La degustazione secondo la didattica AIS, parte terza: l’esame gusto-olfattivo

Finalmente si beve! Fino ad ora ci siamo attardati in preliminari, osservando e annusando quello che c’è in quel benedetto bicchiere, adesso è ora di assaggiare, cercando di capire se le ipotesi che abbiamo avanzato nelle fasi visive e olfattive sono fondate o meno.

tastevin-sommelierSi parte avvinando la bocca, con un piccolo sorso che serve solo per ripulire da eventuali sapori precedenti, e poi si prende un secondo sorso di quantità tale da non essere troppo diluito dalla saliva.
Trattenendo il liquido nella parte anteriore della bocca, si inspira attraverso i denti: l’aria si mescola al vino, che viene scagliato contro le papille gustative (entrambi i fattori determinano una maggiore rilevanza delle sensazioni); la lingua provvederà poi a muoverlo in tutto il cavo orale.
Dopo la deglutizione, tenendo la bocca chiusa, si espira dal naso e si mastica “a vuoto” contando i secondi di durata di tutte le sensazioni gustative.

Questa storia della inspirazione tra i denti, del palleggiamento del liquido e della masticazione è una roba da prendere con le dovute precauzioni: non è necessario emettere rumori degni di un aspirapolvere guasto per completare l’esame…. ricordiamoci anche che la degustazione ha un suo contesto, che non è quello conviviale della bevuta in compagnia: chi si mette a fare questo show durante una cena merita tutto lo scherno immaginabile e anche di più.

L’ assaggio evidenzia due tipi di sensazioni, quelle gustative e quelle tattili.
Quelle gustative non vengono percepite contemporaneamente, ad esempio la dolcezza è nettamente la prima ad essere avvertita, e sono:
– dolcezza: causata dagli zuccheri residui (non fermentati) presenti nel vino
– acidità: causa leggera contrazione gengivale e salivazione, per questo è rinfrescante
– sapidità: causa salivazione filante
– amarezza: determinata dai tannini e da altri polifenoli. E’ gradevole se leggera.
– umami

Le sensazioni tattili sono:
– pseudocalore: sensazione di causticità sulla mucosa orale, causata dall’alcol etilico
– morbidezza: sensazione di morbidezza dovuta ai polialcoli, in particolare alla glicerina
– astringenza: sensazione di secchezza e astringenza dovuta ai tannini
– effetto termico: la percezione di pseudocalore e morbidezza è accentuata a temperature superiori, al contrario le basse temperature esaltano sapidità e tannicità, mentre la percezione della acidità resta invariata
– pungenza: causata dalla eventuale anidride carbonica
– consistenza: causata dalla ricchezza di estratto

vinoNella pratica, l’esame gusto-olfattivo analizza una lunga serie di fattori del vino: le cosiddette morbidezze  (zuccheri, alcoli, polialcoli), le durezze (acidità, tannicità, sapidità), la struttura, l’equilibrio, l’intensità, la persistenza, la qualità, lo stato evolutivo, l’armonia.

Analizziamo per prime morbidezze, durezze, struttura ed equilibrio.
Le morbidezze sono:

– Zuccheri: gli zuccheri residui, quelli che restano dopo la fermentazione, determinano la dolcezza del vino. Vini con il medesimo residuo zuccherino possono dare diversa sensazione di dolcezza, a seconda dell’equilibrio con le durezze

– Alcoli: dopo l’acqua, sono i componenti più abbondanti. Il più importante è quello etilico, che è responsabile della sensazione di pseudocalore, dovuta all’effetto disidratante e a quello vasodilatatore. Vini con la stessa quantità di alcol possono creare diversa sensazione pseudocalorica, in base alla diversa struttura

– Polialcoli: è una sensazione gradevole che arrotonda il gusto. Ne sono responsabili gli alcoli, gli zuccheri ma in particolare i polialcoli, soprattutto la glicerina.
La quantità di polialcoli è determinata dalla durata e dalla temperatura della fermentazione e dall’eventuale uso di uve botritizzate.

Le durezze sono:

– Acidità: nel vino sono presenti vari tipi di acidi, che determinano in parte il sapore ma soprattutto sono responsabili della freschezza, inducendo salivazione.
Alcuni acidi derivano direttamente dalle uve (tartarico, malico, citrico), altri so formano durante la fermentazione (lattico, succinico, acetico)..

– Tannicità: i polifenoli si trovano sulle bucce, nei vinaccioli e nel raspo, ma possono anche essere ceduti da un passaggio in legno (botte). La loro quantità e qualità è in relazione al vitigno, alla maturazione, all’ambiente pedoclimatico. Causano una sensazione di secchezza, rugosità e astringenza, contribuiscono a determinare il corpo. A volte provocano anche un finale lievemente amarognolo.
I tannini estratti dalle bucce sono inizialmente duri e astringenti, ma col tempo polimerizzano e si ammorbidiscono, quelli ceduti dal legno sono più morbidi.

– Sostanze minerali: tra gli elementi che contribuiscono a determinare il corpo del vino, alcune determinano la sapidità (anioni, fosfati, solfati, potassio, ferro, rame). Variano in relazione all’ambiente pedoclimatico, alle pratiche enologiche, a conservazione e affinamento.
Spesso nei vini giovani la sapidità è mascherata dalla acidità.

– Struttura: è determinata dall’estratto secco, che è quanto resta dopo aver fatto evaporare dal vino l’acqua, l’alcol e tutte le componenti volatili. Restano zuccheri, acidi fissi, polifenoli, sali minerali, glicerina, gomme, pectine e altri componenti minori.
Nei vini rossi si aggira sui 20-30 g/l, nei bianchi 16-22 g/l.

– Equilibrio: idealmente l’equilibrio gusto-olfattivo si percepisce quando morbidezze e durezze sono in adeguata contrapposizione, ma occorre tenere presente la tipologia del vino in esame. Vini giovani, vivaci e frizzanti ammettono una leggera predominanza delle durezze, mentre in un vino maturo si accetta un certo prevalere delle morbidezze.
L’equilibrio è legato all’evoluzione: il prevalere delle durezze prospetta un vino che col tempo potrà evolvere e raggiungere l’equilibrio, al contrario un vino sbilanciato verso le morbidezze ha già raggiunto o superato il suo equilibrio.

