La cena del sommelier Gennarino Carunchio

Gennarino CarunchioDa quanto tempo non provate una robusta, sana, ruspante invidia sociale? Non intendo una di quelle gelosie tipiche di questi tempi oscuri per la quale tu, disoccupato, provi odio nei confronti del tuo vicino di casa che ha ancora il salario da camionista, ma proprio quel desueto senso anni settanta di appartenenza ad un classe diversa, inferiore.
Insomma, da quanto non vi sentite Gennarino Carunchio?

A me è capitato la scorsa settimana.
Gradito ospite-Calimero ad una “cena prestigiosa” (si dice così, vero?) nella quale sono stati bevuti vini che definire colossali è un eufemismo, con la mia foga da eno-parvenu ho avventato per primo il naso nel bicchiere di un Margaux 1971 e mi è balzato alla mente De André: “La morte verrà all’improvviso, avrà le tue labbra e i tuoi occhi”, e, ho aggiunto, il tuo olfatto.
TAPPO!
Ho alzato timidamente la manina per comunicarlo agli altri commensali, che hanno concordato: è proprio tappo.

Ora, il mio elenco di smoccolamenti assortiti potete immaginarlo: quando mai ricapiterà a me, Carunchio Gennarino, di sedere nuovamente al desco dei Signori per assaporare il nettare divino? Ingenuamente pensavo però che anche i Re, nel loro piccolo, si incazzassero: è qui che sbagliavo, è qui che ho capito la differenza che corre tra me e gli Onnipotenti ed è qui che si è risvegliato il mio sopito stimolo alla invidia di classe.
Per farla breve, il proprietario della bottiglia non ha fatto un plissé e, con tutta la calma e la serenità del mondo, intercalando tra un discorso e l’altro, ha dichiarato sorridendo: “Pazienza, apriamo Château Ausone ’75”.
Stop. Nessuna litania sui santi o testata contro il muro. Questa è classe, caro Gennarino!

Facezie (insomma…) a parte, l’invito di un amico gentile (che mai potrò ringraziare abbastanza) mi ha permesso di imbucarmi all’evento; ovviamente ci tengo a raccontarvi tutto, così da farvi rodere il fegato alla grande e controbilanciare la mia invidia di cui sopra con un sapiente colpo di karma.

ChampagnePronti via: con gli antipasti abbiamo stappato due Champagne: Salon 1985 e Bollinger R.D. 1988.
Chi legge il blog conosce forse il mio amore per le bollicine, ma qui siamo fuori scala: intanto vini perfetti, senza ombra di sfregio da parte del tempo, che anzi ha contribuito ad evolvere il profilo gustativo verso vette difficilmente immaginabili.
In entrambi i casi la bolla è ancora vitale e copiosa, ma talmente sottile e delicata da risultare cremosa; Salon in particolare si presenta già dal colore, quasi ambrato, come qualcosa di “altro” rispetto ad un normale Champagne: trasfigurato in una dimensione a sé, nettamente evoluto ma sapido, complesso in maniera imbarazzante, con note che dal miele di acacia arrivano al caseario, passando per la canonica pasticceria. Monumentale.
Bollinger: appena versato parte più tranquillo, più Champagne nel colore e con un corredo aromatico meno ampio (si fa per dire) e meno intenso, ma dalla sua ha maggiore freschezza e mineralità e, nonostante una potenza superiore (immagino regalata dal Pinot nero) è forse più adatto agli antipasti. In ogni caso col passare dei minuti diventa più intrigante: si infittisce la sapidità e si rinforzano la crosta di pane e la mela ed esce un accenno di fungo.

Clos de BezeCon la prima portata è arrivato il signore e padrone incontrastato della serata: Chambertin Clos de Beze 1987 Luis Jadot.
Classico colore da Borgogna, scarico ma ancora vivissimo, è soprattutto l’olfattivo ad impressionare: c’è tutto quello che vi viene in mente e anche di più, il piccolo frutto, la terra, il bosco, il balsamico, il selvatico e persino un accenno di agrume maturo. Da manuale AIS sarebbe ampio, molto intenso ed eccellente. Da assaggiatore, chiudi gli occhi e sei in mezzo ad una collina francese. Stop.
In bocca è altrettanto perfetto: è caldo ma l’alcol non si sente per nulla, è fresco ma l’acidità non graffia, e il tannino è lieve e setoso.
Il Pinot nero nella sua massima espressione, una bottiglia aperta credo nel momento di massima grazia in cui nessun elemento spicca o ne sovrasta un altro e tutto si fonde in un insieme per descrivere il quale occorre, una volta tanto a ragione, scomodare il mitico termine “armonico”
In una parola: il Vino con la V maiuscola.
Nota a margine: il problema di una bottiglia del genere è che d’ora in poi ogni altro assaggio uscirà impietosamente demolito dal confronto: dovrò darmi al chinotto o alla aranciata.

