Carat 2010, Bressan

Gli orange wines hanno rotto i coglioni. E Bressan è un razzista insopportabile. E io mi sento sporco e colpevole per aver comperato questo vino.
Vai, partiamo col botto, così Analytics si impenna.

Sono arrivato nel mondo nel mondo del vino nel momento in cui tra gli appassionati terminali stava dilagando la moda dei vini naturali, delle fermentazioni spontanee, dei lieviti autoctoni, della biodinamica eccetera. Tra gli eccetera ci metto gli orange wines.
E di questa roba mi sono innamorato, saltando a piè pari le barriques, i grandi nomi, i supertuscans, i grand cru e così via: il mio imprinting è quello del piccolo produttore sfigato che ha recuperato il vitigno del trisavolo e lo vinifica nella vasca da bagno, più o meno.

Poi, un po’ alla volta, assaggiando e cercando di pensare con la mia testa e con le mie papille gustative, ho capito che non tutto l’orange is the new black, che nel passato (prossimo) ci sono valori da recuperare, ho capito cosa è moda e cosa è finezza, ho capito che il mio gusto è quello che comanda e che poco mi importa della critica enologica, sia essa mainstream che underground.

Riguardo a Bressan uomo, beh, cosa vuoi dire… a qualcuno poteva anche essere folcloristicamente simpatico finché andava in giro conciato da parà e sparando sentenze sull’universo mondo, compresi i produttori suoi vicini di casa affettuosamente apostrofati come “Collioni”, ma quando ho scoperto che sul profilo Facebook teneva appassionate lezioni di politica comparata, bollando ad esempio la  ministra Kyenge con il simpatico appellativo di “sporca scimmia … negra mantenuta di merda”, francamente ne ho avuto abbastanza e, senza il clamore che tanti hanno montato (le bottiglie spaccate in strada, i boicottaggi di alcuni distributori americani e l’esclusione dalla guida di Slow Wine), nel mio piccolissimo ho deciso di non versargli più oboli in cambio di una boccia di vino.

Fine della premessa.

caratDenominazione: Venezia Giulia IGT
Vino: Carat
Azienda: Bressan
Anno: 2010
Prezzo: 23 euro

Il tempo passa, e sinceramente era da tempo che traguardavo sullo scaffale questa bottiglia di Carat (un blend di Tocai Friulano, Malvasia e Ribolla Gialla leggermente macerato, affinato parte in barriques e parte in fusti di rovere), che magari non sarà un orange al cento per cento (ma poi, che vuol dire?) ma è uno degli esempi di cosa deve essere un vino bianco macerato: ambrato, vivo, dinamico, vibrante, senza volatile e senza eccessive pesantezze di bevuta.

Gli aromi sono di the, di miele, di nocciola, di albicocca, diluiti in un lontano ricordo di vernice, e poi in bocca poi è freschissimo, lontano da certi mappazzoni seduti e stanchi: qui il calore si accoppia alla acidità, assieme intensissimi, aprendo la strada ai ricordi di noce per poi chiudere con una persistenza notevolissima.

Certo, è difficile da abbinare e ti fa un po’ schifo pensare di passare banconote al camerata Bressan Fulvio, ma se sei onesto non puoi non dire che è una bella bottiglia.

Il bello: ricco, caldo, verticale, personalità

Il meno bello: Olfattivo timido rispetto alla potenza del sorso

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Mandelberg Grand Cru 2005, Domaine Bott-Geyl

Le generalizzazioni sono sempre approssimative, spesso inducono ad errori e a banalizzare gli argomenti, e io ovviamente sto per scrivere una generalizzazione… Olè.
Parlando di riesling, la terra promessa cui si è soliti far riferimento è in Germania, più precisamente la Mosella; l’Alsazia, quindi i cugini francesi (una volta tanto) vengono dopo. Le differenze ci sono e pure marcate: chissà se bisogna dar retta alle sirene del mitologico terroir o se invece la colpa dei connotati cambiati è da attribuire agli stili e alle tradizioni di vinificazione.
Quel che è certo è che in Alsazia, a differenza che sulla Mosella, il Riesling è solo uno dei protagonisti assieme ad altri vitigni come il Pinot Grigio, il Muscat, Il Gewurztraminer, spesso i residui zuccherini sono inferiori, ma soprattutto il vino è più caldo, robusto. Ampiezza in luogo di verticalità: più potenza e meno finezza. Appunto generalizzando, certo.