– Intensità: è in pratica la quantità delle sensazioni saporifere, tattili e gusto-olfattive percepite in bocca. E’ legata a tutto ciò di cui è costituito il vino: struttura, alcol, sostanze aromatiche

– Persistenza: l’insieme delle sensazioni tattili, saporifere e gusto-olfattive che restano in bocca dopo deglutizione ed espirazione. Si valuta in secondi.

– Qualità gusto-olfattiva: si valuta sulla base di intensità, persistenza, piacevolezza, eleganza, finezza e tipicità.

– Stato evolutivo: rappresenta la qualità in funzione della evoluzione. L’equilibrio si sposta dalla predominanza delle durezze a quella delle morbidezze

– Armonia: è la sintesi di tutti i giudizi precedenti.  I due requisiti per avere un vino armonico sono la coerenza delle caratteristiche gustative e l’elevato livello qualitativo.

Zuccheri Alcoli Polialcoli
Secco
Abboccato
Amabile
Dolce
Stucchevole
Leggero
Poco caldo
Abbastanza caldo
Caldo
Alcolico
Spigoloso
Poco morbido
Abbastanza morbido
Morbido
Pastoso
Acidi Tannini Sostanze minerali
Piatto
Poco fresco
Abbastanza fresco
Fresco
Acidulo
Molle
Poco tannico
Abbastanza tannico
Tannico
Astringente
Scipito
Poco sapido
Abbastanza sapido
Sapido
Salato
Struttura
Magro
Debole
Di corpo
Robusto
Pesante
Equilibrio
Poco equilibrato
Abbastanza equilibrato
Equilibrato
Intensità Persistenza Qualità
Carente
Poco intenso
Abbastanza intenso
Intenso
Molto intenso
Corto
Poco persistente
Abbastanza persistente
Persistente
Molto persistente
Comune
Poco fine
Abbastanza fine
Fine
Eccellente
Stato evolutivo
Immaturo
Giovane
Pronto
Maturo
Vecchio
Armonia
Poco armonico
Abbastanza armonico
Armonico

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La degustazione secondo la didattica AIS, parte seconda: l’esame olfattivo

L’esame olfattivo è forse (purtroppo) quello più noto al grande pubblico, quello dei non hardcore fans del vino, che restano spesso giustamente basiti di fronte alle sequele di riconoscimenti mitragliati dall’espertone di turno, che declama di afori di ginestre, anice stellato e selle di cavallo…

In realtà l’esame olfattivo è uno dei momenti più interessanti e piacevoli della pratica di degustazione: iniziamo a verificare la coerenza delle impressioni che abbiamo ricevuto con la fase visiva, otteniamo indicazioni ulteriori sul vitigno e sulle lavorazioni e soprattutto iniziamo a formulare un primo giudizio.

TastevinL’esame si articola in una prima inspirazione, che serve a determinare l’intensità dei profumi (cioè non si valuta quanti o quali siano i profumi, ma quanto forte sia il loro impatto complessivo), e da successive roteazioni del bicchiere, seguite da rapide olfazioni, alternando la narice, in modo da evitare effetti di assuefazione.
La roteazione serve ad areare il liquido ed agevolare il trasporto delle sostanze aromatiche verso il naso.

I profumi del vino sono di tre tipi:
– primari (sono quelli tipici e propri dell’uva. I più facilmente riconoscibili sono quelli delle uve aromatiche: brachetto, malvasie, moscati, gewurztraminer)
– secondari (che si sviluppano nelle fasi prefermentative, fermentative e postfermentative. Tipicamente si tratta di sensazioni floreali, fruttate e vegetali)
– terziari (che si sviluppano durante la maturazione e l’affinamento, grazie a fenomeni ossidoriduttivi e a reazioni di acetalizzazione, esterificazione ed eterificazione)

Oltre a valutare intensità e complessità dei profumi e ad aver trovato qualche famiglia di descrittori in grado di raccontare per immagini quello che si è sentito, l’esame olfattivo prevede un giudizio qualitativo. Per la prima volta il degustatore si trova ad esprimere un giudizio e non semplicemente a cercare di descrivere quanto più  oggettivamente possibile.
Il giudizio sulla qualità olfattiva è la sintesi di intensità, complessità, piacevolezza, tipicità ed eleganza.

Intensità Complessità Qualità Descrizione
Carente
Poco intenso
Abbastanza intenso
Intenso
Molto intenso
Carente
Poco complesso
Abbastanza complesso
Complesso
Ampio
Comune
Poco fine
Abbastanza fine
Fine
Eccellente
Floreale
Fruttato
Erbaceo
Speziato
Tostato
Aromatico
Fragrante
Minerale
Vinoso
Etereo

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La degustazione secondo la didattica AIS: l’esame visivo

La scheda di degustazione AIS è un mostro mitologico, da un lato è un piccolo scoglio per tanti corsisti che non appena si rendono conto che devono imparare a memoria una carriola di termini e una precisa sequenza di esposizione vengono travolti dalla depressione, dall’altro basta poco per rendersi conto che l’utilità di tanta fatica è quantomeno dubbia: in casa ho decine di schede fatte durante e dopo il corso che falliscono proprio in quello che dovrebbe essere l’obiettivo principale: la descrizione del vino… bottiglie anche molto diverse finiscono inevitabilmente per essere inglobate nel truppone degli “abbastanza fresco… abbastanza sapido… abbastanza persistente eccetera).

Si potrebbe poi discutere a lungo sulla pretesa di oggettività e sulla liceità dello spezzettare l’esperienza della bevuta in fasi distinte l’una dall’altra, eccetera….
Eppure la scheda (intesa come metodologia, non certo come pezzo di carta da compilare), ha una sua dignità: intanto è un utile promemoria per coloro che si accingono ad assaggiare, indirizzando nella valutazione di tutti i punti salienti del prodotto secondo una precisa scaletta, e poi soprattutto riesce ad evidenziare le caratteristiche del vino che saranno elementi fondamentali nella tecnica di abbinamento col cibo.
Diciamo che è un elemento propedeutico alla teoria dell’abbinamento, ecco.

