Dopo neppure un mese torniamo a parlare di Syrah, ancora una volta proveniente non dalla zona di elezione (il Rodano).
Stavolta la provenienza è italiana, siciliana: il vino è prodotto da Viniviola di Aldo Viola: 16 ettari condotti a regime biologico per sole 10.000 bottiglie l’anno.
Denominazione: IGT Sicilia Vino: Guarini Syrah Azienda: Vini Viola Anno: 2012 Prezzo: ? (era un regalo)
Nello specifico parliamo dunque del Syrah, le cui uve provengono da una collina di Feudo Guarini, a 300 metri sul livello del mare.
Come immaginabile, l’aspetto è rubino vivissimo, spendente e guizzante, con netti riflessi porpora.
L’olfattivo ha buona intensità, ma non particolare complessità: frutta fresca, ciliegia e prugna, e soprattutto vinoso, sentore di mosto in fermentazione.
Quasi inavvertibile il varietale del syrah: mancano quasi totalmente le note piccanti, speziate; lo stesso accade all’assaggio.
Al palato è completamente secco, di decisa alcolicità e piacevolmente fresco, leggermente tannico (mi aspettavo una astringenza più robusta e verde, invece il tannino è molto gentile e garbato).
Buona struttura e finale di media lunghezza.
Vino di buon potenziale, si intuisce la stoffa, comunque piacevole già oggi, ma in questo momento decisamente troppo giovane: mi domando perché non si attenda almeno ancora un anno di affinamento prima di metterlo in commercio.
Arrivederci volentieri tra un paio di anni.
Le premesse per un bel metodo classico ci sono tutte quando parli di un Trento DOC di un produttore illustre, fatto con uva chardonnay al 100% ottenuta da vigneti tra i 500 e i 700 metri e affinato a lungo sui lieviti (4-5 anni).
Invece al di là di un colore invitante e particolare (giallo paglierino-dorato intenso ma che mantiene curiosamente qualche riflesso verdolino), non c’è molto altro da ricordare.
Denominazione: Trento DOC Vino: Tridentvum Riserva Extra Brut Azienda: Cesarini Sforza Anno: 2005 Prezzo: 19 euro
La bolla è fine, certo, ma invece di accarezzare il palato risulta un po’ debole; l’olfattivo è abbastanza intenso: si riconoscono i canonici floreale e frutta matura, mentre stranamente, nonostante il lungo riposo sui lieviti, c’è poca traccia di fragranza. In compenso si avverte qualcosa di fuori posto, appena accennata ma leggermente fastidiosa e difficile da identificare, sembrerebbe una terziarizzazione poco riuscita che rimanda alla plastica.
Insomma, mancano la finezza e anche il guizzo.
L’assaggio è secco, ma alla cieca non lo direi un extra brut. La freschezza c’è, ma il vino risulta mollo: d’accordo non aggredire il palato come a volte capita con certe bolle beniamine dei passaparola tra enofanatici del non dosaggio, della mineralità spinta e delle acidità selvagge, ma l’immagine è quella di un prodotto seduto, senza slancio. La chiusura ha un finale leggermente amarognolo e non risulta una gran lunghezza.
Insomma è tutto corretto (a parte la sbavatura olfattiva), ma non c’è neppure uno spunto, qualcosa per farsi ricordare. Lascia del tutto indifferente e non è un gran pregio per un metodo classico da zona vocata, che ha certe ambizioni e viene via e 19 euro.
Come si dice in questi casi: bottiglia sfortunata?
Il bello: prodotto molto classico, senza spunti strani Il meno bello: olfattivo poco fine, una certa mollezza generale
Certo, l’invecchiamento, l’affinamento, le terziarizzazioni eccetera.
Ma ogni tanto ti viene voglia di dire chissenefrega e di bere, e pazienza se magari aspettando qualche decade e svariati allineamenti astrali potremmo (forse, magari) godere di qualche bottiglia arrivata al mitologicamente perfetto stadio di maturazione.