Denominazione: Alsace Grand Cru
Vino: Mandelberg
Azienda: Domaine Bott-Geyl
Anno: 2005
Prezzo: 30 euro

A controprova di quanto sopra ho stappato questo Grand Cru di un produttore biodinamico di cui riesco a reperire poco o nulla (ecco, in questo francesi e tedeschi sono molti simili: molti produttori non hanno un sito o se lo hanno è come se non esistesse).

Via, ai bicchieri: bel giallo dorato, luminoso, naso intrigante di legni esotici e di the, e un leggero velo di morbidezza che richiama il burro e l’albicocca matura. Dopo un’ora circa aggiunge ancora più complessità, con riconoscimenti di fiori appena colti e di rocce bagnate (lo so che è una cazzata, ma assicuro che è una immagine che salta in testa annusandolo).

L’assaggio è caldo e grintoso, morde la parte laterale e finale della bocca: sono le sensazioni acide e sapide (soprattutto), molto decise e intonse perché il vino non presenta residuo zuccherino alcuno. Non male, ma molto robusto: rispetto alle sensazioni olfattive è più monolitico e perde in eleganza.

Non male, ma la bevuta non scorre via veloce: è di certo un vino da pasto, che con la sua potenza deve accompagnare carni bianche e pesci preparati con salse o comunque pietanze non delicatissime.

Il bello: bel naso variegato. Bocca potente

Il meno bello: manca un po’ di eleganza

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Blanc de blanc Eloquence Extra Brut, Vergnon

E’ estate, è caldo, come fai a non voler provare un grand cru che non hai mai assaggiato, di sboccatura freschissima (forse troppo, vedremo poi).
Come spesso accade con i francesi, della maison in questione so davvero nulla, se non che opera in un comune di gran fama come quello di Mesnil sur Oger, ma chissene.

Il sito dice che questo Eloquence è prodotto utilizzando vini di riserva per circa un quarto e subisce affinamento in acciaio per almeno 3 anni, provenienti come scritto poco piùsopra da da comuni mitologici come  Mesnil sur Oger, Oger, Avize.

vergnonDenominazione: Champagne
Vino: Blanc de blanc Eloquence Extra Brut
Azienda: Vergnon
Anno: –
Prezzo: 40 euro

Poco da dire all’esame visivo: paglierino pallido e bolle correttamente sottili e fitte.

Al naso si scopre qualcosa di interessante: c’è molta intensità aromatica, quasi troppa per essere solo Chardonnay (tanto che immaginavo un piccolo saldo di pinot bianco ma così non è), con sensazioni floreali molto nette e decise che possono inebriare ma restano eccessivamente monocordi, senza ampiezza.

L’assaggio conferma le attese: la carbonica precisa, per nulla fastidiosa, veicola una acidità netta, verticale, ma il sorso è un po’ sporcato dall’eccesso di aromaticità che delinea un quadro troppo piacione per risultare davvero elegante; certo, lasciare la bottiglia aperta alcune ore porta più equilibrio, visto che al palato arrivano anche accenni di agrume e una certa mineralità. La chiusura è pulita e piuttosto lunga.

L’impressione è quella di un vino ancora in divenire, bisognoso di qualche mese ancora di bottiglia per assestarsi e poter dare il meglio di se.

Il bello: manca di austerità, prezzo non favorevole

Il meno bello: la freschezza

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Timorasso il Montino 2013, La Colombera

Alla cieca è un riesling, di quelli buoni. E non suoni come una diminutio nei confronti di quel gran vitigno che è il Timorasso, è solo che il nobile cugino teutonico gode di maggiori notorietà e fama.