TastevinPartendo dall’inizio: la scheda di degustazione non ha dunque lo scopo di valutare qualitativamente il vino (per quello ci sarà la scheda punteggio), ma di darne una descrizione il più oggettiva possibile, misurando semmai quantitativamente le varie componenti (in realtà in alcune fasi ci sono eccome accenti qualitativi).
La scheda si compone di tre fasi: visiva, olfattiva e gusto-olfattiva.
Per quanto possa sembrare strano, l’aspetto di un vino è in grado di raccontare, o perlomeno di suggerire,  molte cose all’assaggiatore esperto (tipo di affinamento, stato evolutivo, vitigno, zona di provenienza…): si tratta quindi di un aspetto da non trascurare.

L’esame visivo è declinato in limpidezza, colore, consistenza e, nel caso in cui si valutino vini spumanti, effervescenza.
Si inizia portando il bicchiere all’altezza degli occhi, controluce, per constatare la limpidezza (ovvero l’assenza di particelle in sospensione) e poi lo si abbassa, inclinandolo su una superficie bianca: nella zona di maggiore spessore si valutano il colore e l’intensità, mentre i bordi daranno indicazioni sulle sfumature utili per la previsione dello stato evolutivo.
Qualche lenta roteazione del bicchiere è utile per dare l’idea del “peso” del liquido e per formare lacrime e archietti, in modo da capire la consistenza (la discesa veloce delle lacrime e l’ampiezza degli archetti sono indice di poca consistenza). Nel caso di vini “mossi” (spumanti charmat o metodo classico, frizzanti rifermentati in bottiglia eccetera), si omette la analisi della consistenza in favore di quella del perlage.

La valutazione più importante è forse quella del colore: permette di verificare la corrispondenza del vino con la sua tipologia, la relazione con l’ambiente pedoclimatico e il potenziale evolutivo.
Si osservano:
– l’intensità (che dipende dalla quantità di pigmenti del vitigno, dall’ambiente pedoclimatico di coltivazione e dalle pratiche enologiche utilizzate)
– la tonalità (che dipende dal tipo di pigmenti del vitigno, dalla acidità del vino e dalla evoluzione)
– la vivacità (che dipende dalla acidità, dalle pratiche enologiche e dalla evoluzione).

La consistenza è la conseguenza della quantità di alcoli, polialcoli, polifenoli, zuccheri e altre sostanze contenute nel vino.

Limpidezza Colore Consistenza Effervescenza
Velato
Abbastanza limpido
Limpido
Cristallino
Brillante
Giallo verdolino
Giallo paglierino
Giallo dorato
Giallo AmbratoRosa tenue
Rosa cerasuolo
Rosa chiarettoRosso porpora
Rosso rubino
Rosso granato
Rosso aranciato
Fluido
Poco consistente
Abbastanza consistente
Consistente
Viscoso
– Grana delle bollicine:
Grossolane
Abbastanza fini
Fini
– Numero delle bollicine:
Scarse
Abbastanza numerose
Numerose
– Persistenza delle bollicine:
Evanescenti
Abbastanza persistenti
Persistenti

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte quarta: Zidarich, sul tetto del Golfo di Trieste

Zidarich

[Continua da qui]

Pioggia… è ancora la pioggia che mi accompagna quando è ora di far rotta verso il Carso, a circa 300 metri di altitudine sul tetto del Golfo di Trieste. La visita da Zidarich sarà per forza di cosa veloce e incompleta, i motivi sono i soliti: la vendemmia è appena terminata con una certa fretta e c’è molto da fare in cantina. Pazienza.

Zidarich

L’arrivo è difficoltoso: l’azienda è inerpicata nella frazione di Prepotto, il navigatore la conosce ma chissà per quale pasticcio con le strade, propone un percorso piuttosto lungo e isolato e quando si arriva non ci sono cartelli o insegne ad indicare la cantina.
Strano, anche in ragione del fatto che Zidarich ha da poco aperto nella stessa struttura anche una “osimiza” (traduco malamente con osteria)…

Ad ogni modo, il maltempo può fare quel che vuole, ma la vista dall’alto sul mare è davvero unica: se ieri eravamo nell’antro di Radikon, qui ci troviamo nel nido di un gabbiano e nessun ostacolo si protende davanti alla collina che scende sul Golfo straordinariamente ampio e profondo per noi liguri, abituati a ben altre asperità.

E’ su questi declivi di roccia calcarea, permeabile e coperta da un sottile strato di terra rossa, totalmente indifesi rispetto al vento che già oggi spazza e che immagino  per molti giorni l’anno ancora più robusto e tagliente,  che crescono gli otto ettari aziendali piantati a Vitrovska, Malvasia, Sauvignon, Terrano e Merlot, da cui si ricavano circa 25.000 bottiglie l’anno.

La costruzione che ospita cantina e osimiza è sicuramente affascinante: terminata recentemente, si sviluppa su vari livelli, da quello superiore tutto vetrate fino a scendere a venti metri di profondità nella roccia scavata in nicchie, anfratti e gallerie, tenute a bada da volte in pietra.

Zidarich

Le vinificazioni sono improntate a quel rigore naturalistico che ormai bene conosciamo: massima selezione in vigna, lieviti autoctoni, macerazione anche per i bianchi (molto meno pronunciata rispetto a quanto accade con i vini di Radikon) , nessuna filtrazione, affinamento in grandi botti di rovere, minima aggiunta di solforosa.
Ne risultano vini particolari ma non estremi, molto personali ma che a mio modo di vedere non travalicano i confini della piacevolezza di bevibilità e che immagino possano essere graditi anche ai non fanatici della naturalità.
I canoni comuni sono quelli di una lieve opalescenza visiva (causata evidentemente dalla non filtrazione), di ottima freschezza e soprattutto da evidente ed estrema mineralità, declinata in sapidità e aromi di pietra focaia.
Nel dettaglio, la Malvasia 2011, olfattivamente ricca di frutta gialla matura e miele, in bocca è comunque bella affilata e non stucchevole; il Prulke 2011(uvaggio di Sauvignon, Malvasia e Vitovska) è più complesso, cangiante, vira dal floreale e aggrumato fino alla albicocca disidratata, con un sorso teso e scattante.
Il pezzo più pregiato del bianchi è  la Vitovska 2011, vitigno locale un tempo un po’ bistrattato e ora in gran spolvero; c’è tutto per definirlo un grande vino, l’olfattivo è ricchissimo e cangiante, floreale di camomilla, spezie, agrume, minerale… Bevibilità stellare e buona lunghezza.
Tutti vini bianchi (o meglio, orange) da servire a temperature da rosso giovane, in modo da placare la leggera tannicità e non mortificare il notevole spettro aromatico.
Una sorpresa bella e interessante il Terrano (dal nome del vitigno omonimo, autoctono, del quale non avevo mai assaggiato nulla): colore rubino accesissimo, fragranza di frutti di bosco, leggera speziatura e acidità spiccata. Mi sembra molto bevibile e lo immagino ottimo in accompagnamento a salumi.