E’ quello che è successo in questi giorni, in cui ho messo mano alla Vitovska 2011 di Zidarich, comperata durante il mio piccolo tour Friulano (parte 1, 2, 3, 4), e ne ho tratto gran soddisfazione, alla faccia della perfezione dello stato evolutivo…
Aspetto tipico da vino non filtrato, giallo dorato con netta tendenza ambrata e lieve opalescenza; olfattivo intenso, ricchissimo di frutta cotta, fiori di campo (camomilla), albicocca disidratata, salmastro.
Il piccolo miracolo è che la traccia identitaria di vino friulano (la sapidità minerale) riesce a declinarsi con grande eleganza accanto al ricco impianto della macerazione, mantenendo sia freschezza che impatto.
Il sorso è brioso, invade la bocca prendendone possesso in modo deciso: è una conquista senza spargimenti di sangue e senza duri assedi: freschissimo e sapidissimo, scende intenso ma senza alcuna difficoltà.
Il corpo è presente ma agile, di bella lunghezza, con un delicato accenno di tannino finale.
Per dirlo in due righe, è devastante nella sua intensità finissima, perfettamente in equilibrio tra forza, espressività, complessità e semplicità di bevuta: uno dei vini più interessanti e assieme piacevoli degli ultimi mesi
Come si diceva in apertura: di certo siamo di fronte ad un prodotto dall’ottimo potenziale evolutivo, capace col tempo di tramutarsi in qualcosa di più importante, ma già oggi parliamo di una bevuta facile, fresca, piacevolissima e allo stesso tempo assai soddisfacente e ricca di complessità.
Il bello: tutto: fresco, ricco, complesso e allo stesso tempo dalla bevuta disinvolta Il meno bello: reperibilità non facilissima
Capita mai di voler provare qualcosa di davvero diverso, di aver voglia di un viaggio (intellettuale) esotico, di un safari delle sensazioni?
Più semplicemente, di voler provare qualcosa di davvero diverso, da cui non sai cosa aspettarti?
Ecco, a me è successo questo fine settimana, e me la sono cavata con 23 euro e una bottiglia di vino…
Non millanto: non conosco granché di Penfold’s, se non che si tratta di una azienda storica del panorama Australiano, risalente a fine ‘800, con una produzione notevole per numero di bottiglie e varietà di vini.
Il resto, dalla storia aziendale a tutti i dettagli relativi ai vini, mi erano ignoti e sono comunque ben spiegati nell’esaustivo sito.
Denominazione: Shiraz Vino: Bin 128 Azienda: Penfold’s Anno: 2006 Prezzo: 23 euro
La bottiglia che ho scelto è un Shiraz in purezza, la declinazione Australiana del Syrah, vitigno che vive i massimi fasti nella Francia del Rodano e che nella terra dei canguri trova uno dei territori di elezione, per quantità e qualità.
In questo caso la coltivazione è stata effettuata nella regione di Coonawarra, nota per un clima relativamente fresco: per questo motivo il vino dovrebbe mantenere un profilo aromatico e gustativo relativamente nervoso, non troppo seduto come a volte accade con certi vini internazionali. Affinamento in botti di rovere francese, di vario passaggio.
Colore rubino acceso, vivissimo, non impenetrabile. Al naso, una giostra di frutta matura prugna, lampone… ma soprattutto spezie (pepe bianco) e molte erbe aromatiche. Intensissimo e variegato, magari un po’ cafone, ma divertente.
Appena aperto una lieve nota ferrosa ed ematica, svanita dopo qualche ora.
L’assaggio è potente e assai intenso, ben secco e morbidissimo a causa dell’evidente tenore alcolico (scoprirò dopo che i gradi dichiarati sono ben 14,5) e immagino anche per il passaggio in legno; la struttura non è lieve ma neppure un mattone come si potrebbe temere.
Buona la acidità, il tannino è presente ma resta in sottofondo, delicato, composto.
Nel complesso il vino mostra una doppia faccia, con una entrata dolce che poi termina in un vago amarognolo da tannino.
Discreta la lunghezza, forse leggermente penalizzata dalla botta alcolica, che rende un po’ monocorde il finale.