Dal principio: arrivo in cantina all’ora di chiusura del sabato prima di Pasqua, ci sono ancora altri clienti da servire e da quanto capisco la signora Elisa ha un parente in ospedale da andare a trovare. Nonostante la situazione, la titolare mi accoglie con grande cortesia e molti sorrisi: fanno sempre piacere e in questo caso sono ancora più apprezzati.


montino
Denominazione
: Colli Tortonesi DOC
Vino: Il Montino
Azienda: La Colombera
Anno: 2013
Prezzo: 15 euro

Parliamo di vino: il dettaglio meno interessante è quello visivo: perfettamente limpido, paglierino tenue e riflessi verdolini, risulta perfettino e un po’ anonimo. Poi però lo metti sotto al naso e inizia a sfoderare una gran finezza floreale ed erbacea; sopratutto, si intravede una bella nota minerale, il prodromo del mitologico idrocarburo.

La prima cosa che colpisce all’assaggio è la sapidità formidabile, la seconda è che questa caratteristica così decisa è comunque perfettamente integrata nel complesso del sorso, che si delinea preciso e dai contorni perfettamente armonici, senza elementi goffamente preponderanti.
L’ottimo equilibrio permette anche di mascherare bene i 13,5 gradi, integrandoli con una buona freschezza garantendo così una bevuta agevole. Si chiude con corpo adeguato e persistenza non comune.
Vino godibilissimo ma ancora decisamente giovane: immagino possa dire la sua per molti anni e offrire il suo meglio forse tra due o tre anni, ma bisognerebbe chiedere in azienda.

Insomma un vino ottimo, in particolare in ragione del prezzo-cantina decisamente corretto.
Abbinamento regionale con tutti gli antipasti e molti primi piemontesi: peperoni sottolio, taglieri di salumi, formaggi non eccessivamente stagionati, taglierini eccetera.

Il bello: complessità, facilità di bevuta e prezzo abbordabilissimo

Il meno bello: nulla da segnalare

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Freisa Kyé 2011, Vajra

Questo post, riesumato per una felice coincidenza, era rimasto in attesa da mesi, sepolto nel casino del quotidiano, ed è una omissione colpevole: come faccio a dimenticare che quando ero ancora più novizio di quanto lo sia adesso e mi muovevo con elefantiaca (dis)grazia nelle varie manifestazioni enoiche, la signora Milena mi ha accolto con sorriso e pazienza, senza mettermi in imbarazzo come accaduto con altri produttori; e come posso non ricordare che alla mia prima visita in azienda venni ricevuto da una giovane responsabile dell’accoglienza che, a me turista del vino squattrinato, dedicò più di un’ora, accordandomi la stessa attenzione riservata ad un paio di tedeschi che comperarono più o meno per il valore del PIL di una nazione africana di media grandezza…

Non lo so se la famiglia Vajra sia davvero quella sorta di mulino bianco che pare essere: tutti (marito, moglie, figli, collaboratori) nelle poche occasioni in cui mi è capitato di incrociarli, si sono rivelati gentilissimi e soprattutto capaci di emanare una sorta di fluido magico della tranquillità; non bastasse, abbinano questa sorta di pace interiore ad una laboriosità seria ma non ossessiva. Insomma, diciamola tutta: ti fanno quasi invidia per come sembrano perfetti.
Avranno anche loro le giornate no? Comunque sia, al consumatore non lo danno a vedere: insomma, sono una sicurezza come i loro vini, che tutte le volte che li bevi danno l’idea di essere un prodotto altamente professionale, in cui nulla è lasciato al caso, ma comunque dotato di un’anima fortemente emozionale.

Sarebbe facile parlare dei Baroli di famiglia, ma a me piace spendere qualche riga per una delle loro bottiglie di nicchia, la Freisa, che completa una gamma di vini che ormai spazia a tutto campo dai classici piemontesi fino al riesling e al metodo classico.

freisa-ky_-vajraDenominazione: Langhe rosso DOC
Vino: Kyé
Azienda: Vajra
Anno: 2011
Prezzo: 24 euro

Vigneti a 400 metri di altitudine e affinamento di oltre un anno in legno per una bottiglia cui deve stare alla larga chi, leggendo il nome del vitigno, pensa ad un liquido abboccato e lievemente frizzante. Qui siamo agli antipodi, e sfacciatamente territoriali per giunta: se non è radicato nella sua zona questo vino, allora possiamo chiudere baracca. Questa è una freisa che barolegga nettamente (la diciamo una frase alla moda? Il terroir vince sul vitigno) e al naso racconta di viole, di frutta rossa matura e persino di etereo, mentre in bocca è ricca, potente, tannica (ma di un bel tannino deciso e non verde), calda, e di gran corpo, con ricordi di frutta rossa persino arricchiti da china e liquirizia.
Semmai è all’esame visivo che tradisce i suoi natali, mostrando profondità di colore e nessun accenno granato o aranciato tipico del nebbiolo; la vendemmia è 2011 ma il vino è ancora giovane, sostenuto da una acidità sferzante che rende la bevuta irresistibile.
Vino da pasto, da formaggi, da pane e salame: fatene quel che volete e cascate sempre in piedi.

