Tornasole 2004, Tenuta Grillo

Avevo assaggiato qualcosa di Tenuta Grillo in varie manifestazione ma non avevo mai approfondito granché, così, visto che ero in zona, il mese scorso ho visitato la cantina in modo da avere una panoramica più completa dei vini proposti.

Prima di descrivere il Tornasole, qualche accenno sulla azienda. Dopo qualche difficoltà di orientamento (ragazzi, inserite un Google Maps sul sito, please…), sono stato ricevuto dalla gentilissima Igea, torinese, co-titolare della azienda e moglie di Guido Zampaglione, campano emigrato al nord per cercare un territorio adatto alla sua idea di vino, territorio finalmente trovato in 32 ettari (di cui 17 vitati) a Gamalero, vicino ad Alessandria.

La filosofia aziendale, chiaramente influenzata dal maestro di Guido, quel Giulio Armani direttore di produzione de La Stoppa e lui stesso vigneron (Denavolo), è improntata al movimento dei cosiddetti “vini naturali” (minimo interventismo in vigna e in cantina, macerazioni, lunghi invecchiamenti, no alla solforosa eccetera), e lavora un territorio pianeggiante e sabbioso, situato a circa 200 metri di altitudine.

Tornasole

Denominazione: Vino da Tavola
Vino: Tornasole
Azienda: Tenuta Grillo
Anno: 2004
Prezzo: ? (comperato in azienda assieme ad altre bottiglie, dovrebbe essere sui 15 euro ma potrei sbagliare)

Abbastanza curiosa la scelta di coltivare e vinificare il Merlot, visto che normalmente i pasdaran del naturalismo rifuggono i vitigni internazionali come la peste, ma a me la scelta mette simpatia per il suo andare controcorrente.

Colore rubino ben vivo e concentrato, con l’unghia che vira addirittura ad accenni porpora: grande dimostrazione di giovinezza per un 2004. Accenno di riduzione all’apertura, che fortunatamente svanisce dopo qualche minuto, lasciando spazio ad un olfattivo intensamente dominato da una volatile francamente al limite (e lo dice uno a cui solitamente non disturba…), tanto da coprire i più canonici descrittori di frutta rossa matura e sotto spirito. Un naso che da principio sembra vivace, ma poi non evolve e resta abbastanza monocorde.

In bocca è secco, caldo e morbido, con una buona spinta acida e un tannino leggermente sfocato. C’è corpo, e il vino risulta decisamente pieno e polposo, intenso e anche equilibrato; chiusura non troppo lunga e con un accenno amaro, che mi ricorda il caffè, un po’ fuori posto. Sicuramente meglio in bocca che al naso, dà l’idea di poter migliorare con ulteriore invecchiamento.

Quanto sopra è il resoconto del giorno in cui è stato stappato; a sorpresa, ma forse neppure troppo, il giorno seguente si la nota volatile sembra meno invadente, cresce il frutto e fa capolino qualche accenno di speziatura. In parole povere, migliora nettamente.

Degno di elogio l’uscire sul mercato oggi con un 2004 ad un prezzo decisamente abbordabile, considerato il lungo affinamento.

Il mio giudizio personale è quello di una discreta bottiglia, che vorrebbe essere estremamente personale (come si usa dire oggi con una frase che odio cordialmente, “interpretando il terroir”), ma manca proprio proprio nell’intento della unicità, a causa del relativo appiattimento dell’olfattivo.

Questa perplessità su una relativa mancanza di identità dei vini la riscontrerò più o meno anche nelle altre tipologie prodotte e di cui conto di scrivere in seguito, mano a mano che berrò quanto comperato: in generale, stappi e pensi che si tratta di un vino naturale ed è molto riconoscibile la mano di Armani (intesa come scuola); il mio timore è che la metodologia produttiva utilizzata per sfuggire alla omologazione dei tanti vini “perfetti” e “comuni”, risulti in questo caso estremamente (troppo?) caratterizzante.

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Slowfish 2013: impressioni di sfuggita

Alla fine ci sono andato, a Slowfish 2013. Per una serie di casini personali pensavo di non farcela, ma visto che avevo prenotato un Master of Food (diobuono, ma un nome meno pomposo non riescono proprio a inventarselo? C’è quasi da vergognarsi a ddirlo: “Dove vai?”, “Eh, c’ho un Master of Food…”, “Mavaff…”), mi sono ritagliato una mattinata.