Non vedo grande potenziale evolutivo: mi sembra un vino all’apice della sua carriera, temo che ulteriori attese possano rinforzare ancora le morbidezze che già ora sono rilevanti.
Un vino magari non particolarmente fine, forse anche dalla bevuta un po’ stancante, ma comunque di impatto e tutto sommato divertente, se preso nelle giuste dosi e soprattutto se abbinato a preparazioni strutturate, ben aromatiche e magari in umido, ad esempio carni con sughi importanti.
Il bello: olfattivo intenso e variegato, sorso potente Il meno bello: prezzo non popolare. Un po’ troppo piacione
Preso dalla scimmia dei rifermentati in bottiglia (vini che nei casi fortunati trovo essere goduriosi e gustosamente semplici quanto economicamente abbordabili e persino, nelle migliori occasioni, un po’ eccentricamente originali), mi sono accostato a questa Garganega sui lieviti di Giovanni Menti con un discreto carico di aspettative.
Non è andata benissimo.
Denominazione: Vino Frizzante Vino: Roncaie sui lieviti Azienda: Menti Anno: 2012 Prezzo: 8 euro
I dati tecnici in pillole: Garganega 100% da vigneti in pianura con conduzione biodinamica, lieviti non selezionati, controllo della temperatura e nessuna aggiunta di solfiti all’imbottigliamento. La rifermentazione in bottiglia viene attivata aggiungendo mosto di Garganega passita.
Colore giallo paglierino opalescente con riflessi dorati, non spiacevole alla vista (come invece accade ad altri rifermentati). La bolla è per forza di cose poco netta, ma almeno continua e microscocopica.
Olfattivamente è molto lieve, appena un accenno di prugna gialla acerba, di fiori freschi su uno sfondo di un minerale poco definito (gesso?).
Entra in bocca ben secco, sapido, leggero quasi esile, e il finale è aggrumato, lievemente amarognolo e corto.
C’è una buona freschezza, c’è drittezza, ma è davvero molto semplice, sia all’olfattivo, che risulta appena accennato, che all’assaggio, molto fluido.
Ovvio che non è da disprezzare, e a dirla tutta presenta anche una certa gradevolezza, ma anche tenendo presente prezzo e uso di rifermento (rinfrescante fuoripasto, accompagnamento a semplici stuzzichini e similari) scivola via un po’ anonimo.
Giudizio: rivedibile.
Il bello: freschezza, prezzo Il meno bello: semplicità eccessiva, persistenza limitatissima
Parlare di Prosecco oggi significa scoperchiare un calderone di difficile decifrabilità: si tratta di un vino di enorme successo, in Italia come (e specialmente) all’estero, che di conseguenza necessita di numeri imponenti: ecco quindi un disciplinare di manica piuttosto larga, che ammette ad esempio uve prodotte nelle province di Belluno, Gorizia, Padova, Pordenone, Treviso e rese massime di 18 tonnellate per ettaro.
Proprio a causa della sua popolarità e della enormità dell’offerta (in media qualitativamente assai discutibile, penso ai classici abomini che vengono serviti in millanta bar alla richiesta di un “prosecchino”), il Prosecco non gode di gran stima presso il pubblico degli eno-appassionati hardcore, se non per qualche nome e tipologia di nicchia (penso al recente piccolo fenomeno del Colfondo).
La scorsa settimana ho avuto modo di assaggiare l’intera gamma di vini prodotta da Ruggeri, e, pur non essendo un particolare estimatore della tipologia, ammetto di avere apprezzato e anche di aver avuto alcune sorprese.
Certo, non parliamo dei gioielli sconosciuti di qualche vigneron biodinamico che “tira” poche migliaia di bottiglie: qui ci troviamo di fronte ad una azienda storica che sforna oltre un milione di pezzi l’anno, e che per mantenere uno standard qualitativo elevato in abbinamento a prezzi contenuti, usa metodologie moderne e ben definite (autoclave, temperature controllate, lieviti selezionati eccetera).
