su due grandi schermi, permettendo una visuale chiara a tutti i corsisti, ogni partecipante ha la sua postazione dignitosamente spaziosa e con tutto il necessario e viene anche omaggiato (oltre che di taccuino e matita) di due bei libri sull’argomento. A fine lezione, si mangia quanto preparato e si esce felici.

Il rapido giro per l’area espositiva è un mix di sensazioni: ci sono gli stand educativi su vari argomenti, e c’è anche tanto mercato (che poi, diciamocelo, è quello che interessa la massa dei visitatori), talvolta anche poco in tema con l’argomento (un esempio? Il venditore di olive ascolane lo vedo sia a Cheese che qui… che ci azzecca?), ma alla fine è sempre bello cazzeggiare tra i cibi, assaggiando un sacco di cose buone e facendo qualche parola con i produttori.

Spendo una riga per gli amici di Maltus Faber, che non vedevo da tempo e che erano presenti, oltre che con le “solite” Blond Hop e Bianca (pulitissime e piacevolissime), con un nuovo prodotto, una Sweet Stout da neppure quattro gradi che gioca tutta sulle finezze (di tostatura, di luppolatura, di carbonatazione; anche il corpo, spesso robusto in questa tipologia, è ben bilanciato) e che mi è sembrata una ottima session beer. Sarà disponibile solo in fusto, e spero di riassaggiarla a breve con più calma, con un bicchiere di vetro al posto della orrida pinta in plastica imposta in queste manifestazioni.

Nota di demerito per l’Enoteca. A parte qualche bottiglia presente in elenco ma in realtà non pervenuta, il prezzo degli assaggi è davvero eccessivo (bicchieri da 3, 4 o 5 buoni, ciascun buono costa 1 euro, in più occorre aggiungere il solito costo del calice), in particolare tenendo conto che non c’è uno grissino disponibile, che non ho visto acqua per pulire la bocca tra un assaggio e l’altro e che non siamo in una vera enoteca (non c’è servizio al tavolo e i posti a sedere sono abbastanza pochi, perlomeno a certe ore del giorno).

Appuntamento a settembre per Cheese!

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Viaggio in Andalusia: piccola guida allo Sherry

Fortificazione e metodo Solera sono due delle caratteristiche che rendono particolare lo Sherry, un vino forse poco conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati: per questo, in occasione di una degustazione presso la solita Cantina du Pusu (e perché no, anche per riprendere in mano e in mente lezioni e appunti del corso AIS) ho deciso di creare la mia piccola guida Bignami-syle.

Il nome del vino (Sherry nei paesi inglesi, Xérès in Francia, Jerez in Spagna) prende evidentemente spunto dalla geografia: siamo a in Jerez, Andalusia, nel Sud-Ovest della Spagna, dalle parti di Cadice, dove pare che la vite sia stata portata dai Fenici per poi essere coltivata dai Romani allo scopo di produrre vini da importare a Roma; più tardi gli Arabi introdurranno nella zona l’alambicco per la distillazione, che avrà importanza per il processo di fortificazione.
Saranno poi i mercanti Inglesi ad appassionarsi così tanto alla tipologia (analogamente a quanto accaduto con altri vini fortificati) da arrivare a fondare in loco aziende di produzione.

Il clima è molto caldo: in media 300 giorni di sole l’anno con punte di 40 gradi, ma a portare sollievo ci pensano i venti oceanici e la caratteristica del terreno di assorbire acqua. Il suolo è calcareo-gessoso, e il più vocato, chiamato Albariza, ha una quantità tale di gesso da risultare quasi bianco.
Le tre tipologie di uve coltivate sono Palomino (la più importante, usata principalmente per i vini secchi), Pedro Ximénez e Muscatel, e vengono raccolte spesso con leggero appassimento per poi essere vinificate in acciaio o cemento, ottenendo un normale vino bianco di circa 12 gradi che il produttore, a seconda delle caratteristiche organolettiche, deciderà se destinare alla categoria Fino oppure Oloroso.

Il processo produttivo a questo punto prevede la fortificazione, cioè la aggiunta di un distillato di vino che blocca la fermentazione: nel caso dei Fino, la fortificazione porta il vino a 15 gradi, mentre per gli Oloroso si arriva a 18 gradi.

