Genova Wine Festival 2019: prima edizione

E’ bello non dover far sempre i criticoni, quindi (contrariamente a quanto accaduto con la manifestazione di GoWine) mi piace segnalare la buona organizzazione della prima edizione del Genova Wine Festival.

Immagino non sia un caso che dietro le quinte ci sia, tra gli altri, l’associazione Papille Clandestine, che da qualche anno gestisce con destrezza eventi sul territorio cittadino, quindi complimenti a loro e all’altro patron (Intravino).

Tra le cose buone da evidenziare, scelgo la location in centro, facile da raggiungere con qualsiasi mezzo, l’ampia area relax, il prezzo di ingresso corretto, la solerte disponibilità dei volontari nel far trovare sempre le sputacchiere vuote.

Se posso invece annotare un punto migliorabile, direi che c’è necessità di più spazio per espositori e pubblico (a partire da un certo orario la sala era davvero troppo piena), ma immagino fosse troppo ottimistico prevedere un simile afflusso.

Infine, una mia personalissima idiosincrasia: fatemi pagare anche un euro in più per il biglietto (uno solo, eh: siamo o no genovesi) ma non costringetemi ad associarmi a Papille Clandestine.
Intendiamoci, non ho assolutamente nulla contro questo ente, anzi, come scritto sopra mi pare stiano lavorando più che bene, semplicemente per mia scelta personale non amo essere membro di qualcosa che non conosco bene e di cui non sono direttamente coinvolto.

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Genova, Tutti i colori del bianco

Nonostante GoWine sia una associazione che da quasi 20 anni si occupa di vino ed organizzi eventi non ricordo di aver mai partecipato ad alcuna manifestazione appartenente a questa ragione sociale,  ma c’è sempre una prima volta, che nel mio caso è arrivata in occasione di “Tutti i colori del bianco“: una rassegna piuttosto eterogenea di vini bianchi italiani.

La faccio breve: dal punto di vista di GoWine immagino ci sia soddisfazione, vista la nutrita partecipazione del pubblica. In qualità di ospite pagante, purtroppo non posso essere altrettanto entusiasta.
Eppure le premesse erano buone: il luogo dell’evento era un hotel elegante in centro città, facilmente raggiungibile con auto, treno e bus, e con abbondanza di parcheggi (a pagamento) nei dintorni; la selezione delle aziende, pur non amplissima, presentava alcuni nomi di livello.

Peccato che l’organizzazione sia difettata in molti aspetti già fin dall’ingresso, rallentato dalle troppe lungaggini per l’acquisto del biglietto.
A seguire: poche grucce al guardaroba, nessuna tasca portabicchiere e un depliant illustrativo dell’evento ridotto a due misere fotocopie piegate in guisa di libretto.

Si entra e nuovamente si resta sconsolati: il biglietto (18 euro, non proprio popolare) dà diritto anche ad un piattino di plastica con 3 pezzetti di focaccia, uno di parmigiano e ad una fettina di salame di qualità eufemisticamente definibile non al top.

In sala non c’è traccia di bottiglie d’acqua o di grissini, ai banchi di degustazione molti vini sono troppo caldi (in una rassegna di vini bianchi non è un peccato veniale), molte vasche del ghiaccio sono piene di acqua dopo soli 30 minuti dall’apertura al pubblico, ed essendo troppo ampie fanno scivolare le bottiglie al loro interno con esiti facilmente immaginabili.

Solerti invece lo svuotamento delle sputacchiere e i rappresentanti di AIS e Fisar al servizio dei banchi “misti” dei consorzi e della Liguria.

Media dei vini non eccelsa: molti troppo giovani, moltissimi penalizzati come già detto da temperature del tutto fuori luogo, e molti naviganti in una aurea mediocritas, ma soprattutto ribadisco i difetti organizzativi.

Sarà per la prossima volta.