I due DOCG più canonici (il brut Quartese e il Dry Santo Sfefano) mi sono sembrati prodotti corretti, ben fatti, ma non particolarmente interessanti.
Le cose cambiano già nettamente con il Giustino Bisol, forse il prodotto più famoso dell’azienda: un extra dry che unisce la morbidezza (non eccessiva e per nulla stucchevole) ad un floreale ricco, fresco e non sfacciato, e con il Cartizze: un dry che ha dalla sua un olfattivo che è una vera esplosione aromatica.
Ma sono i vini più atipici rispetto alla idea canonica di Prosecco quelli che mi hanno stuzzicato maggiormente: l’Extra Brut, che per la sua secchezza (fuori disciplinare, tanto da non poter essere classificato “Prosecco”), per la finezza della bolla e per una certa austerità, ricorda da vicino un metodo classico, e soprattutto il Vecchie Viti, un brut per il quale voglio spendere qualche riga in più.
Denominazione: Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Vino: Vecchie Viti Azienda: Ruggeri Anno: 2011 Prezzo: 12 euro
L’uva è ottenuta da una selezione assai limitata di vecchie viti di età compresa tra 80 e 100 anni (al 90% circa Glera, con saldo di Verdiso, Bianchetta e Perera), per un totale di circa 5000 bottiglie.
Visivamente giallo paglierino, estremamente tenue, con riflessi brillanti e bolla finissima, non troppo copiosa.
L’olfattivo ha buona intensità, anche se non è esplosivo o sfacciato; sicuramente estremamente fine ed espressivo, dominano un floreale e fruttato composti ed eleganti.
La bocca prevede poco calore, mentre freschezza e sapidità sono di discreto livello; gustativamente si ritrova quanto avvertito al naso, con buona intensità e anche una certa materia e lunghezza, considerata la tipologia.
E’ una espressione particolare di Prosecco, una sorta di avvicinamento ad un metodo classico (forse ad un Franciacorta Satèn) del quale mancano i sentori di lievito, le acidità spiccate e la croccantezza e la numerosità della bolla.
Qui si gioca più sulla freschezza e sulla immediatezza, e anche le sole 4,5 atmosfere di sovrapressione magari contribuiscono a questa sensazione di leggerezza, senza per questo scadere nella piacioneria facilona.
Una bella bottiglia per un aperitivo non scontato.
Il bello: freschezza, aromaticità, prezzo Il meno bello: un po’ sfuggevole in bocca e in chiusura
Infondo se ci piace scrivere, ragionare e persino studiare a proposito di vini, è per serate come questa che lo facciamo: per sederci attorno a un tavolo e mentre mangiamo darci sotto con lo stappare, col parlare e magari ridere e cazzeggiare in libertà.
L’idea era tanto semplice quanto di sicuro appeal, 7 partecipanti, ciascuno porta una boccia a tema, e il leit-motiv della serata era indubbiamente intrigante: vini a base nebbiolo di annata 2001, millesimo che gode di ottima considerazione.
Ovviamente bottiglie coperte, così da non subire il malefico effetto placebo dell’etichetta e del prezzo importanti.
Ospitalità e cucina, entrambe di ottimo livello, sono state assicurate dal ristorante U Giancu.
Quello che ho capito, da questa e da altre situazioni simili, è che inevitabilmente occorre fare una scelta: o si privilegia il lato conviviale (e mi sembra doveroso), o ci si distacca per analizzare al meglio il vino. Come ovvio, io sono per la prima opzione, visto che il liquido nel bicchiere è fatto per essere bevuto e non vivisezionato…
Altra cosa che ho imparato: io sono un parvenu in questo folle mondo di eno-appassionati, e per quelli come me è facile lasciarsi influenzare da chi ha più esperienza e competenza, non c’è nulla di male, però a me piace decidere e sbagliare con la mia testa.
Il compromesso che ho messo in piedi per ovviare a questi due inconvenienti è quello di isolarmi mentalmente per i primi due o tre minuti in cui assaggio un nuovo bicchiere, concentrandomi e cercando di non ascoltare chi ho attorno e sforzandomi di scrivere alcune note al volo, sintetiche e sincere.