Nuova ubicazione (area del Porto Antico invece che la Fiera del Mare), e conseguenti ingresso libero (bene!) e mancato tetto sopra la testa in caso di maltempo (male, ma fortunatamente non ha piovuto).
Ho avuto l’impressione di un minor numero di espositori rispetto all’ultima volta, ma potrei essere stato ingannato dalla ampiezza dell’area; di sicuro la crisi si è fatta sentire: una vocina mi ha detto che il prezzo richiesto agli espositori per uno stand è diminuito, e anche la scelta di non far pagare il biglietto ai visitatori immagino sia dovuta a questo…

Ho fatto un giro veloce, quindi butto giù poche note e pure confuse.
Il famigerato Master of Food conferma le bieche impressioni di collusione Petrini-Farinetti, infatti viene tenuto in una delle aule corso di Eataly. Nulla di nuovo, per carità, è ben noto che Slow Food e Eataly collaborino su vari progetti, ma francamente mi pare che la liason stia andando troppo oltre e che gli obbiettivi prettamente commerciali di Eataly (seppure ammantati di etica) facciano fatica a quagliare dignitosamente con le linee guida di Slow Food.
Ad ogni modo, il Master of Food è organizzato con precisione teutonica: la lezione è ripresa con una telecamera in modo da mostrare i dettagli su due grandi schermi, permettendo una visuale chiara a tutti i corsisti, ogni partecipante ha la sua postazione dignitosamente spaziosa e con tutto il necessario e viene anche omaggiato (oltre che di taccuino e matita) di due bei libri sull’argomento. A fine lezione, si mangia quanto preparato e si esce felici.

Il rapido giro per l’area espositiva è un mix di sensazioni: ci sono gli stand educativi su vari argomenti, e c’è anche tanto mercato (che poi, diciamocelo, è quello che interessa la massa dei visitatori), talvolta anche poco in tema con l’argomento (un esempio? Il venditore di olive ascolane lo vedo sia a Cheese che qui… che ci azzecca?), ma alla fine è sempre bello cazzeggiare tra i cibi, assaggiando un sacco di cose buone e facendo qualche parola con i produttori.

Spendo una riga per gli amici di Maltus Faber, che non vedevo da tempo e che erano presenti, oltre che con le “solite” Blond Hop e Bianca (pulitissime e piacevolissime), con un nuovo prodotto, una Sweet Stout da neppure quattro gradi che gioca tutta sulle finezze (di tostatura, di luppolatura, di carbonatazione; anche il corpo, spesso robusto in questa tipologia, è ben bilanciato) e che mi è sembrata una ottima session beer. Sarà disponibile solo in fusto, e spero di riassaggiarla a breve con più calma, con un bicchiere di vetro al posto della orrida pinta in plastica imposta in queste manifestazioni.

Nota di demerito per l’Enoteca. A parte qualche bottiglia presente in elenco ma in realtà non pervenuta, il prezzo degli assaggi è davvero eccessivo (bicchieri da 3, 4 o 5 buoni, ciascun buono costa 1 euro, in più occorre aggiungere il solito costo del calice), in particolare tenendo conto che non c’è uno grissino disponibile, che non ho visto acqua per pulire la bocca tra un assaggio e l’altro e che non siamo in una vera enoteca (non c’è servizio al tavolo e i posti a sedere sono abbastanza pochi, perlomeno a certe ore del giorno).

Appuntamento a settembre per Cheese!

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Cheap Thrills n.4: Soave Classico Calvarino 2010, Pieropan

Quarto appuntamento con i vini di Cheap Thrills e si risale lo Stivale fino ad arrivare in provincia di Verona, per assaggiare uno dei Soave Classico più noti, quello prodotto dalla azienda Pieropan.

La zona di Soave presenta un interessante terreno di origine vulcanica su cui si coltiva principalmente Garganega (da utilizzare almeno al 70%, secondo disciplinare, con eventuali saldi di Chardonnay e Trebbiano), un vitigno che recentemente è stato oggetto di grande rivalutazione da parte di molti vigneron della “nuova ondata naturale” (Maule, ad esempio), che lo vinificano con macerazione sulle bucce più o meno intensa.

calvarino

Il Soave è una di quelle denominazioni “storiche” un po’ trascurate dagli appassionati, forse a causa di una qualità media non eccelsa in passato; a questa relativa dimenticanza Pieropan (39 ettari che producono circa 380.000 bottiglie ogni anno) si oppone con una tradizione centenaria, una costante ricerca della qualità e ben tre versioni di Soave Classico, il vino simbolo della azienda: una più semplice e giovane e due crus, Calvarino e La Rocca.