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Live Wine 2017

Sabato di trasferta a Milano per il Live Wine, e come lo scorso anno le impressioni sono largamente positive per quanto riguarda l’organizzazione: ottimo lo spazio del Palazzo del Ghiaccio, in centro ma non troppo, quindi facilmente raggiungibile sia per chi si muove con i mezzi e sia per chi, come il sottoscritto, arriva in auto (non si corre il rischio di transitare in Area C e ci sono molti parcheggi in zona: io ho prenotato un posto auto a 10 euro per l’intera giornata).
All’ingresso c’è il graditissimo guardaroba e, cosa per me fondamentale c’è spazio: anzitutto il Palaghiaccio è molto areato, ben luminoso ed è sovrastato da una volta altissima, questo consente di non trovarsi immersi in una cappa di calore opprimente e in una bolgia di rumore quando il numero di persone inizia a salire, inoltre i banchi degli espositori non sono minuscoli e hanno una distanza decente gli uni dagli altri. Quanto sopra, in unione al gran numero di produttori presenti, permette di non trovarsi davanti a code scoraggianti dinanzi a ciascuno stand, nonostante l’importante afflusso di pubblico.
Ancora, ottimo il servizio di continuo svuotamento delle sputacchiere e le bottiglie di acqua sempre presenti ai banchetti; interessanti i seminari proposti nelle due giornate.

Gli unici appunti negativi: all’ingresso vengono consegnati il classico calice e il libricino ma manca la tasca porta-calice e nel’opuscolo sarebbe gradito anche l’elenco dei vini di ciascuna azienda (ma capisco sia complesso); gli stand del cibo sono decisamente cari e manca qualche punto di relax e di appoggio in più (tavolini e sedie).
Peccato che in vari casi a presenziare presso lo stand ci sia un distributore (o comunque un terzo) e non il produttore.
Ribadisco ad ogni modo che il salone è uno tra i più godibili tra quelli che  mi capita di frequentare, quindi complimenti all’organizzazione.

Venendo ai vini: luci ed ombre, purtroppo non poche le ultime. Preciso che mi sono dedicato in gran parte a nomi non noti e che forse anche per questo mi sono imbattuto in sorprese non piacevolissime, ma d’altronde la partecipazione ad un evento del genere serve soprattutto a sparare qualche colpo a casaccio, senza aver paura di impegnare tutte le cartucce in bottiglie ignote.
Così ho incrociato qualche francese del Languedoc con vini decisamente ossidati, un paio di alsaziani con una gamma appiattita nei confronti della finezza e un tedesco che presentava riesling di invecchiamento molto poco espressivi; poi ancora un Franciacorta eccessivamente rustico e vari produttori che presentavano vini affinati in botti scolme, e forse sarebbe stato meglio se fossero rimasti esperimenti di cantina. Infine, in almeno tre casi, ho assaggiato bottiglie palesemente non pronte, vini troppo giovani per poter essere degustati.

Detta così suona come un mezzo disastro, lo capisco, ma la realtà è diversa; ho incontrato tante belle conferme, ma visto che trovo stucchevoli gli elenchi telefonici redatti durante le degustazioni seriali, quindi  mi limiterò a riportare solo pochi nomi: Barraco mi ha impressionato con le sue sapidità, De Bartoli per la precisione e la pulizia di tutti i vini presentati, mentre Guccione mi ha stordito con un blend di due annate di Trebbiano, straordinariamente elegante.

Una volta tanto, ecco la bottiglia giusta di Pepe: in varie manifestazioni mi era capitato il suo Trebbiano con puzzette un po’ troppo marcate per poterle classificare come “corredo aromatico”. Stavolta le due annate che mi sono state servite giustificavano abbondantemente blasone e prezzo.

Infine c’è un nome su tutti che mi piace segnalare, perché è solo la seconda volta che assaggio i vini di Vigneto Altura, un piccolo produttore dell’isola del Giglio, ed entrambe le occasioni le ho vissute come vere rivelazioni.
La mia prima è stata un paio di anni fa, con il suo bianco Ansonaco Carfagna: un liquido con qualche evidente lievito in sospensione che, già sorprendente sotto al naso, in bocca diventa un caleidoscopio di succhi di frutta alcolici. Ieri ho ritrovato questo vino esattamente dove e come lo avevo lasciato: dissetante, divertente, originale.
Curiosamente, proprio un paio di settimane fa parlavo con alcuni amici di questo produttore e mi erano stati magnificati anche il suo rosato e il suo rosso: confermo che, se vi capita, valgono ben più di un assaggio distratto nella calca di una manifestazione: il rosato (da sangiovese) e il rosso (un assemblaggio di tali e tante uve diverse da essere ironicamente classificato da un amico come “Chateauneuf du Pape del Gliglio”. Di entrambi ricordo i sentori distinti di macchia mediterranea e la godibilità di bevuta: vini facili ma per nulla banali, mediterranei nell’essenza.
Alla bontà dei prodotti si aggiunge poi la semplicità garbata e amichevole del produttore, che si è prestato a quattro chiacchiere tranquillo come fossimo a casa sua, limitandosi a descrivere il frutto del suo lavoro senza cadere nella retorica naturalista e della viticultura eroica.