Château AusoneDi Château Margaux e del relativo tappo abbiamo parlato, quindi passiamo a Château Ausone ’75. Vino enigmatico: arriva completamente muto, del tutto chiuso nonostante l’apertura effettuata due ore prima e la seguente scaraffatura.
Ci vorranno ancora molti minuti e tanti giri di polso per stanarlo: il colore è ancora giovanissimo e concentrato, finalmente escono gli aromi e c’è un sorprendente e nettissimo caffè, poi spezie in quantità e un tannino vivo, ben definito e piacevole.
Interessante, ma siamo ad anni luce dal Clos de Beze.

SauternesSi chiude la partita con gli erborinati, accompagnati da Château Suduiraut 1975.
I vini dolci non sono il mio terreno di gioco preferito, ma non posso fare a meno di ammirare la grandezza di questo Sauternes: alla vista colore carico, brillante e densità non eccessiva per la tipologia; al naso tutta la declinazione del muffato nobile, la frutta secca, l’albicocca disidratata, il miele, la frutta tropicale e soprattutto uno zafferano immenso, inarrestabile.
L’assaggio ripropone le stesse sensazioni dell’olfattivo, in più è lunghissimo, di una persistenza oltre ogni confine: trascorsa mezz’ora dopo aver mangiato i formaggi, avevo ancora lo zafferano in bocca…

In conclusione, che dire della serata?
Ho imparato sicuramente qualcosa, in primis che il sentimento dell’invidia mi appartiene e mi consuma nonostante io non voglia, ma a parte questo ho capito che esistono vini di una finezza che fino ad oggi avevo solo immaginato, e che purtroppo sono riservati a pochi, fortunati semi-mortali.
E mi sono accorto che, per noi Gennarini, una batteria di questo calibro è troppo, in particolare se abbinata ad una cena quasi altrettanto sontuosa: tutta questa grazia ti assale e ti sovrasta, e ti rende quasi incapace di capire e di godere appieno: non arrivo ancora a pensarla in toto come Francesca, ma quasi quasi…

 

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Quinta do Noval: vini liquorosi d’autore

Penultima degustazione dell’anno per la Cantina du Pusu.
Per prepararsi al fine pasto di cene e cenoni vari o per risolvere un regalo importante, cosa meglio di una bottiglia di Porto?

Quinta do Noval ColheitaIn assaggio, una bella batteria di Quinta do Noval, storico produttore (i primi documenti in cui compare il nome risalgono al 1715) di fama rilevante e di qualità proporzionalmente alta.
In abbinamento a ciascun vino una diversa tipologia di cioccolato Corallo, che a malincuore non ho assaggiato in quanto la sera avrei presenziato ad una cena prestigiosa e di cui conto di scrivere nei prossimi giorni: stay tuned.

Per qualche cenno su metodologia produttiva e tipologie di Porto vi rimando a questo articolo, e passo direttamente alle note di assaggio.

Il Ruby è prodotto base, e come richiesto dalla tipologia è di colore squillante, fresco e fruttato, facile da bere ben più di quanto ci si attenderebbe da un vino sui venti gradi. Direi da servire a temperatura leggermente più bassa rispetto all’ambiente e magari da azzardare come aperitivo.

Il Tawny senza indicazione di età inizia a scaricare il colore e a regalare sensazioni di maggiore complessità dovute alla ossidazione. Straordinario il rapporto qualità/prezzo: viene via con meno di quindici euro.

Il primo millesimato è l’LBV 2005: il colore torna a caricarsi, la materia a farsi più densa, e l’olfattivo a riempirsi di frutta, sovrastando gli altri aromi. Intenso e lungo, sicuramente lo attende un invecchiamento importante.