Oggi assaggiamo il Calvarino, che deriva il nome dal “piccolo Calvario” del terreno difficile e tortuoso.
I dati tecnici: terreno vulcanico a 200/300 metri di altitudine, ricco di basalti e tufo; allevamento a pergola con viti di età da 30 a 60 anni e raccolta manuale. Fermentazione in vasche di cemento vetrificato con temperatura controllata, poi maturazione sempre in vetrocemento.

Denominazione: Soave Classico DOC
Vino: Calvarino
Azienda: Pieropan
Anno: 2010
Prezzo: 15 euro

Francesca

Marco

Ho scelto questa bottiglia dietro consiglio di Giovanni il nostro (mio e di Marco) “cantiniere” di fiducia e grande conoscitore di vini.

Quando mi ha proposto il Soave ho pensato che effettivamente era da  tempo che non ne assaggiavo uno, e che non si trova nella lista dei miei preferiti ma il panorama vinicolo è davvero molto vasto, principalmente per tutte le variazioni che dipendono dall’intervento del produttore e dall’impronta che decide di voler dare al proprio prodotto.

Ho quindi deciso  che sarebbe stato il protagonista di questo nostro appuntamento.

Il giallo paglierino di questo Soave ha ancora riflessi verdolini che indicano un vino ancora giovane, l’anno riportato in etichetta è il 2010.

I profumi sono delicati e ricordano il ciliegio e in generale la famiglia dei fiori bianchi dando al vino una nota leggermente dolciastra al naso.

L’entrata è piacevole, buona la sapidità e la freschezza, mi sento di premiare di più il gusto rispetto all’olfatto che forse è un po’ limitato. Unica nota spiacevole una leggera e appena accennata rifermentazione in bottiglia che sparisce al secondo sorso.

Mi mette di buonumore già dalla bottiglia renana, che mi ricorda i rielsing. Il colore ha pure lui accenni nordici, con un paglierino bello brillante ed accenni dorati.

L’ofattivo non è né intenso né troppo complesso, ma estremamente delicato ed elegante: sento fiori bianchi freschi, l’agrume (ananas) e un tocco minerale.

In bocca entra pieno, ricco, caldo e abbastanza morbido; freschezza e sapidità ci sono, in particolare l’acidità è robusta, ma senza essere predominante come mi sarei aspettato date giovinezza e colore, quindi l’equilibrio è davvero perfetto.
Sorso piacevole e facile nonostante il calore (che avrei detto superiore ai 12,5 dichiarati), con un amarognolo finale appena accennato e una volta tanto piacevole, che serve a pulire la bocca e a riprendere a bere. Finale lungo.

In conclusione: un vino apparentemente semplice ma ben fatto, che si beve in maniera contagiosa, e che definirei duttile nell’abbinamento, dall’aperitivo al pesce, dalle torte di verdura ai dai risotti.

Partivo senza aspettative a causa della limitatissima frequentazione con i Soave, e sono stato piacevolmente sorpreso. Molto meglio in bocca, mentre l’olfattivo è un poco sacrificato.

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Haderburg Brut: solide certezze

Denominazione: Alto Adige DOC
Vino: Brut
Azienda: Haderburg
Anno: –
Prezzo: 18 euro

haderburg brutA volte capita che hai voglia di bolle (vabbè, “a volte” è un eufemismo: hai sempre voglia di bolle) ma non vuoi spendere una fortuna e non vuoi fare esperimenti rischiosi.
Ecco, sono queste le situazioni tipiche in cui c’è un nome che non tradisce: Haderburg.

Azienda di Salorno che possiede circa 5,5 ettari di vigneti coltivati a Chardonnay, Pinot Nero e Sauvignon, distribuiti su 350 – 500 metri di altitudine e condotti in biodinamica, Haderburg produce una ampia gamma di vini fermi, bianchi e rossi, assemblaggi e monovitigno, ma è famosa in particolare per i suoi metodo classico: il Brut base, il Rosè, il Pas Dosé e l’Hausmannof (una riserva millesimata di chardonnay, prodotta in numero limitato di bottiglie, solo in annate particolari e con 96 mesi di affinamento sui lieviti).

Si diceva di bolle ad alto rapporto qualità-prezzo, e il Brut base è perfettamente in linea con questa richiesta.
Brevemente, i dati tecnici: prodotto con rese di circa 60 quintali per ettaro, 85% Chardonnay e 15% Pinot Nero, fermentazione e affinamento in acciaio, 30 mesi sui lieviti, malolattica non svolta.

Aspetto giallo paglierino brillante, con bolle sottili e molto numerose; olfattivo lieve, con descrittori canonici di crosta di pane, agrume e fiori bianchi, non complesso ma finemente piacevole.