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte terza: l’antro dell’alchimista Stanislao Radikon

[Prosegue da qui]

Per la terza tappa del mio personale avvicinamento alla cornucopia dei produttori Friulani occorre inerpicarsi sulle alture che, dalle spalle di Gorizia conducono al colle di San Floriano, in luoghi tristemente noti per i caduti delle battaglie della Prima Guerra Mondiale, celebrati appunto nel Sacrario Militare di Oslavia.

In un’era di navigatori e telefonia mobile sembra facile trovare un indirizzo, tanto più se si tratta di quello di un produttore così noto come Radikon; in realtà il cellulare non funziona, perché siamo a pochi passi dal confine sloveno e l’oggetto decide di scegliere l’operatore in roaming, e il GPS è in difficoltà a condurmi a Località Tre Buchi n.4.
Alla fine, e l’episodio credo la dica lunga sulla filosofia aziendale, son costretto a scendere dall’auto e vagare sotto la pioggia verso l’unica casa che probabilisticamente può essere la mia meta, peccato che non sia presente alcun cartello o insegna; mi deciderò a bussare solo dopo aver notato sul retro alcune cassette con stampata sopra la ragione sociale…

RadikonL’importante è arrivare in qualche modo, peccato che l’appuntamento concordato sia passato in secondo piano (se non proprio dimenticato) a causa della pioggia, che minaccia il merlot ancora da raccogliere: gli altri produttori hanno vendemmiato tutto da diversi giorni, ma Stanislao Radikon ha voluto rischiare e ora è impegnato in vigna.
Vengo comunque accolto dalla moglie Suzana, che mi mostra le pendenze che ospitano i dieci ettari: siamo su un territorio posizionato a poco meno di 200 metri di altitudine, ben ventilato ed esposto a notevoli escursioni termiche, di composizione argillosa, che in profondità si compatta fin quasi a diventare roccia e che, a causa dello scoscendimento, può essere lavorato per la maggior parte solo manualmente,

Radikon

Si entra in cantina, dove Saša, il figlio di Stanislao, pur se assai indaffarato si ritaglia qualche minuto per parlare con me; proprio la figura di questo giovane vignaiolo sarà uno dei momenti più interessanti della visita: Saša è laureato in viticultura ed enologia, e il suo approccio pragmatico alla vinificazione è un interessante contrasto con l’immagine dogmatica della cultura aziendale che mi ero autonomamente creato, leggendo e assaggiando i vini.
Un passo indietro: Radikon, di cui ho già scritto qualcosa in passato, è uno dei beniamini degli amanti dei cosiddetti “vini naturali”: già dalla fine degli anni ottanta ha iniziato a percorrere al contrario la vicenda della tecnologia applicata al vino, quindi via l’acciaio per tornare al legno, reintroduzione alle lunghe fermentazioni sulle bucce anche per i vini bianchi, fino ad arrivare nel 1999 alla eliminazione di qualsiasi aggiunta di solforosa. In pratica tutte le sostanze utili alla conservazione anti-ossidativa vengono estratte dalle bucce, ma la condizione affinché questo procedimento (rischioso, come mi conferma Saša, in particolare nel caso di esportazione delle bottiglie) abbia successo è la perfetta salute dell’uva quando arriva in cantina, di qui la necessità di una selezione feroce in pianta.
RadikonE il contrasto di cui dicevo prima è anche visivo: la cantina della famiglia Radikon, piuttosto buia, con la roccia a vista e colma di vecchie botti in legno, forse anche a causa della suggestione dei vini lì dentro prodotti in maniera quasi ancestrale,  in qualche modo ricorda l’antro di un alchimista.
Un alchimista al contrario, visto che il procedimento è semplice ed è basato sulla sottrazione piuttosto che sulla aggiunta di sostanze miracolose: si diraspa e si esegue la fermentazione sulle bucce in botti da 25-35 hl effettuando frequenti follature, senza aggiungere alcun lievito; quando la fermentazione alcolica è terminata si sigilla la botte, lasciando le bucce sul fondo. Segue poi l’affinamento (e sono anni: tre, quattro… dipende) e l’imbottigliamento, quindi ancora circa un anno di attesa prima di andare in commercio. Fine. Su questa base, Stanislao ha sperimentato negli anni, allungando e perfezionando la tecnica della macerazione, modificando gli affinamenti, sia in funzione del millesimo che delle proprie convinzioni.

DSC_0494Il risultato di tanto impegno lo scopro quando ci si trasferisce in sala ed è il momento di assaggiare qualcosa assieme alla signora Suzana: si inizia con i vini più semplici, ideati e prodotti da poco tempo in autonomia da Saša, si tratta dello Slatnik (Chardonnay 80% e Friulano 20%) e del Pinot Grigio. In questo caso la macerazione è limitata a una quindicina di giorni circa, l’affinamento a 18 mesi e c’è una leggera solfitazione; ne risultano vini di certo più freschi e semplici da bere, comunque ricchi di profumi e gustosi, a mio parere anche più facili da abbinare nei pasti. Certo, meno unici.

