Champagne Oeil de Perdrix, Jean Vesselle

Che succede quando il tuo spacciatore di alcol di fiducia si procura nuove bottiglie bollicinose di piccoli produttori francesi, classificati come RM?

Ovvio: le provi una alla volta, perlomeno quelle economicamente abbordabili, possibilmente senza prima informarti su blog, siti aziendali e modernerie varie, in modo da non rovinarti la sorpresa.

Quindi via alla cieca: non conosco nulla del produttore, tantomeno del vino che andrò ad assaggiare: esiste qualcosa di più divertente?

Lo stappo e inizia lo stupore: si nota una inusuale sfumatura ambrata, delicata, un accenno di buccia di cipolla; ma accidenti, in etichetta non si parla di rosé (e difatti la tinta è troppo debole per ricadere nella tipologia)…
Temo il difetto, ma il tappo è a postissimo e il naso non rivela alcun allarme, così come l’assaggio.

Vado finalmente a sbirciare sul sito e mentre scrivo il nome mi viene un sospetto: vuoi vedere che lo hanno chiamato in questo modo proprio per la tinta? Ovvio che è così: il nome deriva dalla sfumatura colorata, donata dalla pressatura dell’uva nera (per la cronaca: pinot nero 100% e dovevo aspettarmelo, visto che siamo a Bouzy, tradizionalmente “capoluogo” di questo vitigno nella regione dello Champagne).

E’ proprio online che il produttore racconta la storia, chissà quanto vera, di questo vino come di un recupero della tradizione.
Non ho modo di verificare, ma per sommi capi si dice che agli inizi del ventesimo secolo, nella zona in questione,  tutti i vini ottenuti da pinot nero avevano una sfumatura ambrata e per questo erano chiamati “occhio di pernice”.
Sarebbero state poi le grandi maison a decidere che gli champagne dovessero ricadere nelle tipologia “blanc” o “rosé” e non in qualcosa di intermedio, ma la cancellazione del cenno rosato avrebbe anche eliminato parte di aromi, tanto che Jean Vesselle,nel 1972, dopo aver ritrovato murate in cantina alcune bottiglie vinificate alla maniera tradizionale, sarebbe rimasto così colpito dal colore e dalla pienezza degli aromi da decidere di riprendere la produzione con questa modalità.

Oeil de Perdrix, Jean VesselleDenominazione: Champagne BRut
Vino: Oeil de Perdrix
Azienda: Jean Vesselle
Anno: –
Prezzo: 30 euro

Detto del colore, proseguiamo con una bolla estremamente copiosa, ma che non aggredisce grazie alla sua finezza. Il naso richiama principalmente la frutta: agrume, mandarino e qualche accenno ai canonici (per il vitigno) piccoli frutti rossi, poi una leggera scia di corteccia bagnata. Nel complesso, buona l’intensità, anche se il tutto è magari un po’ semplice.

L’assaggio è equilibrato, l’acidità c’è senza strafare, mitigata dal dosaggio garbato (6 g/l). Il finale non è lunghissimo e presenta un minimo accenno amaro (che il giorno seguente mi sembra scomparso o che perlomeno avverto molto meno) che non impreziosisce la bevuta.

Sgomberiamo il campo: non siamo di fronte ad un capolavoro, ma sicuramente si tratta di un buon vino, oltretutto capace di fare “storia a sé”, incuriosendo per la sua tipologia peculiare.

Il bello: bel colore, bevuta semplice e gradevole

Il meno bello: nulla che spicchi particolarmente

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Grappoli del Grillo 2012, De Bartoli

Bisogna essere sinceri, sennò che stiamo a fare qui?

Frequento colpevolmente poco il sud Italia enoico, forse per lontananza geografica, forse per reperibilità dei vini, forse per affinità di tipologie, e della azienda De Bartoli so giusto quel che sanno tutti: al tempo della sua scomparsa ho letto della passione di Marco De Bartoli, delle sue battaglie per il Marsala, del suo recupero del Grillo… ma alle spalle ho pochi assaggi.

La sostanza è comunque che il vino di oggi è uno di quelli che mi convince di quanto errata sia la mia consuetudine: questa è una di quelle bottiglie che ti fanno sbattono in faccia quel che ti stai perdendo.