Messo in mezzo al vino precedente e al Colheita che lo seguirà, il Tawny 10 anni non dico sfiguri, perché sempre di grande prodotto si tratta, ma risulta meno interessante, non del tutto a fuoco nella sua via di mezzo fra giovinezza e maturità.

Il Colheita 1997 è sicuramente la bottiglia che ho apprezzato maggiormente: caldo, aperto con evidenti richiami alle ciliege sotto spirito ma senza eccesso di alcol, fine, elegante e lungo. Ottimo vino, pronto da bere già adesso; in questo momento è il prodotto top.

La chicca finale è il Silval Vintage 2003: si tratta di un Vintage “base”, pensato per essere bevuto senza le classiche, lunghissime attese tipiche della tipologia, e che il produttore dichiara “dal frutto esuberante”. Ovviamente si beve bene e con piacere, ma direi che l’idea migliore sarebbe quella di lasciarlo da parte per qualche anno, in modo da poterlo gustare al suo meglio.

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Pouilly Fumé Domaine du Bouchot

Ho assaggiato questo Sauvignon in purezza, annata riportata in etichetta 2010, prodotto a Saint Adelain sulla Loira, zona vocata per la produzione del Poully Fumé. Il produttore Pascal si impegna nella coltivazione biologica di dieci ettari di terreno vitato nel quale produce anche Cuvée Regain (da uve leggermente sur mature) e Cuvée Prestige (macerazione sulle bucce). Sicuramente la composizione del terreno calcareo-argilloso delinea in modo marcato la struttura del vino. Al naso si sentono piacevoli sentori fruttati e floreali, ma è all’assaggio che si può apprezzare la nota minerale supportata da un ottima sapidità, caratteristiche queste due che lasciano pensare ad un equilibrio buono e duraturo, sicuramente un assaggio da ripetere tra un po’ di tempo.

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Le fole 2009, Cantina Giardino: il rustico del Sud

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 14 Euro]

Parliamo ancora di vini naturali, stravolta grazie all’assaggio di un vino per me del tutto inedito e anche lontano dal mio standard di bevuta, troppo spesso rivolto ai bianchi (o ai metodo classico) provenienti dal nord.

Le FoleIl vino in questione è un rosso del sud, prodotto dalla Cantina Giardino di Ariano Irpino in provincia di Avellino con uve100% Aglianico
Quella di Cantina Giardino è la bella storia di una famiglia e di un gruppo di amici che iniziano pochi anni fa a vinificare per autoconsumo in un garage, usando uva coltivata da altri, e in pochi anni riescono a comperare alcuni ettari e a diventare un piccolo interprete nel panorama dei vini naturali.
I vitigni utilizzati sono infatti del tutto autoctoni, e Cantina Giardino cerca di sfruttare quanto più possibile viti con oltre 30 anni di età (alcune persino a piede franco), rigorosamente coltivate in regime biologico e lavorate senza l’aiuto di mezzi tecnologici.

La bottiglia che ho stappato è “le Fole”, prodotta con lieviti autoctoni, senza alcuna chiarifica, nessuna filtrazione, niente solforosa aggiunta.

Il vino è di colore rubino, denso ma scarico; la parte migliore è l’olfattivo: intenso, di frutta rossa matura (ciliege, amarene), una lieve speziatura di pepe e di macchia mediterranea (rosmarino) e un accenno di volatile che vivacizza. Forse non elegantissimo ma vivo e godibile.

In bocca è caldo ma l’alcol non “picchia”, è pieno, carnoso, di buona freschezza; spicca una certa morbidezza che mi sorprende: date le premesse mi sarei aspettato più spigolosità.
Non del tutto a regime il tannino, non ben definito, leggermente impastato.

Un vino rustico, se si intende con questa definizione non come sinonimo di sgraziato ma di semplicità e schettezza da vero vino quotidiano, sia per il prezzo che per la bevibilità davvero scorrevole.

Abbinamenti: per me ha funzionato bene con dei ravioli di verdura con sugo di carne, ma credo possa essere un fedele compagno di tante consuete tavole giornaliere, curate ma senza troppe pretese.

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ONAV a Lavagna: buona la prima

Accademia dei saporiPrima uscita per ONAV nel Tigullio, precisamente a Lavagna, e direi un successo, visto che l’evento di venerdì 30 Novembre è stato replicato anche il giorno seguente a causa delle numerose richieste pervenute.