Il bello: aromi netti, ricchi, pieni

Il meno bello: nulla da registrare

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Confini 2010, Lis Neris

A volte (forse sempre) si sceglie di comperare un vino anche per suggestione, e a me questa bottiglia intrigava già sullo scaffale: un nome, Confini, evocativo tanto più se accostato ad un prodotto che viene da quella terra di grandi bianchi che è il Friuli e che del limite di territorio è quasi epitome.

confiniDenominazione: Venezia Giulia Bianco IGT
Vino: Confini
Azienda: Lis Neris
Anno: 2010
Prezzo:25 euro

E allora parliamone della bottiglia, prodotta in provincia di Gorizia, nella Valle dell’Isonzo dalla azienda Lis Neris, 70 ettari declinati soprattutto in bianco ma non solo, in questo caso in particolare assemblando uve Gewürztraminer, Pinot Grigio e Riesling ottenendo un liquido giallo dorato, caldo, compatto, di decisa matericità già dalla roteazione.
Un vino “grosso” che si conferma tale anche negli aspetti olfattivi, dove è ovviamente l’aromatico a farla da padrone con i suoi aromi di rosa, litchi e altri frutti tropicali surmaturi. Certo, il fatto che il Gewürzt non sia l’unico vitigno in gioco contribuisce a scongiurare il pericolo di eccessiva sfacciataggine e di stucchevolezza.

In bocca è decisamente di corpo, caldo, secco ma di quella secchezza un po’ morbida che contraddistingue il Gewürztraminer; si avverte il Pinot Grigio, con le sue striature sapide e non si palesa il temibile effetto mappazza grazie ad una buona spalla acida, probabilmente apportata dalla quota di Riesling. Finale abbastanza lungo ma con un eccesso di amarognolo.

Vino particolare, decisamente da abbinamento: cucina fusion, con influssi orientali e speziature importanti.

Il bello: gran corpo e aromaticità ben gestita

Il meno bello: finale non del tutto a registro

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Perlé 2008, Ferrari

E allora diciamolo, che noi enofili da computer siamo degli snob mica da poco. Scrivo queste righe dopo aver provato a dare una occhiata a cosa dice “la rete” su un prodotto magari non di massa ma certo molto noto come il Ferrari Perlé (2008, nell’occasione).
Bene, un mezzo deserto: praticamente nessuno di noi bloggaroli e maniaci che si degni di perdere due minuti a vergare un parere, quando invece è facile leggere opinioni praticamente su tutto, dal vino macerato della Georgia ai Retzina dalla Grecia.

Ed è un peccato, perché per il mio modestissimo parere questa bottiglia, a questo prezzo, regge tranquillamente il confronto con molti metodo classico blasonati, d’oltralpe e non; semmai sconta il delitto di essere marchiata dallo stesso produttore che inonda la GDO con altri spumanti  (dignitosissimi, peraltro).

perleDenominazione: Trento DOC
Vino: Perlé
Azienda: Ferrari
Anno: 2008
Prezzo: 25 euro

Quindi come lo descriviamo questo vino?
E’ metodo classico importante, giallo paglierino carico, ricco di sfumature tostate in primis, ma anche di agrume e di panificazione.
La bolla è giustamente nervosa e decisa, e l’assaggio è ricchissimo ma ben bilanciato: fresco, sapido, gustoso, persistente.
Unico difetto: le note tostate tornano anche al palato e sono un poco eccessive se non si pasteggia, rendendo il sorso non del tutto compulsivo, ma basta saperlo e destinare il vino al suo uso d’elezione, la tavola imbandita, per ovviare ad ogni problema.