In bocca entra pieno, secco e intenso, con bella freschezza ma non tagliente; il dosaggio è fortunatamente poco avvertibile: i 5,5 g/l dichiarati sono ben bilanciati.
Sul palato tornano i sapori avvertiti al naso, e in aggiunta c’è un ricordo di miele.
La bolla è vivace senza essere aggressiva, e c’è corpo; il finale non troppo lungo e leggermente amaro è l’unico punto debole della bevuta.
Ho notato che funziona bene anche ad una temperatura di qualche grado superiore a quella consigliata per i vini spumanti.

Un metodo classico di montagna e che ricorda la montagna: verticale, duro senza essere estremo come certi Pas Dosé, riesce quindi piacevolmente bevibile a tutti, appassionati e non; una bottiglia con cui andare sul sicuro, mai trovata in condizioni meno che buone, meno piaciona e più di sostanza rispetto a tanti Franciacorta base che giocano nella stessa categoria.

Degna di nota in retroetichetta la data di sboccatura: dateci una occhiata prima di procedere all’acquisto, e scegliete un prodotto piuttosto “fresco”.

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Flavio Roddolo, ritratto di vignaiolo in Langa

E’ ora di distruggere quel briciolo di reputazione che mi resta e diventare definitivamente un eno-paria; confesso i miei peccati facendo coming out e dichiarandolo pubblicamente: a me, spesso, la mitizzata “visita in cantina” provoca una noia degna della visione coatta di un paio di puntate di Porta a Porta.

Ti emoziona vedere l’ennesima linea di imbottigliamento? Ti interessa davvero la lista dei materiali eco-compatibili con cui è stata costruita la cantina all’avanguardia di turno?
No, perché diciamolo: sovente la routine è: occhiata alla vigna (che avevi visto altrettanto bene prima di suonare il campanello), giro in cantina, banco di assaggio, acquisto. Fine, per fortuna.
Il tutto condito da qualche massima che già conoscevi, avendo letto tutto del produttore su varie guide e siti, e da molti sbadigli.

Vado oltre, e confesso anche di non avere il mito della campagna e dei bei vecchi tempi andati, dei quali sembrano nutrirsi molti appassionati di vino, magari mentre vanno in pellegrinaggio in Borgogna con l’aereo o con il SUV.
Mi spiego: nulla in contrario alla tradizione e ai suoi riti, ma non posso dimenticare che lo stato di natura dell’uomo è vivere (temo in modo non particolarmente piacevole) prima nelle grotte e poi sulle palafitte, dove non mi risulta fossero disponibili salotti con cantinetta termo-condizionata e umidificata per conservare bottiglie di Monfortino.
Insomma, la tanto bistrattata modernità direi che qualche progresso ce lo ha fatto fare: mio nonno, uomo mite e nato contadino, quando sentiva recitare il classico luogo comune “come si stava bene una volta in campagna, quando non avevamo niente”, si incazzava e rispondeva che la vecchia cascina era disponibile e potevano andarci quando volevano sul monte, senza corrente elettrica e senza acqua in casa, a soffrire il freddo e a sfamarsi con la polenta tutti i giorni.

Roddolo vigne 2Tutto questo lungo preambolo, che spero perdonerete, per dire che nei giorni scorsi sono stato da Flavio Roddolo, produttore di nicchia assai raccontato e mitizzato in certi ambienti (Scanzi in primis), e che quando mi avvicinavo da Monforte verso la Frazione Sant’Anna, Bricco Appiani, stavo cercando di far chiarezza nelle mie aspettative.
Avrei trovato l’ennesima declinazione del Contadino All’Antica con la tv satellitare? O del Vignaiolo Etico che ti racconta di come ama api e insetti nei filari?

Poco tempo per riflettere, appena metto piede fuori dall’auto sbuca fuori casa un omone barbuto, insospettito dal rumore di automobile; una stretta di mano frettolosa e mi chiede se voglio vedere la cantina (che poi sarebbero due: una, quella vecchia, un piccolo antro con ammassate alcune barrique e un paio di scaffali di bottiglie vecchie, e l’altra più grande e nuova, tanto umida da avere il pavimento praticamente zuppo e pericolosamente viscido).

Roddolo Cantina 3Le parole arrivano con parsimonia e sincerità; sono quelle con cui l’omone risponde alle domande: le barrique le ha sempre usate perché ha poca uva e a volte le botti grandi sono, appunto, troppo grandi ed è un problema, e le vecchie bottiglie le conserva in piedi perché le avevano messe via così, non pensando di conservarle per venti, trenta o quaranta anni, e insomma perché spostarle?
Una breve sosta all’aperto, dove mi mostra fin dove arrivano i suoi vigneti e poi, lamentandosi della temperatura che non gli consente di imbottigliare il dolcetto, entriamo in casa per assaggiare qualcosa.