I pezzi da novanta, i vini per cui Radikon è famoso, sono però altri: lo Jakot (significativamente Tokaj scritto alla rovescia, si tratta di Friulano al 100%), la Ribolla, l’Oslavje (un blend di Sauvignon, Pinot Grigio e Chardonnay) e il Merlot.
Lo Jakot 2007 è giallo dorato, lucente nonostante la mancanza di filtrazione, intenso, con una discreta aromaticità che non oltrepassa mai il limite dello stucchevole, buon corpo e tanta freschezza. Tra i vini di questa seconda batteria, quelli con macerazione “estrema”, mi pare quello più abbordabile per il pubblico comune.
La Ribolla (ho assaggiato il 2004 e uno stupefacente 1999) è il vitigno principe, sia perché tradizionale per la zona, sia perché la buccia molto spessa ben si presta alle lunghe macerazioni.
Il 2004, di colore ambrato, è olfattivamente ricchissimo: frutta gialla, floreale e speziatura, forse anche un accenno erbaceo. Al sorso, grande acidità e sensibile tannino, ma è tutto sotto controllo. Notevole la lunghezza.
Il 1999 resta ambrato nel colore, ma ancora più vertiginoso aromaticamente, si aggiungono il miele, la camomilla e tutto quello che vi pare: basta aspettare e il bicchiere regala di tutto. Enormi sapidità e lunghezza.
Ho bevuto anche il Merlot 2002, ma a mio parere era poco giudicabile: la bottiglia era aperta da tempo e il vino davvero spento. Peccato.

P.S:: Il mese seguente alla mia visita, Stanislao e sua moglie sono stati protagonisti di una degustazione dalle mie parti. Ho avuto occasione di assaggiare lo Slatnik 2011, lo Jacot 2006, le Ribolla 2006 e 2005 e gli Oslavje 2006, 2005, 1999, 1998 e 1997.
Brevemente: confermo le impressioni dello Jacot, secchissima la Ribolla 2006, leggermente più rotonda la 2005, ma sono gli Oslavje che mi conquistano, trovo che il blend permetta complessità aromatiche superiori.
Non al massimo il 1997, che sembra un po’ a fine corsa già dal colore scarico, due le bottiglie aperte del 1999, curiosamente molto diverse l’una dall’altra, già ottimo il 2006, che immagino un campione tra qualche anno. Meno ricco il 2005, sembra un po’ chiuso. Travolgente il 1998, frutta secca, miele, fiori, spezie…

[Continua…]

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso): Ronco del Gelso

Ronco del Gelso

Collio[Prosegue da qui]

Quando si dice la programmazione… per vari motivi il mio viaggio nel Collio è arrivato in un momento non particolarmente indicato: pioggia e vendemmie ancora in corso (o appena ultimate) non sono certo le condizioni più adatte ad un viaggio a sfondo enoico, sia dal punto di vista prettamente turistico che da quello riguardante il rapporto con i produttori da visitare, oggettivamente indaffarati in questioni ben più importanti rispetto alle curiosità del sottoscritto…

CollioCollioDi certo immaginavo il territorio più scarno, brullo, quando invece, partendo dal pianeggiante limite meridionale segnato dall’Isonzo, si ondeggia in un susseguirsi di rilievi dolci e riccamente verdeggianti, costellato di piccoli paesini ordinati e immersi in un mare di vigne e di tranquillo silenzio.
Qualche ora di sole mi ha permesso di sfruttare la Vespa gialla messa a disposizione da Picech con cui ho attraversato a casaccio le colline (attenzione al telefono: ci si muove costantemente sul confine con la Slovenia, a volte superandolo senza accorgersene, e se il roaming dati è attivo, si rischia di drenare velocemente il credito residuo…), restando stupefatto dalla concentrazione di aziende agricole, molte famosissime, altrettante note solo per averne letto chissà dove, moltissime altre a me sconosciute.

Ronco del GelsoLa prima cantina che ho visitato è Ronco del Gelso, che, avendo le sue vigne proprio sul suolo magro e pianeggiante al confine tra Collio e Isonzo, produce vini di denominazione Isonzo.
L’azienda di Giorgio Baldin produce circa 150.000 bottiglie l’anno suddivise in una ampia gamma di tipologie che ottengono spesso ottimi riconoscimenti, e che, come si legge sul sito, sono vinificate in “modo laico, lontano da rivendicazioni ideologiche”, distaccandosi quindi dalla tradizione (o forse anche da quella che attualmente è anche una moda) dei vini macerati. L’approccio è estremamente razionale, lucido: lo si capisce dalla cantina, moderna, ordinata e pulitissima, che riflette le tecniche di vinificazione adottate (lieviti selezionati, temperature controllate, acciaio o rovere a seconda della bisogna, sala attrezzata all’appassimento con controllo di temperatura, umidità e arieggiatura forzata).
Ronco del GelsoLa cantina è davvero all’avanguardia e di fatto autosufficiente dal punto di vista energetico grazie al fotovoltaico e ad una caldaia che brucia gli scarti di potatura per poi diffondere calore ovunque necessario grazie ad un impianto ad anello.

Nei vini assaggiati ho riscontrato il tratto comune di grande pulizia unita a notevole sapidità e aromaticità; vini direi gastronomici, nel senso di prodotti facili da bere senza essere banali.
Gran vino il Pinot Grigio Sot Lis Rivis, di cui preparerò scheda a parte: per ora mi limito a dire che mi ha davvero colpito per possenza di corpo e robustezza alcolica, ma acrobaticamente in equilibrio verticale, evitando di scivolare nell’eccesso. Ben fatto!
Facile e gradevole l’uvaggio Latmis (Friulano, Riesling, Pinot bianco, Traminer), molto piacevole il Friulano Toc Bas, con piacevoli accenni di nocciola e buon corpo (ho un debole per il vitigno, magari minore, ma che pur senza grandi pretese riesce sempre a sfoderare prodotti molto versatili per l’accompagnamento a tavola).
Bene la malvasia Vigna della Permuta: aromatica come dovuto ma diritta, di bella tensione sapida; piacevolmente fresco, intenso e per nulla stucchevole il passito Aut (da uva Traminer).

Meno interessanti il Riesling (un po’ anonimo, ma devo dire che raramente lo capisco quando vinificato fuori dai suoi territori d’elezione di Germania e Alsazia) e il Sauvignon, dal varietale troppo evidente (forse perché molto giovane).

[Prosegue…]

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Fornovo 2013: naturale e rustico (troppo?)