Grappoli del grilloDenominazione: Grillo Sicilia DOC
Vino: Grappoli del grillo
Azienda: Marco De Bartoli
Anno: 2012
Prezzo: 23 euro

Marco De Bartoli ha deciso di produrre il suo primo vino bianco nel 1990, usando un uva bistrattata e fino ad allora impiegata quasi solo per il Marsala, quindi Grillo in purezza raccolto nella Contrada Sampieri, a Marsala, con basse rese e severa selezione manuale. Fermentazione realizzata con lieviti autoctoni e temperatura controllata, inizialmente in acciaio e poi in rovere francese (del tutto inavvertibile sia olfattivamente che all’assaggio) per dodici mesi, usando la tecnica del bâtonnage.

Lo vedi di un bel giallo paglierino-dorato, di buona consistenza, e ti aspetti sentori caldi, magari mielati, ma appena metti le narici sopra al bicchiere ecco che si materializza lo spettro della tanto abusata mineralità di cui tutti straparlano… Arriva diretto un vagone di gesso (lo so che il gesso non ha odore, ma per qualche motivo il cervello accende questa immagine), condito con un filo di cera d’api, a sovrastare una struttura aggrumata (pompelmo?) decisa e fresca, condita da sensazioni di fiori di campo.
Non solleveresti più il nasone dal vetro, tanto è sfaccettato e piacevole.

Poi in bocca: riempie rapido il cavo orale: c’è acidità e torna nettissimo il pompelmo “mineralizzato”, ma è la sapidità a spiccare, tanto che brucia quasi le mucose.  Non puoi definirlo equilibrato, ma come fai a non riempire (e a non svuotare) nuovamente il bicchiere?

Difficilmente spendo il termine “territoriale”, che per me vuol dire davvero poco (magari una volta ne parleremo), ma un sorso così salino non può non rimandare la mente a località marine; oltretutto la lunga chiusura, dopo il bel ritorno del frutto, palesa un accenno di macchia mediterranea, in cui una volta tanto un filo di amaro (ma è davvero un flash) ha un senso piacevole, evitando di diventare appendice fastidiosa.

Territoriale, dicevamo, ma felicemente bifronte: certo, non c’è quella carica alcolica, e glicerica che ti aspetti da un vino siciliano (poi però vai a controllare in etichetta e scopri che sono 13,5 gradi, e ti chiedi come diavolo facciano ad essere così ben mascherati!), ma la luminosità e la sapidità teletrasportano su coste soleggiate e sferzate dal vento che solleva schizzi di salmastro.

Il bello: bevibilità pazzesca, ottenuta senza sacrificare l’importanza del vino.

Il meno bello: per quanto la bevuta sia stata ottima, il millesimo era recentissimo: sono certo valga la pena provare qualche bottiglia decennale.

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Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 2001, Cantine Ferrari

Riepilogando: sono un appassionato di vini bianchi, in particolare di Metodo Classico, e non ho pregiudizi rispetto a quanto metto nel bicchiere (perlomeno cerco di non averne); detto questo, o forse proprio per questo, trovo abbastanza stucchevole la cantilena secondo la quale non sarebbe possibile confrontare Champagne e Franciacorta, Tranto DOC e Oltrepò Pavese…

Certo, terreno e latitudine non hanno nulla in comune, per non parlare dei numeri e dell’esperienza di coloro che il vino lo fanno, ma io sono un consumatore, non un enologo o uno storico, e valuto quello che tracanno.
Mi pare abbastanza ovvio che il “modello di riferimento” di tutti (quasi) coloro che producono Metodo Classico sia lo Champagne, e che la prova di assaggio evidenzi enormi somiglianze tra vini creati con questa metodologia (e vorrei vedere… la tecnica e i vitigni impiegati sono i medesimi, e in questo caso la tecnica conta eccome: gli spumanti sono vini estremamente “costruiti”).

Quanto sopra per giustificare il fatto che, nonostante la vulgata corrente lo ritenga una bestemmia, quando assaggio un Metodo Classico italiano mi abbandono per un attimo ad una piccola astrazione mentale, cercando di riportare quello che ho nel bicchiere alla terra di Francia, zona Reims, cedendo alla tentazione del paragone con Champagne di prezzo analogo.

Nel mio personale (modestissimo) cartellino, gli italiani si difendono bene sino ad una certa fascia di prezzo (diciamo spannometricamente fino ai 30 / 40 euro?), aiutati dall’handicap dei costi di importazione francesi. Oltre quella soglia, temo che molto spesso i cugini dalla erre moscia abbiano la meglio.