Poi, libertà di discussione a ruota libera e cambi di opinione se il caso, però le righe iniziali restano a far fede di quella che era la mia opinione originale, non corrotta dal confronto verbale.
A fine cena abbiamo tolto la stagnola alle bottiglie e abbiamo avuto non poche sorprese: a seguire, l’elenco di quanto bevuto nell’ordine di servizio originale (casuale), le mie note prese a bocce coperte e qualche considerazione successiva alla rivelazione delle etichette:
Gattinara Osso San Grato 2001, Antoniolo (circa 45 Euro):
Bel colore tipico da Nebbiolo, ancora molto vivo. Olfattivo ricco ed elegante, viola e scorza di arancio. Tannino presente ma dolce, gradevole. Sensazione di morbidezza e di lunghezza. Idea di vino maturo, di ottima evoluzione.
Bottiglia che paradossalmente ha convinto tutti, pur dividendo; mi spiego: a tutti è sembrato una ottima bevuta (per me uno dei due migliori della serata), ma qualcuno ha ritenuto fosse giunto al culmine e ha penalizzato il fatto che un vino a base Nebbiolo del 2001 dovrebbe avere ancora lunga vita davanti. Sicuramente in questo momento è perfetto, e il mio personalissimo parere è, che deriva da colore e freschezza, è che non sia affatto a fine corsa.
Barbaresco Rabaja Riserva 2001, Giuseppe Cortese (circa 55 Euro):
Colore decisamente più concentrato rispetto al primo campione, ma anche meno vivace. Parte molto chiuso, poi si apre leggermente ma spunta una nota etilica, di smalto, un po’ fuori scala.
In bocca è più potente e ha un tannino confuso, forte ma senza grip deciso.
Non mi entusiasma, e credo abbia già scavallato i tempi migliori.
Barbaresco Asili 2001, Produttori del Barbaresco (circa 35 Euro):
Colore concentrato ma ben vivo, olfattivo ricchissimo, floreale, spezie… arioso ed elegante. L’assaggio è fresco, intenso, lungo e con un ottimo tannino, robusto e deciso. Bevibilità stellare.
Assieme ad Antoniolo, per me e per quasi tutti, vino della serata. Un bonus ulteriore in considerazione del prezzo favorevolissimo.
Sassella Rocce Rosse 2001, Ar.Pe.Pe (circa 28 euro):
Colore meno vivace dei precedenti, qualcosa non funziona a livello olfattivo: presenti un leggero yogurt, qualche ricordo di plastica… Anche l’assaggio non è compiuto. Vino scomposto, forse il più deludente della batteria assieme ad Oddero.
Barolo Vigna Rionda 2001, Massolino (circa 90 Euro):
Ottimo il colore, bello vivo. Olfattivo ricco e intenso, con sprazzi eterei e frutta matura.
Assaggio di bella intensità, tannino morbido e gradevole. Non troppo lunga la chiusura.
Barolo Bussia Soprana Vigna Mondoca 2001, Oddero (circa 55 Euro):
Colore molto carico, grande consistenza alla roteazione. Olfattivo strano: c’è del vegetale cotto, oliva… non pienamente gradevole.
In bocca c’è intensità e tannicità ben fatta, ma resta qualcosa di non a posto.
Barolo Bussia “Colonnello” 2001, Poderi Aldo Conterno (circa 70 Euro):
Alla vista è scuro, quasi impenetrabile, l’unghia è un po’ spenta.
Naso estremamente evoluto di cioccolato, spezie e cuoio.
Caldo, morbido, intenso, non freschissimo… lunghezza nella media. Bevibilità pesantuccia.
A me sembra giunto nettamente oltre il suo stadio ottimale, a qualcuno è piaciuto molto.
Conclusioni rapide e ovvie: serata divertentissima, in cui (giocando) si è imparato tantissimo. Da ripetere quanto prima con una diversa tipologia di vini.