La struttura in cui si è svolto l’evento è l’Accademia dei Sapori, associazione che propone una vasta gamma di corsi dedicati all’enogastronomia, ed è ubicata una bella villetta in un parco facilmente accessibile.

Brunelli

Si trattava di una degustazione di 7 Brunello di Montalcino, condotta dal noto Franco Ziliani, giornalista di eno-cose da lunga data e tenutario di due blog a tema (Vino al vino e Le mille bolle blog).

I vini in assaggio erano:

Confesso la mia scarsa dimestichezza con il Brunello: il prezzo medio della denominazione e il mio gusto personale (sono più un “bianchista” e comunque non un grande amante del Sangiovese) mi hanno fatto frequentare poche bottiglie di questa importantissima DOCG; anche per questo motivo ero particolarmente curioso di immergermi nella panoramica.
Le indicazioni di Ziliani: il 2007 è stata una buona annata, non memorabile, abbastanza calda e quindi enfatizzante il fruttato e la dolcezza dei tannini, risultando in un vino subito piacevole e pronto.
Il 2004 è stato presentato anche esso come un millesimo non formidabile, ma comunque migliore.

BrunelliLe mie brevi note di degustazione, scegliendo quello che più mi ha colpito: tutti vini  territoriali e tradizionali (bel frutto di ciliegia, colori scarichi e no barrique, per capirci).
Fattoria dei Barbi è sembrato a tutti il più ruvido e scomposto, mentre Le Potazzine era forse il vino più pronto: molto pulito e fine (forse anche troppo precisino).
San Lorenzo è il 2007 che ho preferito: colore un poco più intenso della media, naso ben delineato, con la ciliegia matura in evidenza, ma anche una certa aromaticità. In bocca è estremamente fresco, sapido e ha un bel corpo pieno.
Poggio al Vento: un cru prestigioso che si presenta subito con un olfattivo decisamente più profondo dei vini precedenti, infatti occorre scomodare molti descrittori: ciliegia, floreale, speziato, selvatico e boschivo. All’assaggio risulta un tannino vellutato, finissimo e notevole freschezza. Un vino ancora giovane ma già importante.

Le conclusioni: direi che per una “prima volta” è andato tutto bene: la struttura è carina, magari un poco troppo piccola per eventi di questo tipo (da qui la necessità di replica) e l’aula poteva essere illuminata meglio, ma sono difetti veniali. Attendo con impazienza i prossimi appuntamenti.

Franco Ziliani

Una cenno sul relatore: Ziliani, ovviamente preparatissimo e profondo conoscitore sia del territorio che delle aziende, ha parlato per oltre un’ora e mezza a braccio, seguendo un percorso coerente e fruibile dai più e dai meno esperti, senza omettere un appassionato ricordo dei recenti scandali avvenuti nella denominazione. Bravo!

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Lenza, un Franciacorta outsider

Amo i vini bianchi e amo le bollicine.

Lo spumante metodo classico italiano per antonomasia è ormai il Franciacorta (ok, lo so che non posso usare i termini generici “spumante” e “bollicine”, e se Maurizio Zanella, il presidente del Consorzio per la Tutela del Franciacorta, dovesse leggere queste righe mi bacchetterebbe, ma ce ne faremo una ragione), anche se si potrebbe discutere a lungo su tante aziende di questa zona, sulle cuvée base di molti marchi blasonati e su prezzi mediamente non popolari.
Seriamente: l’espressione “Franciacorta”, caso unico nel panorama italiano, identifica un vino DOCG, un territorio (in provincia di Brescia, vicino alla parte meridionale del lago di Iseo) e un metodo di produzione (il famoso metodo classico della rifermentazione in bottiglia).

Nello specifico, la degustazione di questo venerdì presso la solita Cantina du Pusu di Rapallo, presentava la gamma di un produttore di Franciacorta tanto storico quanto poco noto al grande pubblico e non pervenuto sulle varie guide: l’Azienda Agricola Lenza.
L’azienda esiste dal 1967, è stata la prima della zona a produrre le tipologie rosé ed extra brut ed ha la particolarità di coltivare su colline terrazzate a circa 350 metri di altitudine.