Certo, ci sono casi e casi,  e quello di oggi è uno di quelli in cui un Metodo Classico italiano di prezzo importante riesce a ottimamente figurare accanto a bottiglie transalpine comparabili.

La mia esperienza con “il Giulio” ha anche un aneddoto curioso: agli albori della mia frequentazione col mondo del vino mi ritrovai ad una degustazione, presenti molti nomi importanti; mi fiondai subito sulle bolle (ovvio), e il primo o il secondo vino della giornata fu proprio la Riserva del Fondatore. Tutti gli altri spumanti in degustazione impallidirono al confronto e la cosa mi impressionò decisamente.
Mi è poi capitato di assaggiarlo altre volte, e di farne fuori un paio di bottiglie di diverse annate, e mai sono stato deluso… certo, il prezzo…

Giulio-Ferrari-Riserva-del-Fondatore-2001Denominazione: Trento DOC
Vino: Riserva del Fondatore
Azienda: Cantine Ferrari
Anno: 2001
Prezzo: 60 euro

Poche note tecniche: chardonnay al 100% dal vigneto Maso Pianizza, 500 metri sul livello del mare esposti a sud-sud/ovest, circondato da boschi; raccolta manuale, fermentazione in acciaio e ben dieci anni di affinamento. Tecnicamente possiamo parlare di un extra-brut (il dosaggio lo porta a meno di 6 grammi/litro di residuo).

Poco da dire su un prodotto del genere: è una crema dorata,  di un brillante perfetto, con bollicine ideali per sottigliezza e lucentezza. Lo spettro olfattivo non è esplosivo, ma non è questo quello che cerchiamo in un Metodo Classico: importa che la finezza e la complessità siano encomiabili: fiori, agrumi, panetteria, accompagnati da una sottesa nota di vaniglia e di affumicato.

Il sorso è pieno, ricco, succoso… soprattutto è magnifico l’equilibrio che nasconde l’alcol, che bilancia perfettamente sapidità e acidità e che rende la bevuta sontuosa ma allo stesso tempo agilissima.

Vino ideale a tutto pasto, ma anche come aperitivo o come bevuta solitaria, difficile trovargli un ambito non consono (giusto i dolci, dai!).

Il bello: lo bevi come vuoi e con cosa vuoi: non puoi sbagliare
Il meno bello: le prix, ça va sans dire

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Albarola 2012, Santa Caterina

Mica si vive sempre di nomi roboanti o di marchi cosiddetti “prestigiosi”… Anzi, spesso la maggior soddisfazione arriva dal metter mano a piccoli gioielli poco noti, come nel caso di questa Albarola precisa e puntuale, prodotta da un vero Signore come Andrea Kihlgren.
Signore con la “S” maiuscola, perché l’unica volta che mi è capitato di incontrarlo e di discutere con lui tale si è dimostrato: pacato, preciso, metodico, esauriente e comunicativo.

Caratteristiche che sembrano rivivere nella sue bottiglie, discrete dall’etichetta fino al contenuto, scevre da facili effetti speciali, sobrie ma eleganti e ricche… Ecco questo lavorare bene e sottotraccia mi sembra un po’ il filo conduttore della produzione vinicola dei 7 ettari di Santa Caterina, situata vicino a Sarzana.

Denominazione: Colli di Luni DOC
Vino: Albarola
Azienda: Santa Caterina
Anno: 2012
Prezzo: 11 euro

Quindi questa Albarola in purezza?
E’ un bianco macerativo senza alcuna inclinazione alle ossidazioni e agli estremismi di certi “orange wines”, pur concedendo dagli otto ai quindici giorni sulle bucce, e infatti l’aspetto visivo racconta un giallo dorato di live opalescenza, mentre al naso si avverte un bel misto di fiori di campo e camomilla, con un accenno balsamico delizioso, di bella intensità e complessità.

L’ingresso è garbato, accompagnato da una bella pienezza centrale di sorso, sorretta soprattutto da sapidità in bella evidenza.
Il finale concede un lieve amaricante pulito, per una lunghezza non memorabile ma dignitosa.

Quindi un bel vino, umile e dotato di ottima personalità e facilità di bevuta,  credo anche molto versatile in abbinamento.