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Mare e Mosto 2016

Sulla carta è solo il secondo passaggio per Mare e Mosto, la rassegna dei vini liguri, ma in realtà l’organizzazione viene da lontano, da quando la manifestazione si chiamava in altro modo e si svolgeva in altra città, ed è proprio questa genealogia a spiegare il motivo per cui, nonostante la gioventù, il tutto sia gestito a puntino: dalla sede molto bella, comoda da raggiungere e con adeguati spazi all’aperto per favorire i momenti di riposo, alle sputacchiere che sono molte e costantemente svuotate, da acqua e pane abbondanti alla consegna all’ingresso di matita e libricino con gli spazi per annotazioni (a proposito: a quando la prima fiera con app dedicata allo scopo,  con mappa dei produttori presenti, elenco dei vini di ciascuno e possibilità di commento, magari poi inviato in diretta “social”?).

Ci sono poi tanti incontri collaterali: degustazioni, dibattiti, la finale per il titolo del migliore sommelier di Liguria e la costante supervisione dei tanti membri AIS coinvolti. Insomma, una manifestazione riuscita che ha il suo punto focale nella possibilità di “fare il punto” sulla gran parte dei vini liguri, con il bonus della presenza di un consorzio ospite (lo scorso anno era il Trento DOC, stavolta il Soave) e un piccolo minus: gli stand del cibo decisamente non all’altezza.

20160509_162042Subito al punto: non ho fatto una degustazione approfondita dei vini regionali (a quella mi dedicherò partecipando alle sessioni della guida dell’AIS), ma piuttosto una carrellata di assaggi più edonistica che tecnica; la prima cosa che ho notato è che fortunatamente non mi sono capitati casi di prodotti portati in assaggio palesemente troppo giovani come in passato, la seconda è che i nomi che più restano in mente sono sempre quelli dei “pesi massimi” regionali: i Cinque Terre di Cappellini con il loro afflato marino, le sperimentazioni di De Battè, sulla carta estreme ma poi in bocca godibilissime, la precisione millimetrica di Santa Caterina (che portava per la prima volta una lunga macerazione di vermentino: straordinario come Andrea Kilgren sia riuscito a mantenerlo fresco e bevibile), l’eleganza assoluta dei Rossese di Giovanna Maccario, l’ampiezza dei Pigato di Bruna.
E poi, come perdersi l’ennesimo show dell’anarchico scienziato pazzo Fausto de Andreis (Le Rocche del Gatto), che ogni anno porta in degustazione non due o tre annate, ma cinque o sei o persino di più, sia di Vermentino che di Pigato e anche dello Spigau (la selezione di Pigato)) e te le fa assaggiare tutte e si offende pure se cerchi di saltare qualcosa.

20160509_144237 (Medium)La delusione è venuta dal Soave: la Garganega è un uva dalle potenzialità straordinarie (e pure la Durella), soprattutto in invecchiamento, ma il Consorzio ha deciso di farsi rappresentare da molti vini giovanissimi e spesso banali, caratterizzati da spettri olfattivi imbalsamati sui canonici e impersonali frutti tropicali e banane, e da una serie di spumanti poco incisivi e molli.
Tra questo panorama poco interessante mi piace segnalare due metodo classico che spiccavano nettamente sugli altri, Il Lessini-Durello Marcato 36 mesi e 60 mesi: complimenti erano buonissimi, peccato che come accadeva con altri colleghi, al banchetto non fosse presente il produttore…

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Live Wine Milano 2016

E’ con colpevole ritardo che scrivo e pubblico qualche riga su Live Wine; era la mia prima alla manifestazione milanese e devo dire di essere rimasto stupito dalla professionalità della organizzazione: tutto di alto livello, dal numero e dalla qualità dei produttori, proseguendo con la sede spaziosissima e luminosa, con i tanti eventi a corollario (ad esempio le degustazioni guidate), gli ottimi banchi gastronomici, il libricino con la mappa dei partecipanti, l’area riservata per la stampa, eccetera.
Ho presenziato tutto il sabato pomeriggio e, nonostante il notevole afflusso di visitatori, ancora verso le 18 c’era possibilità di degustare in maniera decente. Complimenti sinceri all’organizzazione: faccio un nodo al fazzoletto virtuale per ricordarmi di partecipare il prossimo anno e consiglierò altrettanto a chi mi conosce.