Quasi entusiasta per la bottiglia di Malvasia di Camillo Donati comperata a Fornovo, non vedo l’ora di provare quello che da molti è considerato il suo cavallo di battaglia.
Così, anche se forse è troppo presto (il millesimo è il giovanissimo 2012), mi armo di stappabottiglie e metto mano al Sauvignon.
La prima impressione è più felice rispetto a quella avuta dalla Malvasia: è dorato, con qualche particella ma non torbido, con un colore bello vivo, che sembra decisamente più evoluto rispetto a quanto dichiara l’etichetta.
Olfattivamente si ripropone qualche sentore di frutta cotta, mela e pera. Poi fieno, camomilla… Per nulla stanco, non troppo ricco ma aspettando il giusto lo spettro si infittisce di richiami.
All’assaggio la frizzantezza non è per nulla invasiva, anzi molto morbida.
Il vino è consistente, caldo, ma di nuovo, come per la Malvasia, non si avverte affatto la gradazione (14 gradi). E’ sapido, abbastanza fresco e con chisura leggermente amarognola. Buona lunghezza, superiore a quella della Malvasia.
Molto interessanti e particolari le sensazioni di assaggio che oscillano costantemente fra dolce e amaro, regalando una ottima bevibilità: la bottiglia finisce a velocità pazzesca.
Non saprei se definirlo un pregio o un difetto, ma ho difficoltà a riconoscere il varietale del sauvignon.
Al primo impatto colpisce forse meno della Malvasia (che ha dalla sua una aromaticità più intensa), ma questo Sauvignon dà l’idea di avere più stoffa, di poter durare più a lungo e di poter ambire a titoli anche più prestigiosi rispetto a quello (peraltro per me assai importante) di Grande Vino Quotidiano.
Concludo: entrambi i vini (Malvasia e Sauvignon) mi hanno suscitato le stesse sensazioni di richiamo al mondo della birra, e se si dice che il lambic è l’anello di congiunzione tra la birra e il vino, trovo che questi rifermentati in bottiglia siano all’inverso il ponte tra il vino e la bevanda di Cerere.
Roba piacevolissima: a me una cassa mista, please!
Il bello: prezzo, bevibilità, struttura Il meno bello: alcolicità elevata
Camillo Donati è uno degli outsider della viticultura naturale italiana: produce in zona decisamente più nota per altri generi alimentari (Barbiano, in provincia di Parma, vicino a Felino, zona allegramente famosa per i salumi) ma è riuscito comunque a ritagliarsi una piccola notorietà con vini sinceri, che non hanno pretese di ostentata nobiltà ma piuttosto la felice voglia di accompagnare la tavola quotidiana.
I 12 ettari condotti secondo principi biologici e biodinamici sono coltivati a Malvasia, Sauvignon, Croatina, Lambrusco, Trebbiano, Barbera e Fortana; la vinificazione avviene sempre in rosso, anche per i bianchi, e non viene applicato nessun controllo della temperatura durante la fermentazione. Ovviamente si rifiutano anche i lieviti selezionati, le chiarifiche e in generale qualsiasi intervento chimico… l’unica aggiunta è una leggera solfitazione. I vini ottengono la loro caratteristica frizzantezza tramite spontanea rifermentazione in bottiglia.
Il tappo è da birra, e quando versi proprio birra sembra: la schiuma è abbondante, pannosa e imponente, naturalmente poi si dissolve subito, lasciando nel bicchiere un vino bruttino alla vista, dorato ma quasi impenetrabile per torbidezza.
L’olfattivo è di frutta cotta, camomilla, fieno… In bocca la frizzantezza è appena percettibile e l’alcol pericolosamente mascherato, quasi inavvertibile (e invece sono 13 gradi).
Ben fresco, con un accenno di sapidità e chiusura lievemente amarognola, per un finale non particolarmente lungo.
Mi ha fatto venire in mente un vino da merende, più che da pasti, e anche se capisco possa accompagnare bene svariate tipologie di cibo, lo vedo come un vino giocoso, da aperitivo, da servire all’aperto in primavera con ricchi taglieri di salumi e di formaggi non troppo stagionati.