Il bello: facile ma non banale, bello spettro olfattivo
Il meno bello: non lunghissimo

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Giacosa Extra Brut 2006

Ho scritto recentemente qualcosa  riguardo i metodo classico Piemontesi, e sono contento di poter continuare a parlare di ottime impressioni con un altro prodotto che non avevo mai assaggiato, il Giacosa Extra Brut.
Certo, il caso è curioso: nonostante l’etichetta riporti il nome di una icona del vino di Langa (Giacosa, appunto), le uve, pinot nero in purezza, provengono dall’Oltrepò Pavese…  Prendiamola come la dimostrazione della grande capacità di vinificare di casa Giacosa e anche come prova della notevole attitudine della regione lombarda nella coltivazione di questa non facile tipologia.

giacosaDenominazione: –
Vino: Extra Brut
Azienda: Giacosa
Anno: 2006
Prezzo: 25 euro

Visivamente perfetto: giallo paglierino con bolle sottili, continue e numerose e bella spuma persistente.
L’Olfattivo è deciso, vibrante di minerale e lieviti, poi c’è il floreale, e il muschio, sottobosco umido, senza frutta tropicale o agrumi. Diretto, molto maschio.

L’ingresso è deciso ma senza aggressività, decisamente secco ma senza accenti amarognoli, pieno, gustoso e intenso, fresco e dotato di bella sapidità. Squillante, vivo e comunque di grande equilibrio, nonostante la drittezza riesce ad esprimere una certa rotondità. Ottima lunghezza.
Lasciandolo esprimere a qualche grado in più acquista profondità e ricchezza.

Uno dei migliori metodo classico pinot nero in purezza assaggiati quest anno; certo, la domanda è che senso abbia la denominazione dimostra le potenzialità dell’oltrepò pavese

Il bello: pienezza gustativa
Il meno bello: nulla da segnalare

 

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Sassaia 2012, La Biancara

Scrivere qualcosa, oggi, dei vini di Angiolino Maule, è un esercizio di stile così sterile da rasentare la inutilità cosmica: cosa aggiungere ancora che gli appassionati non abbiano già mandato a memoria dopo averne letto ovunque, dai libri mainstream di Scanzi ai blog più oscuri?
E che descrizioni vuoi fare, dopo aver bevuto (e goduto) dei suoi vini tante volte a casa o in qualche manifestazione, naturale o meno, magari organizzata dalla sua stessa Vinnatur?

Io stesso sono uno dei folgorati dal suo stile: quando ero un bevitore alle prime armi, poco addentro alle cose enoiche, provai dapprima un anticipo di epifania con il Sassaia, che mi aprì al mondo delle sapidità, e poi vidi la luce col capolavoro Pico, che mi fece schierare deciso verso le macerazioni, salvo poi capire che pochi altri prodotti “orange” potevano ambire alla sua personalità, freschezza e piacevolezza di bevuta.

La creazione di Maule, l’azienda La Biancara di Gambellara, porta orgogliosa la bandiera del “vino naturale”ormai da moltissimi anni, da ben prima che questa faccenda diventasse un  affare così di moda da risultare francamente in alcuni casi imbarazzante…
Quello che mi colpisce di Maule è il contrasto tra le sue certezze (apparentemente granitiche, che immagino a volte trascendano nel decisionismo, cfr. la scissione da Vini Veri…), il suo fisico asciutto e gli occhi un pochino spiritati, che me lo fanno accostare ad un cinquecentesco riformista radicale, e la sua voracia di conferme che si esplicita in collaborazioni con le università, nella pretesa e divulgazione delle analisi chimiche dei vini dei membri della sua associazione, eccetera.
Quanta diversità da tanti suoi colleghi dogmaticamente bio-tutto, che rifuggono da qualsiasi confronto scientifico!

sassaiaDenominazione: Veneto IGT
Vino: Sassaia
Azienda: La Biancara
Anno: 2012
Prezzo: 12 euro

Per quanto sopra e molto più, duole tremendamente non poter godere appieno di questo Sassaia come immaginavo: davvero siamo lontani anni luce rispetto ai millesimi passati dello stesso vino.

Prodotto da uve Garganega 85% e 15% Trebbiano, fermentazione spontanea in botte di rovere, senza alcun controllo della temperatura, chiarifiche o filtrazioni, la particolarità è che, mi dicono, il 2012 è stata una annata sfavorevole e che quindi Maule ha deciso di non fare il Pico, dirottandone la uve sul Sassaia; ne è uscito un vino appena opalescente alla vista, dai sentori lievemente di mela cotta, con qualche lontano ricordo minerale, ma soprattutto con un sorso magro, estremamente fresco e lievemente sapido, corto, poco intenso, monocorde… insomma un vino che scivola un po’ via e nel quale la acidità non è adeguatamente supportata per non essere troppo predominante.