Live WinePer il resto: davvero tanti i produttori presenti nonostante che il maltempo improvviso (con tanto di nevicate) abbia reso difficoltoso il transito ad esempio dalla Francia all’Italia e aggiungo che forse per la prima volta ho apprezzato anche gli stand dei distributori presenti: sarà un caso ma perlomeno a quelli da cui mi sono fermato mi hanno servito persone che conoscevano bene i prodotti proposti e non hanno fatto rimpiangere l’assenza dei produttori, anzi è stata l’occasione di fare assaggi di vini di tipologie molto diverse, magari estemporanei ma divertenti.

Devo proprio fare i nomi di qualche produttore o vino che mi ha colpito? Gli elenchi mi annoiano e appunto li trovo riduttivi nell’economia di una manifestazione così riuscita, ma vabbè, mi limito a qualche appunto sparso con note veloci.
Dopo lunga (mia) assenza torno ad assaggiare Podversic e non posso non annotare la vitalità e la simpatia dell’uomo, che rispondeva sempre disponibilissimo e con un sorriso a tutta la folla che lo accerchiava. I vini? Tra i pochi a saper macerare in modo da mantenere facilità di bevuta e identità di vitigno e territorio (e scusate se ho scritto un termine stra-abusato e poco significativo, “territorio”).

Il Cannonau non è sicuramente uno dei vini del mio cuore, ma se capita quello di Montisci non posso fare a meno di godermelo.Live Wine

Continuo a non familiarizzare con i vini di Pepe, perlomeno con i bianchi: il Trebbiano che mi è stato servito secondo me non era del tutto a posto, ma la persona al banco mi ha confermato che era proprio lui… boh, ne deduco sia colpa mia. Ritenterò.

Il Camerlengo lo avevo assaggiato anni fa, poi non mi era più capitata l’occasione, e mi si conferma un vinone nel senso migliore del termine: pieno, caldissimo, succoso, robusto ma bevibile. Devo tentare una bottiglia a pasto invece che un semplice assaggio per capire se non sia “troppo”.

I bicchieri serviti da Corte Sant’Alda mi fanno ricordare come mi piacciono i vini della Valpolicella e come troppo poco li frequenti.

Mi sono piaciuti molto i vini Alsaziani di Geschickt, magari troppe tipologie per analizzarle a fondo in cinque minuti, ma i Riesling erano ben fatti e tipici, freschi, sapidi, capaci di invecchiamento. Più semplice ma ben godibile il Cremant.

Per chiudere, mi piace spendere qualche secondo per Chateau Tour Blanc, produttore da una zona, l’Armagnac, nota per altri liquidi alcolici piuttosto che per i vini. E’ stata una bella sorpresa assaggiare una batteria di bottiglie di millesimi e di parcelle diverse, tutte da un vitigno poco considerato (l’Ugni Blanc, il nostrano Trebbiano) e tutte di notevole interesse e, mi pare di aver capito, prezzate in maniera decisamente abbordabile.

Ancora complimenti all’organizzazione. Ci vediamo l’anno prossimo!

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Vinnatur Genova 2016

Non ho voglia di parlare di assaggi, non avevo il blocchetto degli appunti e trovo sempre più noioso l’elenco del telefono dei nomi segnati in piedi nella folla che poi lo rileggi a casa come se stessi decifrando il vangelo aramaico.
Semmai parliamo dell’evento: cosa dire ancora della manifestazione che annualmente Vinnatur porta in Liguria? Ormai da due anni, dopo alcune edizioni a Sestri Levante, Vinnatur si è trasferito a Genova, in pieno centro, in uno splendido edificio storico, ma di questo già scrivevo lo scorso anno.

vinnaturE infondo potrei solo ripetermi, perché di fatto la formula (ormai rodata e vincente) giustamente si tocca: la location si raggiunge facilmente con i mezzi pubblici, è accogliente, c’è spazio, c’è il guardaroba, c’è sempre pane e acqua ai banchetti dei produttori, c’è lo spazio della gastronomia, c’è il depliant con la mappa dei partecipanti. Eccetera.
Non posso poi non notare che il posizionamento in pieno centro città, e forse anche l’aver legato alla manifestazione altri eventi in alcuni locali genovesi, ha trascinato all’ingresso un buon numero di persone evidentemente “non del giro”, novizi del vino, facce nuove incuriosite.