E’ stata l’occasione per assaggiare un nuovo prodotto, il brut Levi: uno spumante bollicina metodo classico Franciacorta (contento, Maurizio?) da chardonnay 100%, fresco e facile, che staziona comunque 24 mesi sui lieviti (quando il minimo consentito dal disciplinare è 18), e che nelle preferenze di chi è intervenuto ha battuto il brut “storico” della casa, pure lui chardonnay in purezza, ma con 48 mesi di affinamento sui lieviti.

Terzo vino presentato, l’extra brut (chardonnay 90%, pinot bianco 10%, ben 72 mesi di affinamento), forse il prodotto che ho preferito: complesso ma non difficile, secchissimo (direi quasi un pas dosé), senza eccessi amarognoli nel finale, abbastanza lungo. Come si dice in questi casi, da berne a secchi.

Quarto vino, una tipologia che personalmente non amo ma che ha una sua nicchia di consumatori ben definita: il Saten (60 mesi sui lieviti). In realtà Lenza, non ho ben capito per quale motivo, lo chiama Cremant, ma di fatto la metodologia di produzione (chardonnay 100%, sovrapressione inferiore rispetto ai soliti 6 bar, leggero dosaggio) è quella appunto del Saten. Devo ammettere che, pur non essendo il mio territorio gustativo di elezione, la morbidezza non è eccessiva, impedendo di scadere nello stucchevole. Ad occhio, direi che è stato il preferito dal pubblico femminile.

Ultimo vino, il Rosè. Si tratta di un non dosato prodotto con una sorta di metodo solera da uve 100% pinot nero (e si sente per la pienezza del gusto, terroso e lampone in testa, e per il corpo decisamente presente). Io ho trovato anche un accenno di tannino, che da quanto mi dicono dovrebbe provenire non dal contatto con le bucce ma dal legno. Sicuramente un vino molto particolare, non adatto a tutti i palati e di certo da consumare pasteggiando, magari con pietanze sostanziose. Anche il prezzo non è per tutti: siamo sui 35 euro.

In conclusione, una bella gamma di vini, con prezzo adeguato (discutibile solo il rosé), nella quale riscontro una certa sovrapposizione tra i due brut, e non è difficile immaginare che a breve il secondo possa sparire per lasciare spazio al più fresco, differenziandolo meglio dal extra brut.

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Viognier Chateau du Trignon 2010: il vino boh…

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 13 Euro]

Perché ci piace bere il vino?

Ciascuno di noi ha le sue motivazioni, ma più o meno possiamo ricondurle al fatto che accompagna bene i pasti, è conviviale, affascina con i suoi colori, aromi e gusti, a volte (non nascondiamolo) si può gradire una leggera ebbrezza.
Per me, e credo anche per molti altri, c’è anche una fascinazione ulteriore: nel caso di annate particolarmente vecchie, il vino ha il potere di farmi pensare a chi ero e cosa facevo in quel millesimo, immaginare i luoghi di produzione e magari desiderare di visitarli.

Credo che sia per questo che amo particolarmente vini con una personalità più spiccata, talvolta magari imperfetti, ma in grado di raccontare una storia o perlomeno capaci di stimolare l’immaginazione. Spesso (ma non sempre e non esclusivamente) queste caratteristiche le ritrovo nel calderone di quelli che sono oggi definiti “vini naturali”, dove con questo termine si intendono genericamente vini prodotti con il minimo intervento umano in cantina e cercando di rispettare per quanto possibile la natura in vigna, anche a costo di rischiare l’annata storta o il difetto.

VIOGNIER 2010 CHATEAU DU TRIGNONQuanto sopra per spiegare perché ho qualche riserva (del tutto personale, sia chiaro) sul vino che di seguito cercherò di raccontare.
Non conoscevo il produttore ma avevo alte aspettative, credendo per vari motivi di trovare nel bicchiere il prodotto di uno dei rappresentanti di questa tendenza “naturale”, per giunta proveniente da una regione francese enologicamente importante come il Rodano, anche se il Rodano in questione è quello meridionale, meno blasonato e più noto per i blend da uve a bacca rossa che per un bianco 100% Viognier.

Appena lo ho assaggiato sono rimasto spiazzato e mi è saltata in testa la definizione di “vino boh”: tutto perfetto, un vino corretto, ben fatto, anche piacevole per carità, però impersonale, dal canonico giallo paglierino con riflessi verdolini e con intensità olfattiva abbastanza scontata di frutta (tropicale, direi ananas) e fiori bianchi.