Roddolo Cantina 1Così sorseggi, scaldandoti dal freddo di una giornata che appartiene più all’inverno che al mese di Aprile, davanti ad un signore dall’aria severa, che ti fa accomodare, ti serve bicchierate pantagrueliche del suo vino (senza raccontartelo: grazie a Dio non spende una parola su mineralità, acidità, terroir e lieviti), dimentica di porgerti il cestino con i grissini, e magicamente (ma tutto sommato non del tutto inaspettatamente) si mette a parlare di mille argomenti, come se infondo gli facesse quasi piacere averti in visita, e infatti ti tiene oltre due ore nelle quali ti getta dei frammenti di verità, raccontando di come, ai tempi di suo padre, al mosto si aggiungesse talvolta zucchero e/o sale, del rifiuto di andare alle varie manifestazioni (“sono stato tre o quattro volte al Vinitaly, me lo avevano chiesto degli amici, ma dopo qualche ora me ne sono andato. Adesso non vado più, ho troppo da fare.”), della passione per la caccia (trascurata), della difficoltà burocratiche e legislativa di poter assumere aiutanti e soprattutto, con un pizzico di commozione, delle tre bottiglie di dolcetto del ’67 che ha ritrovato recentemente (forse il suo primo vino; una dice di averla stappata da poco e di essersi stupefatto trovandolo ancora perfetto).

Ancora, si apre senza problemi raccontando del perché delle vigne di cabernet (“negli anni ’90 lo volevano tutti”), della assurdità della moda con cui si insiste sulla solforosa, mentre magari si assaggiano in batteria 100 vini, e invece il vino è fatto per essere bevuto poco e durante i pasti, altrimenti fa male, e delle repentine conversioni al biologico di tanti colleghi, avvenute in cinque minuti, mentre lui per eliminare gli insetticidi ci ha messo anni.

Prima di congedarti, ti offre un bicchiere di bianco da uva Favorita che ha fatto per lui,  dice che lo ha lasciato in damigiana per 10 anni(!) (“continuava a fermentare, lo ho lasciato andare e poi l’ho dimenticato”) e lo ha imbottigliato da poco, dopo averlo portato ad analizzare per curiosità.
Ovviamente è meraviglioso: oro, aromatico, caldo, fresco, pieno, mi ricorda alcuni importanti friulani, e solo in questo momento, per un attimo, pensi che forse ti stia prendendo in giro, che non è possibile, e che forse ti ha ingannato con una recita ben architettata; poi lo vedi con quella faccia, dura ma gentile e tranquilla, e passa subito.

Comperi le tue due cassette di vino, paghi e te ne vai a pranzare, che è quasi l’una. Tornerai tra 10 minuti perché hai dimenticato la macchina fotografica: dovrai suonare a lungo e verrà ad aprirti in tuta da lavoro: “Come, non mangia?”. Risposta: “Eh, c’è da fare”.

Roddolo vigne 1Ah, I vini?
Fate voi, non ho certo tirato fuori il libricino per prendere appunti, mi sarei sentito oltremodo ridicolo e imbarazzato; ad ogni modo, sarà stata la suggestione della Langa e del personaggio, ma mi sono sembrati tutti speciali, dal Dolcetto superiore (senza dubbio il dolcetto più piacevole e particolare mai assaggiato, pur restando invidiabilmente austero), passando per la ricca freschezza della Barbera e per uno stupefacente Nebbiolo, sicuramente ben superiore a tanti Baroli rinomati e di ben altro prezzo, per finire con il Barolo (che, pur implorandoti di esser messo via per altri dieci anni, è già godibile fin d’ora) e con il Cabernet (di grande spessore e complessità, dal quale emerge un varietale netto ma non stucchevole).

La prima conclusione è che Roddolo non è un sofisticato gentiluomo di campagna o un vignaiolo furbamente affabulatore, semplicemente è un contadino che sembra davvero amante della sua campagna e che ci tiene a fare un buon vino, e l’unico metodo che considera adatto per produrre le sue ventimila bottiglie l’anno è quello che ha visto usare da suo padre.

La seconda conclusione è che confesso un leggero moto di imbarazzo nello scrivere queste righe: cosa c’è di più distante della moderna vanità di un blog personale dalla imperturbabile semplicità di un vignaiolo che ancora possiede un vecchio telefono, di quelli della SIP, grigi e con la rotella per selezionare i numeri?