Una nota di merito e una di demerito ai produttori: ho parlato con alcuni vignaioli sorprendentemente onesti, tanto da essere i primi a rimarcare qualche difetto di un loro vino; al contrario, di qualcuno ci si domanda perché partecipi ad una manifestazione se poi non ha il minimo interesse a comunicare con il pubblico…

In mezzo a tutti non puoi non notare il patron Angiolino Maule: magrissimo, l’aria tranquilla di chi si sente a casa ma l’occhio febbrile che guizza l’ennesimo cenno di saluto a una delle mille persone che vengono a rendergli omaggio mentre versa il vino. E’ lui, Angiolino, il motore e l’anima della manifestazione, di Vinnatur tutta e di buona parte del movimento dei “vini naturali” italiani, qualsiasi cosa significhi questa definizione ormai abusata.

Cose negative da segnalare?
Forse l’ingresso potrebbe essere un pochino più contenuto, ma comprende anche un buono per una porzione ai banchi della gastronomia e allora va bene così.
Forse l’orario: aprire domenica e lunedì, saltando il sabato, è una scelta che giustamente lascia una giornata (il lunedì, appunto) più dedicata agli operatori del settore e penalizza un pochino gli appassionati, che in maggioranza non prenderanno ferie e sono quindi costretti ad ammassarsi alla domenica, quando per giunta si chiude alle 18.

Ma queste sono inezie, semmai, se un vero limite della manifestazione esiste, è paradossalmente legato alla sua formula: per l’appassionato che partecipa ogni anno a questo raduno (e anche ad altri a tema simile), più o meno la gran parte dei produttori è ben nota, difficilmente capitano grandi scoperte, quindi oltre ai complimenti meritati per l’organizzazione, porgiamo a Vinnatur gli auguri di tante nuove affiliazioni, così da poterci incontrare il prossimo anno a Genova con una decina di produttori inediti in più.

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Genova Beer Festival: la prima edizione

Lo stupore che coglie anche chi, come me, vive tutto sommato nelle vicinanze è indicativo: prima di raggiungere villa Bombrini si taglia il centro di Genova con la Sopraelevata, e col buio è un po’ come trovarsi sul set di Blade Runner, visto che si vola a metà strada tra le luci del porto e quelle della città, per scendere poi a Sampierdarena e allungare verso Cornigliano, in un territorio che si è trasformato da immagine da cartolina in esempio di massimo degrado, con i palazzoni maltenuti, il muraglione del porto e il filo spinato, la sporcizia incipiente, auto e motorini abbandonati, la famiglia di rom che occupa abusivamente quello che un tempo forse era una autofficina e tutte le altre declinazioni del caso che possano venirvi in mente.
Ecco, a un passo da tutto questo scempio, imboccando una viuzzola, ti ritrovi in un ampio parcheggio che affianca un bellissimo villone settecentesco con relativo parco annesso: è villa Bombrini, la sede del primo Genova Beer Festival, e il primo pensiero non corre alle alte o basse fermentazioni, ma semmai a quanti eccellenti scorci come questo ci possano essere, dimenticati, in altre parti della città.

Che dire del Festival? Non me lo sono goduto, a causa di problemi in famiglia ho potuto presenziare solo un paio d’ore domenica sera prima della chiusura, ma la mia idea me la sono fatta.
Ok l’ingresso a sei euro, molto bene il bicchiere in vetro (anche se non proprio ideale la forma, ma son dettagli. A me non è stata consegnata la tasca portabicchiere, forse erano finite o magari è stato un disguido) ma per favore fate in modo che si possa riconsegnare il vetro all’uscita e avere indietro una cauzione, anche simbolica.

Molto bene il pieghevole all’ingresso, con il programma completo della manifestazione, un glossario minimo e l’elenco delle birre. Forse avrei diviso le birre non per stile ma per birrificio, ma ce ne fossero di depliant fatti così.

Benissimo gli spazi in relazione al numero degli espositori: i banchi sono ben distanziati e c’è molta “aria” che permette di non fare a spintoni con gli altri visitatori, e anche il giardino immagino sia stato una bella valvola di sfogo durante il giorno. Ho qualche riserva sulla disposizione dei banchi di assaggio su più piani: a quanto ho visto non ci sono sistemi di accessibilità per i disabili.

Gettone di degustazione a 1 euro per 10 cc di birra (in realtà ne veniva servita quasi sempre di più), e qui forse si poteva fare di meglio, prevedendo un carnet per chi vuole fare molti assaggi; in questi casi i 10cc (abbondanti) sono sempre troppi e il costo diventa importante: la mia formula ideale è il carnet da 10 assaggi da 5cc a 5 euro o qualcosa di simile.