Peccato, ma in ogni caso l’enorme apprezzamento che ho per i vini di Maule non è scalfito da questa prova minore, che sono certo verrà riscattata dal prossimo assaggio. Bottiglia sfortunata?

Il bello: olfattivo personale
Il meno bello: sorso corto e magro

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Festival Franciacorta Genova 2014

FranciacortaAll’ingresso ti danno il libricino, che oltre a tutti i dati sul Franciacorta, dagli uvaggi, al metodo di produzione, passando per tipologie e modi di consumo, riserva una pagina per ciascuno dei 32 produttori, divisa equamente a metà per ognuno dei due vini in degustazione, con nome, millesimo e uvaggio e lo spazio per annotare le impressioni.

Ecco, quello che più colpisce del Festival Franciacorta (alla sua prima edizione a Genova) è la cura nei dettagli: quella sopra raccontata è una comodità impagabile nelle sessioni di degustazione delle varie manifestazioni, occasioni in cui hai il bicchiere in una mano, la giacca nell’altra, qualche depliant sotto l’ascella, la penna dietro l’orecchio eccetera, e per prendere un appunto devi fare i contorsionismi da fachiro indiano alcolizzato.

Le altre carinerie nei confronti dei visitatori vanno dalla brochure in formato sia cartaceo che elettronico (su chiavetta usb), al gadget portachiavi, dalla location spaziosa e luminosa (i Magazzini del Cotone presso il Porto Antico, dove si svolge solitamente anche Terroir Vino) al catering semplice ma appetitoso, dalla ricca fornitura di acqua in bottigliette ai banchi di assaggio ciascuno con la presenza del produttore e di un sommelier qualificato con tanto di termometro per verificare la temperatura di servizio.
Difficile chiedere di meglio per 15 euro di ingresso (10 per i soci AIS, Fisar, ONAV ecc.)! Il confronto con la mia visita a Vinum di pochi giorni prima è davvero impietoso…

Franciacorta

Per un appassionato di bollicine come il sottoscritto è stato un pomeriggio di festa più che di analisi degustative, inoltre, giocando in casa, ho avuto modo di incontrare tanti volti noti, sia tra il pubblico che tra i colleghi sommelier al servizio; mi limito a qualche nota veloce e sparsa sulle cose più interessanti.
Non posso non iniziare da Bersi Serlini: la signora Chiara mi ha accolto come sempre in maniera splendida e mi ha fatto assaggiare un nuovo prodotto che ho gradito molto per freschezza, vivacità o originalità: il Brut Anteprima, dalla vivacità spiccata declinata in una mela verde croccantissima. Un bidone intero per l’estate, please.

Sarebbe facile parlare bene dell’Annamaria Clementi Riserva 2005 di Cà del Bosco, così come del Pas Operè 2007 di Bellavista, ma anche inutile, vista la fama.
Preferisco quindi spendere due righe per qualche outsider (perlomeno per me) come Chiara Ziliani, che sia nel Brut che nel Saten mostrava due vini con piacevoli ed intensi accenti di lievito, il Rosé di Cortebianca, strutturato e selvatico, la delicatezza floreale del Saten 2010 de Il Mosnel, la personalità e la buona persistenza del Demetra Brut di Mirabella, la unicità dei sentori di pesca bianca del Saten di Montenisa, la verticalità carica e decisa del Brut 2009 di Vezzoli.

Piccole delusioni: Uberti, con qualche sentore scomposto sia nel Brut Francesco I che nel Comari del Salem, e Monterossa, che mi è sembrato un po’ grossolano in entrambi i vini. Spero di cambiare le mie impressioni con un prossimo assaggio.

Impressioni finali: buona qualità media, un po’ troppi vini certamente ben fatti ma senza una personalità spiccata, ma c’erano 62 prodotti in degustazione e di certo un non esperto come il sottoscritto a metà batteria inizia a perdere le capacità palatali e un po’ di concentrazione.

Che dire, se non i complimenti per la superba organizzazione e la speranza di rivedere il Festival Franciacorta dalle mie parti anche il prossimo anno (o anche prima: non mettiamo limiti alla provvidenza). Se la manifestazione fa tappa dalle vostre parti, non fatevi sfuggire l’occasione.