Bel vino senza impegni (ma per nulla insulso o facilone), godibile anche nel prezzo.
Il bello: prezzo, piacevolezza Il meno bello: olfattivo un po’ rustico
Pioggia… è ancora la pioggia che mi accompagna quando è ora di far rotta verso il Carso, a circa 300 metri di altitudine sul tetto del Golfo di Trieste. La visita da Zidarich sarà per forza di cosa veloce e incompleta, i motivi sono i soliti: la vendemmia è appena terminata con una certa fretta e c’è molto da fare in cantina. Pazienza.
L’arrivo è difficoltoso: l’azienda è inerpicata nella frazione di Prepotto, il navigatore la conosce ma chissà per quale pasticcio con le strade, propone un percorso piuttosto lungo e isolato e quando si arriva non ci sono cartelli o insegne ad indicare la cantina.
Strano, anche in ragione del fatto che Zidarich ha da poco aperto nella stessa struttura anche una “osimiza” (traduco malamente con osteria)…
Ad ogni modo, il maltempo può fare quel che vuole, ma la vista dall’alto sul mare è davvero unica: se ieri eravamo nell’antro di Radikon, qui ci troviamo nel nido di un gabbiano e nessun ostacolo si protende davanti alla collina che scende sul Golfo straordinariamente ampio e profondo per noi liguri, abituati a ben altre asperità.
E’ su questi declivi di roccia calcarea, permeabile e coperta da un sottile strato di terra rossa, totalmente indifesi rispetto al vento che già oggi spazza e che immagino per molti giorni l’anno ancora più robusto e tagliente, che crescono gli otto ettari aziendali piantati a Vitrovska, Malvasia, Sauvignon, Terrano e Merlot, da cui si ricavano circa 25.000 bottiglie l’anno.
La costruzione che ospita cantina e osimiza è sicuramente affascinante: terminata recentemente, si sviluppa su vari livelli, da quello superiore tutto vetrate fino a scendere a venti metri di profondità nella roccia scavata in nicchie, anfratti e gallerie, tenute a bada da volte in pietra.
Le vinificazioni sono improntate a quel rigore naturalistico che ormai bene conosciamo: massima selezione in vigna, lieviti autoctoni, macerazione anche per i bianchi (molto meno pronunciata rispetto a quanto accade con i vini di Radikon) , nessuna filtrazione, affinamento in grandi botti di rovere, minima aggiunta di solforosa.
Ne risultano vini particolari ma non estremi, molto personali ma che a mio modo di vedere non travalicano i confini della piacevolezza di bevibilità e che immagino possano essere graditi anche ai non fanatici della naturalità.
I canoni comuni sono quelli di una lieve opalescenza visiva (causata evidentemente dalla non filtrazione), di ottima freschezza e soprattutto da evidente ed estrema mineralità, declinata in sapidità e aromi di pietra focaia.
Nel dettaglio, la Malvasia 2011, olfattivamente ricca di frutta gialla matura e miele, in bocca è comunque bella affilata e non stucchevole; il Prulke 2011(uvaggio di Sauvignon, Malvasia e Vitovska) è più complesso, cangiante, vira dal floreale e aggrumato fino alla albicocca disidratata, con un sorso teso e scattante.
Il pezzo più pregiato del bianchi è la Vitovska 2011, vitigno locale un tempo un po’ bistrattato e ora in gran spolvero; c’è tutto per definirlo un grande vino, l’olfattivo è ricchissimo e cangiante, floreale di camomilla, spezie, agrume, minerale… Bevibilità stellare e buona lunghezza.
Tutti vini bianchi (o meglio, orange) da servire a temperature da rosso giovane, in modo da placare la leggera tannicità e non mortificare il notevole spettro aromatico.
Una sorpresa bella e interessante il Terrano (dal nome del vitigno omonimo, autoctono, del quale non avevo mai assaggiato nulla): colore rubino accesissimo, fragranza di frutti di bosco, leggera speziatura e acidità spiccata. Mi sembra molto bevibile e lo immagino ottimo in accompagnamento a salumi.