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Monzinger Halenberg Spatlese 2007, Schäfer-Fröhlich

Schäfer-FröhlichDenominazione: Riesling Spatlese
Vino: Monzinger Halenberg
Azienda: Schäfer-Fröhlich
Anno: 2007
Prezzo: 25 euro

Ogni tanto non posso fare a meno di tornare a sorseggiare un vecchio amore: il riesling renano (qui la mia minimale guida alla classificazione), e questa volta in particolare lascio alcune righe su un vino proveniente dalla regione della Nahe, forse meno nota e prestigiosa rispetto alla blasonata Mosella.

Schäfer-Fröhlich produce dal 1800, ha circa 13 ettari di terreno e vinifica in acciaio.
Il vino assaggiato viene dalla vocata collina Halenberg nel comune di Monzinger, uno dei più antichi a tradizione vinicola della Nahe.

Colore paglierino lievemente tendente al dorato, di buona consistenza visiva.
Pur non essendo un millesimo particolarmente remoto, al naso già spiccano l’idrocarburo e il minerale (zolfo, pietra focaia, lieve affumicato), e fa capolino la mela, che stranamente non sembra particolarmente acerba, come spesso capita con i riesling, ma anzi piuttosto matura.
Non particolarmente complesso e forse neppure del tutto elegante (quello zolfo…), ma così curioso e divertente da costringere a continuare ad annusarlo.
In bocca entra pieno, denso, e tutto sommato anche leggermente caldo nonostante la gradazione assai limitata.

La dolcezza ricorda il sidro di mele, ma per fortuna si rincorre e si bilancia con il pizzicore della spiccata freschezza, rendendo il sorso un vero piacere, anche per la buona lunghezza.

Si beve benissimo già adesso, visto che i sentori particolari dei riesling invecchiati si sono già sviluppati, ma di certo c’è ancora spazio per farli crescere e affinarli nel tempo.

Soliti abbinamenti da riesling (antipasti e primi di pesce e crostacei), ma a me piace finirlo anche in solitaria.

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Cheap Thrills n.3: Greco di Tufo, Cantine dell’Angelo

Saltellando tra Nord e Sud, dopo Alsazia e Sicilia, per Cheap Thrills è il momento di fermarsi in Campania.

Greco di TufoL’azienda Cantine dell’Angelo, situata, è facile intuirlo, a Tufo (provincia di Avellino), è condotta da Angelo Muto, la cui famiglia produce vino da diverse generazioni ma che solo recentemente ha deciso di vinificare in proprio, peraltro ottenendo subito soddisfazioni e riconoscimenti con il Greco di Tufo.

La particolarità dei cinque ettari di vigneto è di crescere a circa 400 metri di altezza (quindi subendo decise escursioni termiche) sul suolo di una vecchia miniera di zolfo, cosa che molto probabilmente incide in maniera evidente sul profilo sensoriale, nettamente minerale, delle circa 18.000 bottiglie di vino prodotte ogni anno; la raccolta delle uve è manuale, data la pendenza del terreno, e la vinificazione è effettuata in acciaio.

Denominazione: Greco di Tufo DOCG
Vino: Greco di Tufo
Azienda: Cantine dell’Angelo
Anno: 2010
Prezzo: 14,5 euro

Francesca

  Marco
L’assaggio di questo mese vede protagonista il Greco di Tufo Cantine dell’Angelo.

Nel bicchiere un bel giallo paglierino invita subito all’assaggio ed evoca il sole che abbraccia questi vigneti e la sua terra.
Al primo naso una nota minerale spicca per franchezza e intensità, va a completare il bouquet dei profumi non troppo ampio ma fine un piacevole sentore fruttato. La mineralità tipica del vitigno è sicuramente rafforzata dalla composizione del terreno che è particolarmente ricco di zolfo, e che fa sentire la sua presenza nel bicchiere declinando in profumi che vanno dalla pietra focaia all’idrocarburo.

All’assaggio mi rendo conto della buona struttura di questo Greco di Tufo. Equilibrio sensoriale ben tenuto tra sapidità e freschezza, ottima anche la pai (persistenza aromatica intensa) che non lascia la bocca prima di diversi secondi regalando un finale lungo.

La freschezza il buon equilibrio e la sapidità ne fanno un vino assolutamente tipico.