Il bello: la ricchezza gustativa

Il meno bello: piccolo eccesso di note tostate

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Mare e Mosto 2016

Sulla carta è solo il secondo passaggio per Mare e Mosto, la rassegna dei vini liguri, ma in realtà l’organizzazione viene da lontano, da quando la manifestazione si chiamava in altro modo e si svolgeva in altra città, ed è proprio questa genealogia a spiegare il motivo per cui, nonostante la gioventù, il tutto sia gestito a puntino: dalla sede molto bella, comoda da raggiungere e con adeguati spazi all’aperto per favorire i momenti di riposo, alle sputacchiere che sono molte e costantemente svuotate, da acqua e pane abbondanti alla consegna all’ingresso di matita e libricino con gli spazi per annotazioni (a proposito: a quando la prima fiera con app dedicata allo scopo,  con mappa dei produttori presenti, elenco dei vini di ciascuno e possibilità di commento, magari poi inviato in diretta “social”?).

Ci sono poi tanti incontri collaterali: degustazioni, dibattiti, la finale per il titolo del migliore sommelier di Liguria e la costante supervisione dei tanti membri AIS coinvolti. Insomma, una manifestazione riuscita che ha il suo punto focale nella possibilità di “fare il punto” sulla gran parte dei vini liguri, con il bonus della presenza di un consorzio ospite (lo scorso anno era il Trento DOC, stavolta il Soave) e un piccolo minus: gli stand del cibo decisamente non all’altezza.

20160509_162042Subito al punto: non ho fatto una degustazione approfondita dei vini regionali (a quella mi dedicherò partecipando alle sessioni della guida dell’AIS), ma piuttosto una carrellata di assaggi più edonistica che tecnica; la prima cosa che ho notato è che fortunatamente non mi sono capitati casi di prodotti portati in assaggio palesemente troppo giovani come in passato, la seconda è che i nomi che più restano in mente sono sempre quelli dei “pesi massimi” regionali: i Cinque Terre di Cappellini con il loro afflato marino, le sperimentazioni di De Battè, sulla carta estreme ma poi in bocca godibilissime, la precisione millimetrica di Santa Caterina (che portava per la prima volta una lunga macerazione di vermentino: straordinario come Andrea Kilgren sia riuscito a mantenerlo fresco e bevibile), l’eleganza assoluta dei Rossese di Giovanna Maccario, l’ampiezza dei Pigato di Bruna.
E poi, come perdersi l’ennesimo show dell’anarchico scienziato pazzo Fausto de Andreis (Le Rocche del Gatto), che ogni anno porta in degustazione non due o tre annate, ma cinque o sei o persino di più, sia di Vermentino che di Pigato e anche dello Spigau (la selezione di Pigato)) e te le fa assaggiare tutte e si offende pure se cerchi di saltare qualcosa.

20160509_144237 (Medium)La delusione è venuta dal Soave: la Garganega è un uva dalle potenzialità straordinarie (e pure la Durella), soprattutto in invecchiamento, ma il Consorzio ha deciso di farsi rappresentare da molti vini giovanissimi e spesso banali, caratterizzati da spettri olfattivi imbalsamati sui canonici e impersonali frutti tropicali e banane, e da una serie di spumanti poco incisivi e molli.
Tra questo panorama poco interessante mi piace segnalare due metodo classico che spiccavano nettamente sugli altri, Il Lessini-Durello Marcato 36 mesi e 60 mesi: complimenti erano buonissimi, peccato che come accadeva con altri colleghi, al banchetto non fosse presente il produttore…

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Arione 2013, Piccinin

Oggi si parla di un metodo classico diverso: diverso per la provenienza, estranea ai soliti circuiti francesi (Champagne) o italiani (Franciacorta, Trento, Alta Langa ecc.), per il vitigno utilizzato (la Durella, che viene partecipa con successo a tante spumantizzazioni ma insomma, non è certo Chardonnay o Pinot Nero…), e per quanto posso intuire mi pare diverso anche il metodo produttivo. Ma andiamo con ordine.

La piccola cantina nella provincia di Verona (circa 15000 bottiglie) è quella di Daniele Piccinin, folgorato sulla via di Angiolino Maule, tanto da diventare vicepresidente di Vinnatur con tutto quel che ne consegue: vigne in cui viene limitato l’intervento dell’uomo e quindi ricche di piante spontanee, uso esclusivo di preparati vegetali e rame e zolfo, nessun intervento in cantina eccetera.