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Vinum Alba: occasione quasi mancata?

Spiace non poter dire tutto il bene possibile di una manifestazione di Langa, territorio benedetto per i vini, per di più ospitato in una cittadina deliziosa come Alba, ma qualcosa non funziona.
Andiamo per ordine: sabato sono stato per la prima volta a Vinum, giunta nel frattempo alla trentottesima(!) edizione; il sottotitolo della manifestazione dice tutto: “Fiera Nazionale dei vini di Langhe e Roero”, e dovrebbe essere ben più che abbastanza, visto che sono poche le zone al mondo che possono vantare una concentrazione qualitativa e quantitativa così importante come quella presente in questi territori piemontesi.

Che dire poi di Alba? In quale altro paese scendi dall’auto e vieni avvolto dal profumo di cioccolata e nocciole a metterti di buon umore? E quale altra cittadina sarebbe in grado di non essere messa in ginocchio dalla presenza contemporanea di Vinum, del mercato settimanale e di una beatificazione nella piazza del Duomo? Alba è invasa di persone, ma riesce comunque in qualche modo a restare vivibile, a farti trovare parcheggio e a farti camminare senza essere travolto. Complimenti.

vinumDetto questo, Vinum mi ha lasciato parecchio perplesso. Vediamo perché.
All’ingresso della (bella e comoda) struttura dell’Ente Fiera del Tartufo, dopo aver raccolto una brochure molto ben fatta, si può acquistare un “Carnet Degustazioni del valore di 15 Euro che darà diritto a: calice in vetro e taschina porta bicchiere, 10 degustazioni tra cui: 7 per i grandi Rossi di Langhe e Roero, 2 per i bianchi del territorio, 1 per l’Asti Spumante o Moscato d’Asti DOCG”.
Sembra bello? Insomma…
Normalmente in questo genere di manifestazioni si paga all’ingresso e si degusta quello che si vuole, qui ai banchi di Barolo, Barbaresco (e mi pare anche Roero) vengono “bucate” due degustazioni per ogni assaggio. Significa che con 15 euro si ha diritto a soli tre assaggi di questi vini, e ne resta uno per i “minori” nebbiolo, barbera, freisa ecc.
E’ facile capire che, facendo un percorso di assaggio di buon impegno, visto che normalmente non ci si muove da casa per 3 o 4 degustazioni, si spende un capitale….

vinum2Ancora: i vini in degustazione sono molti, ma pochi i grandi nomi, e la cosa stupisce, visto che ci si trova nel cuore delle Langhe…
Pazienza, pensavo di consolarmi facendo una perlustrazione dei vitigni meno battuti, anche in questo caso ho avuto poco successo: ai banchi trovo solo tre Freisa e un (UNO!) Pelaverga!

Proseguiamo: esibendo la tessera AIS il carnet di degustazione viene via a 12 euro (invece che a 15). Peccato che l’acquisto contemporaneo del carnet + workshop del pomeriggio (“Menzioni Geografiche aggiuntive del Barbaresco”, relatore Giancarlo Montaldo), non è invece scontabile…

Concludo: il famigerato carnet di degustazione consente anche lo sconto per un aperitivo con “Alta Langa Metodo Classico” in alcuni bar convenzionati del centro storico. Bene: credo che il Consorzio dovrebbe assicurarsi che, come è accaduto nel mio caso, non venga servito un vino anonimo, chiaramente aperto non in gran forma (eufemismo…), con un triste contorno di cibarie di scarsa qualità.

vinum3Un appunto sullo workshop del pomeriggio: bella sala, luminosa, spaziosa, ottima visibilità e  acustica. Ottima e chiara introduzione al Barbaresco e alla storia delle Menzioni Geografiche Aggiuntive; peccato che di dette Menzioni non sia chiara l’utilità, visto che come spiegato chiaramente dal relatore non hanno attinenza con la qualità e non identificano neppure una caratteristica specifica, visto che all’interno della stessa Menzione, talvolta molto estesa, appartengono vigneti diversi, persino con esposizioni e terreni differenti…

Insomma, una manifestazione con luci ed ombre, a mio modesto parere riservata più ad un pubblico “casuale” che ad appassionati e professionisti del settore.

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Monsupello Nature

Storica azienda situata in quel territorio un po’ misconosciuto e un po’ bistrattato che è l’Oltrepò Pavese, Monsupello è una delle più solide e storiche realtà spumantistiche (e non solo) italiane. Personalmente lo ritengo uno di quei marchi cui rivolgermi quando ho voglia di bolle di qualità certa ad un prezzo adeguato.