Come ogni anno da dodici a questa parte, a cavallo dello scorso weekend Fornovo ha ospitato una delle manifestazioni più note dell’enomondo italico, “Vini di Vignaioli – Vins de Vignerons“, non solo banchi di assaggio ma anche dibattiti, presentazioni eccetera.
La ragione sociale dell’evento dice tutto: si parla di vini veri, naturali, con tutto il casino che questa denominazione non ufficiale si porta appresso (mancanza non solo di un disciplinare ma persino di una definizione condivisa, molteplicità di associazioni in contrasto l’una con l’altra, confusione dei consumatori), ma anche con tutto l’appeal che la  patente di naturalità suscita ormai nel pubblico sia degli appassionati  generici che in quelli più hardcore.
La parte di titolo in francese completa la definizione: non sono presenti solo produttori italiani ma anche stranieri: francesi in particolare, ma anche sloveni, greci e georgiani.

La recente ventata di naturalità, di attenzione al biologico e di avvicinamento al biodinamico in pochi anni ha traghettato l’attenzione ai temi del biologico e biodinamico dai ristretti circuiti di carbonari fino alla massa dei consumatori, e manifestazioni come questa di Fornovo sono ormai meta di una massa significativa di partecipanti, al di qua e al di là del banco. Il risultato netto è che l’evento è arrivato a disporre di una quantità di proposte di assaggio da capogiro (si parla di oltre un centinaio di vignaioli presenti con varie referenze ciascuno), con una affluenza di pubblico ovviamente direttamente proporzionale.

Fornovo
Coda all’ingresso alle 11

Peccato che Fornovo non sia cresciuta allo stesso modo per quanto riguarda l’organizzazione: non ho idea di cosa sia accaduto gli altri giorni, ma domenica mattina alle 11 c’era già coda all’ingresso e la situazione era poco sostenibile dal punto di vista degli spazi interni, con difficoltà notevoli nello spostarsi da un banco all’altro e ben poche possibilità di parlare decentemente con il produttore senza alzare la voce.
I bicchieri forniti puzzavano, e per sciacquarli dopo le degustazioni (e per permettere la pulizia della bocca del pubblico) gli espositori avevano in dotazione minuscole brocche di acqua di rubinetto (non del tutto inodore), peraltro vuote in pochi istanti; ça va sans dire, non potevano mancare in terra i soliti pittoreschi secchi al posto delle comuni sputacchiere; del tutto assenti grissini e pane.
L’area esterna, che avrebbe dovuto fungere da spazio di “decompressione” e dar modo di mangiare qualcosa con un  minimo di calma, alle 13 aveva ancora le panche accatastate l’una sopra l’altra, inutilizzabili, e in ogni caso presentava ben poche zone coperte (e a novembre, si sa, di solito piove).

Fornovo
Folla all’interno alle 12

Sempre in considerazione della stagione e dell’inevitabile corollario di freddo e pioggia, non sarebbe male prevedere un servizio di guardaroba (a pagamento, per carità), in modo da poter depositare giacche e ombrelli, permettendo così di muoversi con maggiore libertà e senza morire di caldo.

Quanto sopra potrebbe non costituire motivo di lamentela per un evento di recente organizzazione e di limitate risorse, ma di sicuro è rilevante per una circostanza che si ripete da dodici anni, che chiede un biglietto di ingresso di 12 euro (più un euro per il pieghevole con l’elenco degli espositori, che peraltro è appunto un mero elenco, senza indicazione delle referenze presenti e senza una mappa dei banchi per facilitare il percorso! Dai, almeno fate un pdf e mettetelo sul sito…) e che può vantare varie sponsorizzazioni (leggo sul sito: Comune di Fornovo, Provincia di Parma, Regione, Pro Loco di Fronovo e altre sei aziende).

Lamentele logistiche a parte, luci ed ombre anche per quanto riguarda i vini proposti, visto che in più di una occasione si è trovata qualche bottiglia decisamente sgraziata, dove il concetto di “naturalità” non è ancora in accordo con quello di qualità.
Qualche appunto più o meno a caso riferito alle poche cose che ricordo: piccola delusione i due Alsaziani, Bannwarth e Paul Humbrecht: del primo ho trovato piacevole il Cremant (ad ottimo prezzo) e poco altro, e il secondo mi ha lasciato indifferente, mentre lo scorso anno aveva ottimi Pinot Gris e Gewurztraminer.
Molte riserve sugli champagne presentati da Boulard: interessante e personale il Vieilles Vignes e il Les Rachais 2007, ma i prezzi mi sembrano poco competitivi.
Piacevoli (e di prezzo abbordabile) gli Chenin di Loira di Bertrand Jousset: mi piacerebbe riassaggiarli con più calma e magari con qualche anno in più.
Sempre bene Maule, con una bella vendemmia tardiva di Garganega oltre ai “soliti” Masieri e Sassaia ; estremamente territoriali, sapidi, complessi di vini di Princic e Montinar; facilità e scorrevolezza di beva inconsueti per i rossi di Arianna Occhipinti (SP68 e Siccagno, peccato mancasse il Frappato); i miei soliti dubbi su Il Pendio: ne sento sempre parlare benissimo, lo incontro solo in qualche manifestazione quindi l’assaggio è giocoforza poco approfondito, e ogni volta ne ho la stessa impressione di vino ben fatto, piacevole ma nulla più.

Arrivederci all’anno prossimo, Fornovo, confidando nella solita naturalità ma magari in un pizzico di pittoresca rusticità in meno…

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte prima: l’ospitalità di Roberto Picech

picech

Picech

Basta osservare la forma della cantina, un perfetto quarto di cerchio, per capire qualcosa della personalità di Roberto Picech e di conseguenza anche dei suoi vini.
L’architetto cui si era rivolto al momento della costruzione gli aveva proposto un cubo o una grande “L” che abbracciasse l’aiuola dinanzi alla costruzione, ma a Roberto entrambe le idee sembravano scontate, così si è fatto venire in mente questa stranezza, coreografica, non pacchiana, comunque funzionale. Poi, per buon peso, Roberto ne ha anche costruito buona parte del tetto con le sue mani!
Quanto sopra me lo ha raccontato lui, con una piccola punta di orgoglio condita da vari attestati di modestia, come se tutto ciò fosse roba quotidiana.
Geniale e razionale, estro e applicazione.