In passato ho assaggiato qualcuno dei suoi vini in vari banchi di assaggio, e li ho trovato piacevoli ma oggettivamente “derivativi”, nel senso che ho riscontrato più una somiglianza con i prodotti di Maule, ma stavolta Piccinin si è avventurato in un territorio nuovo, la spumantizzazione, realizzando il metodo classico Arione di cui tira circa 4500 bottiglie.

Avvertenza, questa è una degustazione senza rete: di solito scrivo quel che penso, ma poi butto un occhio al sito per produttore per verificare di non avventurarmi in idiozie sesquipedali sulla metodologia di produzione, ma stavolta non trovo alcuna informazione, quindi sappiatevi regolare…

Arione-MC-Daniele-Piccinin-20160428114356764Denominazione: VSQ
Vino: Arione
Azienda: Daniele Piccinin
Anno: 2013
Prezzo: 20 euro

Il colore dorato intenso lascia pensare al legno o piuttosto ad una breve macerazione, e il naso sembra confermare questa seconda impressione: i profumi sono molto intensi di frutta quasi surmatura.

La carbonica è piuttosto delicata sul palato e il è calore moderato; a spiccare più che la freschezza (che comunque non manca) è la grande sapidità, che resta a lungo in bocca anche a sorso completato e mi pare di avvertire anche un filo di astringenza da tannino, ulteriore conferma della avvenuta macerazione; si chiude con un corpo agile, sottile ma non magro e un finale di discreta lunghezza.

Sicuramente una bevuta diversa dal solito, magari non elegantissima come si è abituati a pensare quando si tratta un metodo classico con lunghi mesi di affinamento, però comunque piacevole e interessante.

Vino da provare in abbinamento a crostacei e frutti di mare: la contrapposizione tra la sapidità spiccata del vino e la tendenza dolce del del cibo promette interessanti sinergie.

Il bello: personalità, sapidità

Il meno bello: complessità e finezza un po’ limitate

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Erbaluce Fiordighiaccio 2015, Produttori Erbaluce

Questa non è una recensione, semmai un appunto veloce.

e_fior_gjiaccioHo comperato una bottiglia di Fiordighiaccio: avevo voglia di qualcosa che non mi capita mai di bere e ho chiesto un vino semplice e poco costoso; mi è stata proposta questa bottiglia della cantina sociale Produttori Erbaluce di Caluso alla folle cifra di 5 euro e mezzo, come facevo a rifiutare?

Come era?
Un vino a cui trovare difetti era sinceramente impossibile, profumatissimo, leggero ma con una presenza degna e una discreta verticalità.
Il problema (se di problema si può trattare) è che si vede lontano un miglio che si tratta di un prodotto estremamente tecnico, lo capisci dal colore esilissimo, dagli aromi quasi esagerati, dalla pulizia estrema del sorso…
Difatti a posteriori ho scoperto ad esempio che in cantina viene eseguita la criomacerazione.

Dunque? C’è qualcosa di male nel “costruire” un vino in questo modo, cioè usando la tecnologia, e ovviamente senza ricorrere ad adulterazioni non previste dalla legge?
No, io credo (anzi sono sicuro) che non ci sia nessun problema nell’utilizzare queste pratiche di cantina, in particolare se si riesce poi a realizzare un prodotto di questo buon livello a questo ottimo prezzo; il problema, semmai, è che un vino così (che ho usato come piacevolissimo accompagnamento ad un antipasto) non trasmette nessuna sensazione di particolarità, di unicità, di scoperta, e non voglio neppure stare a scomodare la secondo me abusatissima territorialità.

Ma cerchiamo di capirci, queste riflessioni sono del tutto personali, senza alcuna valenza oggettiva, e nulla tolgono al valore della bottiglia; soprattutto, forse sono emblematiche del rapporto non del tutto “sano” che abbiamo noi appassionati con il vino: ci facciamo forse tutte queste domande quando mangiamo una bistecca o un pomodoro? Non ci basta sentirli gustosi, succosi, in una parola “buoni”?
Perché ad un vino chiediamo anche qualcosa di altro? Non è che abbiamo voglia di suggestione e ogni tanto esageriamo?

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