L’appunto più negativo è quello relativo al cibo, in un momento di scarsa affluenza e praticamente senza code, occorreva attendere oltre 30 minuti per una semplice bruschetta: le due “postazioni food” cui mi sono approcciato (Ai Troeggi e Kowalski) mi sono sembrate palesemente inadeguate sia come gestione dei tempi che come qualità. Da rivedere anche il numero dei tavoli e delle panche a disposizione, troppo scarsi, perlomeno quelli all’interno della villa.

Sulle vere protagoniste, le birre, non ho troppo da dire, avendo fatto solo una quindicina di assaggi molto frettolosi, quindi mi limito a poche segnalazioni.
Pollice in alto per Canediguerra, birrificio giovane ma con tutta l’esperienza di Allo alle spalle e si sente da tutta l’ottima gamma, corretta, senza esagerazioni e strampalatezze.
Passaggio di rito da Maltus Faber che sfodera una per me irresistibile Blonde Hop (poco alcolica, leggera, di carattere ma mai invadente).
Chiaroscuri per uno dei nomi storici del panorama “artigianale” italiano, il Birrificio Italiano: la Tipopils, uno dei paradigmi del genere, non mi è sembrata al top, mentre era centrata la Nigredo, uno dei pochi esempi di Schwarzbier tricolore. Molto interessante anche la Sparrow Pit, un Barley Wine di bevibilità assassina.
Vellutata e piacevole la Nocturna di Kamun.

Nota stonata, non certo per colpa degli organizzatori: domenica sera chi serviva al banco di almeno un paio di espositori era evidentemente non in condizioni lucidissime… capisco che erano le ultime ore, che un festival di birre non è un ristorante stellato e che l’atmosfera è informale, ma non mi sembra un gran biglietto da visita per il produttore.

Le conclusioni? Un successo sicuramente, senza contare che si trattava di una prima volta.
Un grande “bravo”, quindi, ai ragazzi di Papille Clandestine per l’ottimo lavoro svolto, con la speranza di ritrovare il prossimo anno un GBF ancora più ricco di birrifici, di cibi e di eventi.

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Cheese 2015: e infatti ci siamo rivisti…

“Temo che ci rivedremo nel 2015”: così concludevo il mio piccolo sfogo di due anni fa a proposito di Cheese.
E’ lampante, già lo sapevo che nonostante tutte le mie riserve sulle orde di visitatori poco accorti, sui magheggi di marketing di Slow Food, sulla assurdità delle olive ascolane e della piadina romagnola accanto ai presidi africani, a Bra ci sarei tornato nel 2015.

cheese 2015E infatti eccomi qui, a raccontare le solite cose e a commentare le medesime immagini; certo, la minestra la si può condire con qualche nuovo aneddoto come quello del gruppo di romani: uno di loro fende la calca per inforcare finalmente una briciola di Stilton, la divora, ne agguanta un altro pezzetto e lo porge ad uno dei compari, urlando: “Aoh, senti che bono”. Risposta dal fondo: “No, no, io mica me fido a magnà stà robba”. E qui sarebbe più dignitoso chiudere, ma non posso non ricordare che, stavolta, c’erano anche i furgoni dello street food.
Ci si domanda che ci azzecchino con i formaggi, e pazienza, ma un minimo di controllo su cosa debba essere uno street food ci vorrebbe, ad esempio un cartoccio con alcune (poche) polpettine di carne appena dignitose, venduto a 7 euro di sicuro non lo è.

Chiudo con la mia piccola guida per la sopravvivenza a Cheese 2017:

  • se possibile, vai al venerdì (lo so, idea originale…)
  • se, come per me, il venerdì ti è impossibile, perlomeno arriva al mattino presto. I banchi aprono alle 10, entro le 9.30 si riesce a parcheggiare quasi in città, evitando l’autobus
  • prepara prima una lista di cose che vuoi assaggiare e che ti interessa approfondire e più o meno attieniti a quella, perlomeno per le prime due ore, le uniche nelle quali la folla non è ancora a livelli da prima fila nel prato durante il concerto di Jovanotti. Il cazzeggio indiscriminato ai banchi lascialo per dopo
  • evita di metterti in coda per qualsiasi cibo dopo le 12. Mangia prima o moooolto dopo
  • ricorda che puoi entrare in macelleria, comperare un metro di salsiccia di Bra, poi andare dal panettiere all’angolo e farti un panino gourmet ad un terzo del prezzo richiesto agli stand
  • porta uno zainetto per mettere gli acquisti; riempilo a casa con una bottiglia d’acqua (ho detto bottiglia, non bottiglietta)
  • in ogni caso, alle 15 sbaracca: hai mangiato e bevuto come un orso, hai camminato e sgomitato per ore, inutile proseguire