Picech

Di Picech avevo già scritto dopo averlo incontrato dalle mie parti, e in quella occasione, oltre ad averne apprezzato i vini, avevo avuto modo di gradire il suo garbo e la sua comunicatività. Per questo, quando ho voluto trascorrere qualche giorno in Friuli, non ho avuto dubbi e ho deciso di far base a Cormons, prenotando una camera presso la sua struttura, una splendida casa di campagna immersa nel silenzio dei vigneti e ristrutturata in maniera encomiabile per cura dei dettagli, ampiezza degli spazi e sobria eleganza.

PicechPicechLa camera che ho scelto è situata nella torretta che sovrasta la struttura ed è in realtà un vero e proprio appartamento: si sviluppa su due piani (sotto ingresso, bagno e armadio; sopra la zona letto vera e propria),  e gode di una vista mozzafiato sulle colline grazie alle grandi vetrate disposte su tutte e quattro le pareti e ad un bel terrazzino.

A completamento dell’accoglienza, non posso non citare la Vespa gialla, messa a disposizione degli ospiti per

Vespa

esplorare il territorio in pieno contatto con la natura, e soprattutto la sontuosa colazione, ricchissima di prodotti di grande qualità: oltre ai consueti cereali, frutta e yogurt, vengono offerti il prosciutto di D’Osvaldo, vari formaggi artigianali, marmellate fatte in casa e uno dei migliori strudel mai assaggiati.

La visita della cantina, gli assaggi e una lunga chiacchierata con Roberto, sono stati l’occasione per una piccola confessione, il suo non amore per la ribolla, che difatti usa solo in blend, e per ribadire la sua filosofia di vinificazione: vini di carattere prodotti con naturalità (no ai lieviti selezionati e al controllo delle temperature, minimo uso di solforosa), 

picechsenza estremismi (leggi: senza ricorrere alle lunghe macerazioni, usate con frequenza in zona), sempre piacevolissimi, ricchi di mineralità e sapidità, adatti al lungo invecchiamento ma godibili fin da subito.

picechNessuna nota di degustazione particolare, non ho scoperto nulla che non conoscessi già, ma ho ritrovato sempre notevole lo Jelka, e personalmente continuo ad avere un debole per l’Athena, però prodotto solo in magum e in numero limitato di bottiglie…

[Prosegue qui…]

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Il mostro di formaggio: Cheese 2013

cheese1Guardate questa foto, vi prego. Questo è uno dei mercati di Cheese, ripreso domenica mattina alle 10.40 circa; ovviamente la folla sarebbe andata ad aumentare per tutto il giorno, perlomeno fino alle 16 e 30, quando, stremato, ho desistito e mi sono incamminato verso l’auto.

Li dico subito: non sono socio Slow Food e non ho certo la saggezza per suggerire alcunché a Petrini o ai suoi luogotenenti, ma sinceramente credo che sia venuto il tempo di ripensare queste manifestazioni-monstre: è pacifico che a tutti noi piace entrare nel Paese dei Balocchi per un giorno all’anno (o ogni due anni, come in questo caso), ma ormai abbiamo oltrepassato il livello del turismo di massa, siamo agli autobus che scaricano frotte di varia umanità condita da gelato e fotocamera compatta davanti al Vaticano, o ai 23 Km di coda in automobile il fine settimana per arrivare in una spiaggia con i lettini accatastati in spalla gli uni agli altri…

Non è questione di snobismo: in mezzo a questa folla di malcapitati, a sgomitare per una briciola di formaggio della Macedonia o per un cucchiaino di yogurt africano c’ero anche io, e non certo per la prima volta… Io sono colpevole tanto quanto tutte le altre migliaia di bipedi vocianti e sudati presenti.

Il punto è che inizio a chiedermi che senso abbia tutto questo circo (a parte ovviamente il godere del Paese dei Balocchi di cui sopra), quando ti rendi conto che, pur con tutta la buona volontà, non potrai scambiare una parola con i produttori, non riuscirai a leggere una riga dei cartelli accanto agli stand, non avrai modo di camminare tranquillamente e di fermarti ad annusare senza rompere le scatole ad altre venti persone che attendono dietro le tue spalle…
Inizio a chiedermi perché ad ogni manifestazione di SF ci debbano essere gli stand della piadina romagnola, delle olive ascolane, della farinata genovese eccetera eccetera, via col giro d’Italia.
Soprattutto, ora che il cibo è tornato ad acquisire dignità e centralità e che il concetto dei presidi è ben noto, mi chiedo se il famoso slogan del “Buono, pulito e giusto” non faccia fatica ad armonizzarsi con i formaggi paracadutati qui da mezzo mondo, con le migliaia di auto parcheggiate sotto la collinetta di Bra e lungo la strada, con gli autobus che fanno saliscendi continuato, con i bar che ormai hanno capito l’antifona e hanno messo pure loro il banchetto all’aperto, proponendo birra e gelato industriali ai visitatori meno accorti, con la gente che si spintona per un piatto di qualsiasi cosa e lo mangia in piedi o seduta in terra, accanto all’onnipresente logo “Slow”.
Certo, i contrasti sono il sale della vita, ma vedere dei tizi che arrotolano spaghetti alle vongole seduti ai tavolini di un bar di Bra (Cuneo, Piemonte) durante lo weekend di Cheese, ha qualcosa di surreale….

Immagino che per SF manifestazioni come questa siano una ottima fonte di marketing e di reddito (libri venduti, laboratori, espositori paganti), così come sono certo che per la cittadina di Bra un evento simile valga più dell’oro, e che quindi sia ben difficile trovare il coraggio di metter mano al carrozzone per ridimensionarlo, però ritengo che sarebbe un bel segnale di coerenza e un salto di qualità notevole da parte della associazione.
Immagino non più un unico Cheese-monstre ogni due anni, ma tanti piccoli Cheese basati sulle realtà locali (e magari alcuni, pochi, selezionati prodotti ospiti, scelti sulla base di affinità), con eventi magari solo a prenotazione e a pagamento.
Certo, per noi appassionati finirebbe il Paese dei Balocchi in cui nello stesso giorno puoi levarti la voglia di cheddar e caciocavallo, ma forse ci aiuterebbe a crescere, ad essere più consapevoli, e scongiurerebbe la deriva da “sagra della salsiccia con orda di turisti giapponesi”.

cheese2Detto questo, Cheese è sempre una gran figata per la possibilità di assaggiare tutto quello che hai in mente e anche oltre, e l’organizzazione è impeccabile: gli spazi per i dibattiti, i parcheggi ai piedi della città con gli autobus che portano in centro, la moltitudine di isole ecologiche presidiate da ragazzi che ti aiutano a buttare il rifiuto nel contenitore giusto, i laboratori con traduzione istantanea bilingue, il centro informazioni accogliente e cortese, e tanto altro ancora…

Temo che ci rivedremo nel 2015.