In bocca è ben saporito, con un tocco di morbidezza ruffiana, sapido e fresco e di corpo e lunghezza discreti; azzarderei a descriverne una piacioneria un poco grossolana e sfacciata.
Insomma, un prodotto precisino che potrebbe provenire dal Rodano come da altre cento zone, con tutte le misure nella media ed esente da alcun difetto; tutto anonimamente “a posto”.

Sicuramente è un vino giovane, ed è possibile che con il tempo spunti fuori qualche nota evolutiva che lo possa caratterizzare maggiormente, ma non mi sento di scommetterci sopra.
In definitiva, un vino che non posso non definire buono, ma che consiglio solo a chi preferisce una bevuta garbata, senza avventure.

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Dinavolo 2006: estremismo al potere

“Orange wine” è la definizione appioppata a quei vini prodotti da uve a bacca bianca che, a causa della lunga macerazione sulle bucce (di fatto, una vinificazione in rosso), hanno ottenuto caratteristiche particolari come ad esempio colore aranciato, corpo rilevante, una certa carica tannica e un corredo aromatico ben particolare.
Tale pratica, cui indulgono solitamente i produttori della cosiddetta stirpe “naturale” (minori interventi possibili sia in vigna che in cantina), non è in realtà nulla di nuovo, anzi semmai il recupero di una lunga e antica tradizione contadina, integrata con le moderne attenzioni e conoscenze.

DinavoloUno dei campioni della categoria dei pesi massimi di questa strana federazione è il Dinavolo della azienda Denavolo (sul serio, non ho sbagliato a scrivere); siamo in provincia di Piacenza, le vigne si trovano ad altezza di circa 500 metri, sono condotte biologicamente, di varietà bianche tipiche della zona come malvasia, ortrugo, trebbiano eccetera.
In cantina, ovviamente lieviti autoctoni, lunghe macerazioni, nessuna aggiunta di solforosa, no al controllo della temperatura, addirittura nessun travaso e filtrazione

Quindi come è questo Dinavolo, quando ha alle spalle ben sei anni di invecchiamento?
Il colore è pazzesco, ambra brillante come se fosse un Sauternes, e il naso è intenso di frutta disidratata e fichi secchi, poi terziari di smalto per unghie e persino un filo di formaggio. C’è una leggera acidità volatile, che è poi una caratteristica di questi vini e, quando ben controllata come in questo caso, contribuisce a renderli vivi e dinamici.

In bocca entra dolce sulla punta della lingua, poi arrivano enormi l’acidità e la sapidità, è freschissimo e sicuramente tannico. Caldo. salmastro, lungo.
Date le altre caratteristiche ti aspetteresti un corpo più potente, invece è ben presente, ma certo non un mattone.

Abbinamento difficile: direi formaggi di media stagionatura o carni speziate, oppure in solitaria, dopo il pasto. Rigorosamente a temperatura ambiente o poco più fresco: il freddo estremizza il tannino e lo rovina inesorabilmente.

Alla fine non si può certo definire fine, composto o addirittura bere da tutti i giorni; semmai un vino affascinante, scorbutico, unico, imperfetto e complesso. Da provare, se si ha il palato avventuroso.
Sui 25/30 euro in enoteca.

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Rossese Anfosso: piccola Borgogna in Liguria

Bella degustazione, quella di ieri presso la Cantina du Pusu di Giovanni Tassara.
Protagonisti dell’ennesimo appuntamento del fine settimana in avvicinamento al Natale , sono stati i Rossese di Tenuta Anfosso.

Tenuta AnfossoFaccio mea culpa: non ho mai dato l’importanza dovuta a questa DOC, forse perché è un nome dal blasone meno scintillante rispetto ad altre denominazioni, forse perché (come spesso accade) ci si interessa più facilmente alle cose lontane rispetto a quelle sottocasa, certamente perché per indole sono più appassionato di vini bianchi.

Sbagliavo, perché la realtà di provenienza è affascinante: territorio impervio, piccole aziende, coltivazione tradizionale ad alberello, vigne spesso decisamente vecchie o antiche (nel caso di Anfosso alcune piante risalgono addirittura al 1888); in aggiunta, le notevoli differenze territoriali e di microclima, danno vita ad una serie di cru dalle caratteristiche particolari ed uniche.
Soprattutto sbagliavo perché la batteria di Anfosso di ieri era addirittura entusiasmante.