p.s. menzione doverosa per lo stand di Ales and Co: ho bevuto diverse birre, tutte di ottimo livello, ma in particolare una Mosaic di The Kernel strepitosa per quanto era fresca e fragrante.

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Riviera Critical Beer

Non fai a tempo a stupirti di qualcuno che vuol riprovare a fare un festival di birre a Genova, ed ecco che a sorpresa spunta un’altra manifestazione a tema in riviera: Riviera Critical Beer.
Non ho idea di chi siano gli organizzatori (immagino persone del giro di Critical Wine), e i proclami sul sito mi fanno un po’ sorridere, ma l’elenco dei birrifici presenti dichiara alcuni nomi davvero interessanti, quindi direi che chi è in zona un salto potrebbe farlo: venerdì 4 e sabato 5 a Leivi.

 

 

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Le grandi interviste :- ) di Centobicchieri: Papille Clandestine

IColgo una occasione: ero rimasto così sorpreso dalla notizia di un nuovo festival birrario a Genova da voler capire meglio chi era così matto da volersene accollare l’organizzazione.

I coraggiosi sono i tizi di Papille Clandestine, un trio che da tempo gestisce un blog a tema enogastronomico, di tanto in tanto organizza eventi (finora di dimensioni limitate) e che da poco ha deciso di darci dentro in maniera più strutturata, iniziando dalla creazione di una associazione culturale.


D: Parlami di Papille Clandestine: nasce come blog, vi seguo da tempo, ma mi pare che un po’ alla volta vi state sempre più confrontando con l’organizzazione di eventi. E’ un lavoro a tempo pieno? Lo è in divenire?

R: Papille nasce come blog, ma noi siamo nati come persone. In quanto tali ci piace fare bisboccia con gli amici e rapidamente papille è diventato un modo per conoscerne di nuovi, di amici, e una scusa per andare a scoprire tutti insieme posti nuovi. insomma, diciamo che le “cene papille” o gli eventi papilli, tre o quattro all’anno, sono stati una conseguenza quasi naturale. non abbiamo mai pensato di metterci esclusivamente a fare eventi, restiamo blogger – anche perché tutti e tre ci occupiamo di comunicazione per mestiere – però nel tempo ci abbiamo preso gusto.
Aggiungici che appunto sia per amicizie che per collaborazioni ci siamo trovati ad intessere una solida rete di relazioni sul territorio, insomma, alla fine ci siamo detti che era l’ora di uscire allo scoperto: qualche mese fa abbiamo creato l’associazione culturale papille clandestine, che sarà il braccio operativo papillo per tutto quello che riguarda serate, eventi, corsi e incontri.

D: Anche riguardo le birre mi pare di avere rilevato una vostra recente accelerazione, o sbaglio? La vostra impronta di riferimento è tradizionale (Belgio, Germania, equilibrio ecc.) o modernista (facciamolo strano, le collaborazioni, gli amari estremi ecc.)

R: Effettivamente l’ultimo anno abbiamo fatto diverse cose birrarie, anche se di nostro-nostro c’è stato solo il corso di degustazione – comunque una bella cosina venuta su con la massima soddisfazione di tutti.
In tanti altri eventi (vedi gli incontri con i birrai nei locali genovesi) ci siamo limitati ad aiutare nell’organizzazione e nella comunicazione di iniziative altrui, a volte sì pungolando qualche locale (leggi pure: rompendogli il belino). questa è una delle cose a cui più teniamo e che ti accennavamo precedentemente: il network, il fare rete, usare Papille come una risorsa per tutti quelli che vogliono fare qualcosa di qualità in questa città. quanto all’accelerazione, più che nostra, è di tutta la città – o almeno di tre-quattro locali che ci stanno lavorando bene.
Se poi vogliamo lodarci, crediamo che il successo del nostro corso di birra – e dei primi incontri – abbia convinto alcuni publican che la via era percorribile, insomma, che abbia dato un po’ di slancio a tutti.