Nel bicchiere è bello da vedere, con un giallo paglierino quasi dorato, intenso, e di buona consistenza.
Al naso delude leggermente: è poco intenso e non particolarmente complesso: domina il minerale, anche lievemente affumicato, con fiore e frutto poco presenti; in fondo scorgo un leggero vegetale (erbaceo) non del tutto a registro.
Entra in bocca bene, pieno, caldo e decisamente sapido e all’assaggio emergono sensazioni pietrose e di pompelmo; purtroppo la parte centrale del sorso è un po’ vuota, come se le durezze non fossero supportate completamente dal corpo.
Si beve comunque con facilità, l’alcol è ben mascherato e il calore si amalgama convinto con sapidità e acidità, che restano decisamente preponderanti.
La chiusura è leggermente amarognola e il finale è abbastanza lungo: direi che nel complesso il sorso è intenso e piacevole.
Lo definirei tranquillamente pronto, anche perché un certo squilibrio verso le durezze (che, temo, col tempo potrebbero attenuarsi) è motivo della sua caratteristica piacevolezza.

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Oslavje 1997, Radikon: sapida naturalità

Denominazione: DOC Collio
Vino: Oslavje
Azienda: Radikon
Anno: 1997
Prezzo: 30 euro

radikonOggi che è di moda parlare di vino naturale, biologico, biodinamico eccetera, sorge il sospetto che molti produttori che si avvicinano a queste metodologie lo facciano non tanto per convinzione, quanto per il (legittimo, per carità) intento commerciale di cavalcare l’onda.
Di certo, quanto sopra non si può neppure lontanamente immaginare per una azienda come Radikon, che già dal 1995 ha deciso di radicalizzare il proprio metodo lavorativo sia in vigna che in cantina: ecco dunque il rifiuto di concimi chimici, rese bassissime nel vigneto, vendemmia manuale, fermentazione con soli lieviti autoctoni e senza controllo della temperatura, macerazioni molto lunghe (anche per i vini bianchi), nessuna filtrazione e nessuna aggiunta di solforosa; su questa base, Stanislao Radikon ha poi modificato e affinato il processo, ad esempio variando anche notevolmente il tempo di permanenza sulle bucce.

Ne risultano vini certamente particolari e senza compromessi, che se oggi, dopo anni di discussione e di allenamento ai “vini naturali”, possono forse essere compresi con relativa facilità, immagino dovessero essere un bel rebus per il consumatore di quindici anni fa.

Mi sono quindi approcciato con estrema curiosità a questo Oslavje 1997, un uvaggio di Pinot Grigio, Chardonnay e Sauvignon: in sostanza, ho bevuto un vino bianco vecchio di quindici anni, prodotto senza un grammo di solforosa aggiunta.

Ok, ma alla fine come è questo vino?
Visivamente, è giallo dorato quasi ambra, di una certa densità.
Olfattivamente trovo miele, fichi, frutta secca, smalto, vernice e una leggera volatile; certo ci sono grandi complessità e intensità. e gli aromi cambiano con il passare dei minuti, avvicinandosi ora più al terziario (etereo), ora più alla albicocca disidratata, e poi tirando fuori anche qualche timido accenno floreale e di incenso.

In bocca entra secchissimo, curiosamente liscio e fluido (mi aspettavo un sorso decisamente più pieno), poi avvolge con calore e spiazza: data la volatile avvertibile al naso immaginavo una forte acidità, mentre invece le parti dure sono date principalmente dalla enorme sapidità; scendendo in gola traccia con il calore, poi è lunghissimo e lascia salivare la bocca per minuti a causa della sapidità.

Alla fine, mi piace?
Sì, intriga e lascia la voglia di poter affrontare una verticale di varie annate, che immagino sarebbe interessantissima.
Posso parlare di un prodotto estremamente personale e sicuramente diverso dalla maggior parte delle bevute “normali”, che divide e spiazza, e che forse risulta “difficile” non tanto nella degustazione, quanto per la complessità di abbinamento: viene da pensare che si tratti di un vino da bere da solo, o al massimo da abbinare a formaggi stagionati.

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Chablis Chateau de Viviers 2011, Lupé Cholet

Denominazione: Chablis
Vino: Château de Viviers
Azienda: Lupé Cholet
Anno: 2011
Prezzo: circa 20 euro

Sarò telegrafico: conosco poco o nulla della azienda, se non quello che vedo sul sito (si dichiarano vendemmia meccanizzata e vinificazione in acciaio con controllo della temperatura).
Il vino lo avevo comperato questa estate in Borgogna dopo un assaggio particolarmente piacevole, soprattutto per me che non sono un grande conoscitore e amante dello Chablis.
Ne avevo prese due bottiglie, e quella bevuta qualche mese fa non mi aveva affatto soddisfatto; stasera ho riprovato con la seconda e anche stavolta ho seri dubbi.