Due note al volo sul produttore: 4 ettari di terreno per circa 20.000 bottiglie, coltiva due cru (ma ci ha raccontato di aver appena acquisito un terzo): Luvaira e Poggio Pini. Vinificazione in acciaio con temperature controllate.

I vini assaggiati:

  • Rossese di Dolceacqua 2011
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2010
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2010
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2009
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2008
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2008
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2007
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2007
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2006

Tenuta AnfossoLa traccia comune è quella di vini di grande finezza ed enorme bevibilità, con bei colori vivi e mai concentrati, aromi ricchi di speziatura, tannini mai aggressivi e acidità e sapidità spiccate ma mai fuori controllo: vini di grande equilibrio, finezza ed armonia, certamente perfetti per pasteggiare, pronti fino da subito ma capaci di buon invecchiamento.

Alcuni dettagli dei vini che mi hanno dato più emozione: Il 2010 in entrambi i cru, in particolare il Luvaira, è di beva irresistibile, perfetto già da ora, promette di diventare un campione. Da comperare e dimenticare per alcuni anni, se possibile.
I 2008 risultano essere i più muscolari del lotto, ed iniziano ad evidenziare più nettamente le differenze dei due cru: più “dritto”, fresco, scattante il Luvaira, più evoluto, complesso, ricco il Poggio Pini.
Nel 2007 la distinzione dei due vigneti è nettissima, e, a mio modo di vedere, regala la vittoria al Luvaira, che abbina acidità e mineralità di un ragazzino alla complessità aromatica di un vino evoluto. Grande vino.
Interessantissimo il Poggio Pini 2006:decisamente evoluto, presenta precisa coerenza tra colore granato e gusto-olfattivo ricco di terziari; azzarderei un vino già da dopo pasto.

Da non trascurare: vini così godibili sono acquistabili a prezzi del tutto abbordabili.

 

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Malvasia Skerk: il Carso in bottiglia

Malvasia Skerk

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu nell’ambito della iniziativa “15 recensioni in cerca di autore”. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 20 Euro]

Malvasia SkerkChi legge malvasia non si aspetti un vino dolce, o comunque docile e arrotondato, che qui siamo nel cuore del duro Carso e Skerk è una azienda priva dei bollini bio-tutto tanto di moda ma sicuramente legata ad una produzione veramente tradizionale: circa 20.000 bottiglie l’anno, in vigna vengono usati solo zolfo e rame. in cantina si svolgono lunghe macerazioni in tini aperti, nessun controllo della temperatura, nessuna chiarifica e filtrazione, si usano solo lieviti autoctoni e si limita al massimo la solforosa.

Ne deriva un vino giallo paglierino carico, con una lieve velatura dovuta alla mancanza di chiarifica, all’olfatto abbastanza intenso e di buona complessità: sicuramente minerale (salmastro); si percepisce un tocco di floreale e distintamente la nespola; attendendo e scaldandolo arriva il balsamico e si rivela la aromaticità varietale della malvasia, che sfuma in frutta candita.

In bocca è secchissimo; buona la freschezza, ma a risaltare è la enorme sapidità, evidente richiamo al territorio.
C’è anche un leggero tannino, evidentemente donato dalla lunga macerazione sulle bucce.
L’unico limite che ho riscontrato è una certa carenza di corpo, che, se da un lato rende la bevuta facile nonostante i 13,5 gradi, ne mortifica un poco le grandi potenzialità.

Solitamente sono restio ad usare l’aggettivo “territoriale”, che sembra essere diventato uno degli eno-mantra del periodo, ma se esiste un vino-specchio del suo terroir, di una terra dura, povera e sferzata dal vento, lo è questa Malvasia, che si rivela vino molto interessante, in grado certamente di farsi bere con piacere dai consumatori occasionali, ma soprattutto di raccontare storie e immagini ai bevitori più attenti.

L’abbinamento consigliato sul sito è pesce e carni bianche; secondo me, il grado alcolico e la lieve carica tannica fanno pensare anche a zuppe di pesce o formaggi di media stagionatura.
Direi di servirla appena fresca, per non mortificare lo spettro olfattivo e non indurire il tannino.

 

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