Effettuata la fortificazione, il vino viene fatto maturare per almeno tre anni in botti da 500 litri riempite per i soli cinque sesti e lasciate parzialmente aperte: è il metodo Solera y Criadera, che ha lo scopo di permettere una qualità costante nelle varie annate. Le botti sono disposte in strati, da cinque fino a quattordici, a seconda della tipologia di Sherry che si vuole ottenere, ciascuno chiamato criadera.
Lo strato più vicino al suolo, detto solera, è quello dal quale viene prelevata la parte di vino (dal cinque al trenta per cento) da imbottigliare e commercializzare. Il vino prelevato viene rimpiazzato da una analoga quantità proveniente dalla criadera superiore e così via, fino ad arrivare allo strato più in alto, nel quale si immette vino nuovo.

Dicevamo che la fortificazione prevede il raggiungimento di differenti gradazioni: la distinzione non è banale, perché, nel caso di superamento dei 16 gradi alcolici, sulla superficie del vino (che, lo ricordiamo, riposa in botti di legno non del tutto colme e non completamente sigillate) non avviene la formazione di un velo di microorganismi chiamato flor, che lo isola parzialmente dall’ossigeno, rallentandone l’ossidazione e modificandone la composizione.
La formazione o meno della flor è quindi l’elemento distintivo di differenziazione tra le le due tipologie di Sherry: Fino (vini secchi, freschi, di colore chiaro e aromi delicati, da bere giovani e da consumare in fretta una volta aperta la bottiglia) o Oloroso (vini secchi o dolci, di colore più scuro, di maggiore invecchiamento, struttura e robustezza e con aromi di frutta secca. Poiché hanno subito affinamento ossidativo, non hanno necessità di rapido consumo dopo l’apertura).

Generalmente si consiglia il consumo dei Fino e Manzanilla come aperitivo o con antipasti, servito molto fresco, mentre gli Amontillado e Oloroso secchi vengono usati come antipasto, con frutta secca e olive, o abbinati a preparazioni di pesce strutturate e carni.
Le tipologie dolci possono accompagnare formaggi erborinati o stagionati, dolci o foie gras; il Pedro Ximénez, data la sua struttura e densità, è un vino da sorseggiare da solo o con dolci impegnativi di cioccolata.

Classificazione Sherry di categoria Fino
Tipo Caratteristiche Gradi alcolici Zuccheri
g/l
Manzanilla Prodotto a Salúcar de Barrameda: flor e clima particolari conferiscono particolare sapidità e sapore più delicato rispetto ai Fino 15-17 0-5
Fino Più robusto e con gusto più deciso rispetto al Manzanilla. Può essere dolclificato con l’aggiunta di mosto dolce, creando la tipologia Pale Cream (15,5-22 gradi, 45-115 g/l) 15-17 0-5
Amontillado Più chiaro di un Fino ma più scuro di un Oloroso. Si parte da un Fino cui si spezza il velo di flor naturalmente o tramite una ulteriore fortificazione. Per questo scurisce e acquista sentori di frutta secca. Possono essere dolcificati, prendendo la denominazione Medium (15-22 gradi, 5-115 g/l)  16-17 0-5

 

Classificazione Sherry di categoria Oloroso
Tipo Caratteristiche Gradi alcolici Zuccheri
g/l
Oloroso Sono prodotti senza intervento della flor, quindi ossidati, molto scuri e ricchi di aromi tostati. Alcol e struttura superiori ai Fino. Naturalmente secchi, se dolcificati danno vita ad altre tipologie. 17-22 0-5
Cream Si tratta di Oloroso dolcificati tramite blending con altri vini, ad esempio Pedro Ximénez. Hanno aromi di frutta secca e cioccolato. 15,5-22 115-140
Pedro Ximénez Prodotto con l’omonima uva lasciata appassire, è lo Sherry più denso, scuro e strutturato. Viene usato anche come taglio dolcificante di altri Oloroso.  15-22 >212

Esiste anche il Palo Cortado (17-22 gradi, 0-5 g/l zuccheri), uno stile raro che fa categoria a sé, presentando caratteristiche ibride tra un Fino e un Oloroso. Si tratta di un Fino o un Amontillado che, dopo tre o quattro anni di invecchiamento, sviluppa struttura e concentrazione da Oloroso a seguito della rottura della flor.

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