Colore poco pronunciato, giallo molto tendente al verdolino, si sente però una certa consistenza facendolo roteare.
Olfattivo abbastanza intenso, citrino, di agrumi e di frutta acerba in genere, un tocco di anice e una percettibile mineralità (gesso?). Naso elegante, direi che è la fase migliore di questo vino.
Ingresso in bocca freschissimo, grazie ad acidità quasi tagliente, poi mineralità, ma in chiusura arriva un sentore verde (erba falciata) troppo percettibile.
Non male la lunghezza.

Alla bevuta odierna sembra un vino magari piacevole (se servito a bassa temperatura come aperitivo), ma decisamente troppo giovane, e la cosa è curiosa in quanto non si tratta di un 1er Cru o di un Grand Cru, ma di un prodotto tutto sommato abbastanza semplice, che il produttore stesso dichiara adatto ad un invecchiamento massimo di 3-5 anni.

Resta da capire cosa diavolo avessi sentito quando lo ho assaggiato in Francia…

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Unterortl: uno sguardo alla gamma

La settimana scorsa, grazie ad un incontro nella solita Cantina du Pusu, ho avuto la possibilità di esplorare più o meno l’intera gamma di vini della Unterortl, azienda altoatesina di proprietà dell’alpinista Messner ma in gestione a Gisela e Martin Aurich.

L’azienda dispone di poco più di cinque ettari attorno al colle Juval, compresi tra 600 e 800 metri di altitudine, costantemente asciugati dal vento caldo (föhn). I vitigni coltivati sono quelli tipici del nord: Müller Thurgau, Pinot Bianco, Riesling, Pinot Nero, con bassissime rese per ettaro, vinificati in acciaio o legno a seconda della tipologia, e comunque utilizzando lieviti autoctoni.

In degustazione:

  • Müller Thurgau 2012
  • Müller Thurgau 2011
  • Pinot Bianco 2012
  • Pinot Bianco 2011
  • Riesling 2011
  • Riesling 2009
  • Riesling Windbichel 2011
  • Riesling Windbichel 2010
  • Riesling Windbichel 2009
  • Riesling Windbichel 2008
  • Pinot Nero 2010
  • Pinot Nero 2009 (tappo a vite)
  • Pinot Nero 2009 (tappo in sughero)
  • Pinot Nero 2006 (tappo a vite)
  • Pinot Nero 2006 (tappo in sughero)
  • Riesling Spielerei 2008

Qualche impressione veloce: decisamente troppo giovani il Müller Thurgau e il Pinot Bianco 2012 (che difatti sono stati appena imbottigliati e non sono ancora in commercio), piacevolmente freschi e profumati i loro corrispettivi 2011: vini magari non particolarmente complessi ma facili e piacevoli da bere, danno l’idea di essere ottimi prodotti da aperitivo.

A mio modo di vedere, troppo giovani anche i Riesling 2011 e 2010, sia il prodotto “base” che il più prestigioso cru Windbichel (un vigneto ripido ed esposto a circa 750 mt di altitudine). Molto più profondo e complesso il Windbichel 2009, che tira fuori un bel carattere pietroso frammisto a pesca e pompelmo.

Curioso il Windbichel 2008, che a quanto ho capito è stato necessario declassare a IGT a causa del residuo zuccherino fuori disciplinare al termine della fermentazione: grazie a quella dolcezza più che significativa (ma ben bilanciata dalle durezze) è sembrato il più “tedesco” e il più personale della batteria.

In generale, da amante dei riesling tedeschi, ho potuto notare una netta differenza tra questi prodotti e i classici provenienti da Mosella e dintorni: alla vista il colore è decisamente più scarico e la consistenza è minore, di contro la gradazione è superiore (quasi tutti mi pare fossero sui 13.5) e, a parte il 2008, gli zuccheri residui sono bassissimi, da trocken e oltre. Anche la acidità mi è sembrata meno marcata, ma di contro c’è maggiore sapidità.
In sostanza, sono prodotti ben differenti.

Molto bene i Pinot Nero: giovane e di buone prospettiva il 2010, e estremamente interessanti i confronti vite / sughero delle due annate 2009 e 2006. La  base comune è di piccoli frutti di bosco e di una bella speziatura, che nel millesimo più vecchio si infittisce.
La diversità vite / sughero, già sensibile nel 2010, è netta nel 2006: più vivace ed esplosiva al naso la bottiglia con chiusura Stelvin, più note terrose e fungine nella tappatura “classica”. Personalmente ho preferito la versione a vite, che oltretutto sembra far presagire un invecchiamento superiore.

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