D: Riguardo la manifestazione: non avete paura del pubblico genovese? Cosa avete pensato per non incappare in fallimenti come quelli del IBF e di Birre al Parco?

R: Siamo convinti che i tempi siano maturi. i segnali sono molti: il consumo di birra artigianale è aumentato, così come l’attenzione.
Anche a Genova. diverse manifestazioni sono andate molto bene negli anni scorsi (Critical Beer, anche se non è il nostro modello) così come la Birralonga. soprattutto quest’ultima: mille persone che hanno pagato 20 euro in anticipo e i biglietti esauriti giorni prima. vediamo locali come Kamun, i Troeggi e Scurreria – tutti e tre che propongono solo birra di qualità – pieni tutte le sere.
Altri che comunque pur essendo legati a distribuzioni commerciali liberano una via per marchi artigianali o craft e ci raccontano che quella via va alla grande.
Il movimento si è poi assestato in tutta Italia, e ci aspettiamo che in diversi vengano a Villa Bombrini anche da fuori Genova; non dico da Milano (anche se sappiamo già che da Milano verranno), ma basso Piemonte, riviere…
Gli errori dell’IBF e di Birre al Parco li abbiamo ovviamente analizzati, e la nostra risposta è: comunicazione (ci abbiamo messo una bella fetta di budget ed è in fondo il nostro mestiere) e relazioni e alleanze sul territorio. Inoltre abbiamo puntato su qualità e prezzi corretti. due cose che a Genova hanno sempre una certa importanza.

D: L’organizzazione del festival è tutta vostra o avete collaborazioni con altri enti (es. Compagnia della Birra, Mobi, ADB, Timossi ecc.)?

R: l’iniziativa è la prima grande prova dell’associazione culturale, che è nominalmente l’organizzatore.
L’iniziativa, appunto, perché poi per l’esecuzione come ti dicevamo stiamo ricevendo collaborazione da parte di tantissimi: birrai, locali, distributori, associazioni di settore e culturali (ci sarà una mostra fotografica e probabilmente una biciclettata). Abbiamo anche altre idee e contatti su cui lavoreremo nel prossimo mese.
Noi la pensiamo come una festa per la birra e per Genova, non per Papille: MOBI e Compagnia della Birra sono amici preziosi, così come i ragazzi di Critical Wine e Pint of Science.
Al netto di diversi loro soci che ci aiutano a titolo personale li abbiamo ufficialmente invitati a venire e mettere il loro banchetto al festival per raccontare quello che fanno, e speriamo che riescano a trovare il modo di organizzarsi per farlo.
Il tempo dei veti incrociati per noi è stato sepolto con la generazione che ci ha preceduto, noi trenta-quarantenni genovesi sappiamo tutti che in questa città uniti si vince e divisi si muore. Se il festival andrà bene, e andrà bene, sarà una ricchezza per tutti.

D: Io sono da un po’ fuori dal giro: come procede la scena birraria a Genova (produttori a parte)? C’è fermento? I locali storici mi sembrano un po’ passati di moda, i nuovi li stanno rimpiazzando degnamente per scelta e competenza?

R: Male, devi tornare a farti un giretto in centro!
Sì, la scena è cambiata. Noi riteniamo che sia cambiata in meglio, perché c’è più interesse e maggior scelta. poi certo, se uno ha nostalgia dei tempi pionieristici potrebbe vedere le cose diversamente.
Qualche nome: i Troeggi in via Chiabrera, il primo locale del centro che ha puntato esclusivamente sulla birra artigianale italiana; il Kamun Lab, la prima tap-room di un birrificio artigianale, con anche un paio di vie per birrifici ospiti; Scurreria Beer and Bagel, il primo vero locale genovese interamente dedicato alla birra di qualità sulla linea dei grandi locali romani e milanesi.
Tutti e tre stanno a cento metri l’uno dall’altro, che è una cosa fondamentale, probabilmente la vera grande differenza con i locali dell’era carbonara. a contorno tanti altri lavorano sulla birra di qualità: Pausa Caffè, Kowalski, lo stesso HB, Giangaspero alla Maddalena, l’Altrove, Machegotti, Locanda… di sicuro ce ne dimentichiamo qualcuno fuori dal centro.
Il messaggio che la birra buona tira è stato recepito anche dal principale distributore regionale, Timossi, che ha in catalogo un’ottima scelta di grandi birrifici craft dall’Italia e dall’Inghilterra.
Insomma, a noi è venuta sete, a te?

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