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Cosa mi combini, Oscar! E, in appendice, la cena al ristorante “Il Marin”

Per sgomberare il campo da equivoci dichiaro subito che ritengo Natale Farinetti detto Oscar un grande imprenditore, una risorsa per l’Italia, uno che vede lontano (sganciarsi dal settore dell’elettronica di consumo per inserirsi in quello del cibo e delle bevande di alta qualità è forse ovvio oggi ma di certo non lo era quando lo ha fatto lui).

logo-eataly1Ciò detto, ho molte riserve sul piccolo (ma neanche tanto) impero Eataly: a prescindere dallo sfavorevole rapporto qualità/prezzo dei “ristorantini”, non è bellissimo trovare in vendita accanto allo slogan degli “Alti cibi”, sotto il cappello filosofico di “sostenibilità, responsabilità e condivisione” e della “possibilità di offrire a un pubblico ampio cibi di alta qualità a prezzi sostenibili”, prodotti quantomeno discutibili (es. il pesto senza aglio, la birra Peroni, la pasta Barilla sugli scaffali di Eataly New York, tutta la pletora di creme e cremine per viso e corpo vendute a prezzi da strabuzzo degli occhi, eccetera), ma capisco che il supermercato occorre riempirlo e che i margini di profitto abbiano le loro esigenze, quindi non mi scandalizzo di certo.

Vado oltre: pur non piacendomi per nulla, accetto persino il voler spostare l’asticella del (legittimo) marketing sul piano etico, ma quando si arriva a certi eccessi retorici non può non scapparmi una risata.
La prima volta in cui avevo percepito chiaramente l’abbattimento del muro del ridicolo era stata quando Oscar, in combutta con Illy, aveva risolto in pochi decisionisti istanti il problema previdenziale che attanaglia il Belpaese; l’ultima volta nei giorni scorsi, quando ho ricevuto una mail di Eataly.
Apro la mail e mi accoglie una foto di Obama e Putin che si stringono la mano; istanti di smarrimento (“che c’azzeccano i presidenti col supermercato”), poi gli occhi scivolano sull’oggetto del messaggio: “Noi di Eataly vi invitiamo a pranzo” per poi scendere sul delirante testo: “… noi la pensiamo come il Papa: la guerra è sconfitta dell’umanità. Lui giustamente propone il digiuno come preghiera del corpo contro la guerra. Noi di Eataly ammiriamo questo gesto potente che unisce i religiosi di tutto il mondo con i laici che ripudiano la guerra. Vogliamo però aggiungere che il mangiare insieme può rappresentare un altro valore forte, rivolto alla convivialità e al superamento dei conflitti. Ci piace immaginare di poter invitare Putin e Obama ad un pranzo qui da noi, dove di fronte ad ottimo cibo i due possano trovare il modo di parlarsi”.
Sono senza parole! Immagino che al prossimo giro Oscar, per vendermi un vasetto di marmellata, si attrezzi a risolvere la questione palestinese, oppure chissà metta mano al problema  mediorientale per farmi iscrivere ad uno dei suoi corsi di cucina…

A margine, una doverosa appendice sul ristorante “vero” di Eataly Genova, Il Marin.
C’ero stato la prima volta a Febbraio, sono tornato la settimana scorsa, e per quel che mi riguarda in entrambi i casi ho trovato la migliore cucina di Genova, by far.

Certo, restano alcuni limiti strutturali (l’arredamento discutibile, l’ingresso che costringe all’attraversamento del supermercato, i tavoli “di design” senza tovaglie), ma altri sono stati superati (maggiore professionalità al servizio, con una ottima direttrice di sala).
Odio prendere appunti o scattare foto quando ceno, quindi vi beccate qualche ricordo confuso, anche perché non posso aiutarmi con il menu pubblicato sul sito, che non è per nulla aggiornato (dai Oscar! Questo è da correggere immediatamente): pregevole cortesia sia in fase di prenotazione che all’arrivo sulla scelta del tavolo all’esterno o all’interno, encomiabile l’aperitivo realmente offerto e non aggiunto al conto, molto bene i tempi di servizio (io ho preso un menu degustazione da varie portate, chi era con me solo due piatti più dolce, e comunque c’è stata armonia e nessuna attesa eccessiva), bella la presentazione al tavolo del carrello del pescato del giorno.
I piatti che ho apprezzato maggiormente: le acciughe fritte ripiene offerte a inizio pranzo, ottimo l’antipasto di crudi di mare, strepitosi gli spaghettoni alle sarde.

Qualche appunto negativo: servire a Genova una focaccia non perfetta è un vero delitto, e quella dell’altra sera era da galera diretta senza passare per il via, per tenere in fresco la bottiglia sarebbe meglio attenersi alle tradizionali glacette e buttare quelle buste in plastica semirigida che fanno temere il rovesciamento da un momento all’altro, il preantipasto di centrifugato di melone è abbastanza scoordinato e la piccola pasticceria post-dolce decisamente non al livello del resto della cena. Sala un po’ rumorosa.

Ma sono dettagli, in generale le portate sono felici, con cotture chirurgiche, dosi adeguate e impiattamenti perfetti; la carta dei vini è discreta e ha ricarichi umani, il personale cortese e competente, i tavolini sono ben distanziati, la cucina a vista è piacevole e il panorama sul porto è ovviamente meraviglioso.
Da ultimo, ma non per ultimo, il conto non è basso ma del tutto giustificato da quanto raccontato sopra.

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