Enclave del pinot nero italiano, l’Oltrepò Pavese gode di poca fama rispetto alle potenzialità, forse a causa di un consorzio poco visibile o della incapacità di “fare sistema” in maniera adeguata delle aziende più importanti (penso ad esempio a quel che è stato realizzato da una ottima mentalità imprenditoriale in Franciacorta).

Sia quel che sia, Monsupello, con i suoi 50 ettari sforna ogni anno duecentomila bottiglie, buona parte delle quali destinate a sei tipologie di metodo classico, una delle quali è il Nature oggi in assaggio.
La metodologia di produzione è classica: pressatura soffice, fermentazione in acciaio a temperatura controllata, poi la composizione della cuvè (90% pinot nero, 10% chardonnay), il tiraggio e il riposo di almeno 30 mesi sui lieviti.

monsupelloDenominazione: DOCG Oltrepò Pavese
Vino: Nature
Azienda: Monsupello
Anno: –
Prezzo: 19 euro

Giallo dorato con curiosa sfumatura ramata, bello e particolare; bolle fini, continue, numerosissime. L’olfattivo è di crosta di pane, frutta secca e qualche ricordo boschivo di matrice pinot nero. Non particolarmente complesso o intenso ma piacevole.

L’attacco è intenso, con il sorso deciso: il pinot nero riempie la bocca e scalpita. L’acidità e soprattutto la sapidità sono muscolose e senza compromessi ma non fastidiose. Ovviamente l’equilibrio è spostato verso le durezze in modo deciso: siamo in presenza di un metodo classico non dosato e si sente.
Il corpo è importante e il finale ha persistenza media, senza fastidiosi accenti amari. Sboccatura 2013.

Sicuramente un vino da pasto, da affiancare facilmente a salumi da sgrassare, magari provenienti dalle medesime zone di produzione, per un abbinamento certo scontato ma di sicura efficacia.

Il bello: olfattivo non troppo ricco
Il meno bello: selvatico, dritto, ispido ma gradevole

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Bolle dal paradiso: Haderburg

HaderburgD’accordo, non conta nulla e importa a pochi, ma se potessi assegnare il premio per l’azienda agricola (intesa come vigneti, posizione, panorama e tutto quel che ne consegue) più bella e coreografica mai visitata, il titolo verrebbe assegnato alla Azienda Agricola Haderburg. No contest, vittoria per ko tecnico.

Certo, immagino che la vittoria sia stata favorita dall’aver raggiunto le alture circostanti Salorno (più precisamente: Località Pochi) in questo mese di Aprile cui la primavera un po’ strampalata regala montagne con neve in gran quantità fino ancora a 1300 metri, bianchissimi meli in fiore in tutta la Piana Rotaliana, erba dal verde abbacinante e 26 gradi di temperatura, ma effettivamente la location (come dicono quelli moderni) ha pochi rivali.

HaderburgPochi concorrenti ha anche l’accoglienza della famiglia Ochsenreiter: con il Vinitaly in pieno svolgimento abbiamo comunque tentato il colpaccio chiamando il mattino per prenotare una visita di lì a pochi minuti. Pensavo ad una pernacchia, invece ci è stato risposto che qualcuno (nella fattispecie il gentile figlio del titolare Alois) è sempre presente in azienda e ci avrebbe accolto volentieri.

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Haderburg Detto fatto, in pochi minuti si sale in auto da Salorno fino alla collina che ospita il podere Haderburg, abbarbicato a circa 400 metri di altitudine sul confine meridionale dell’Alto Adige, a dominare l’immensa distesa di vigneti e alberi da frutta che circonda il corso dell’Adige, con le Alpi in secondo piano che incorniciano il tutto.
In una tersa e fiorita giornata primaverile come quella in cui sono incappato il panorama è difficilmente eguagliabile.

L’azienda, i cui prodotti più noti sono indubbiamente i metodo classico, vinifica dal 1977 e ormai da molti anni si è convertita a regime biodinamico; i cinque ettari e mezzo di vigneti a pergola modificata del maso Hausmannhoff, piantati su terreno fangoso e argilloso rivolto a Sud-Ovest, sono quelli da più tempo di proprietà della famiglia e servono a produrre le bottiglie più prestigiose; ci sono poi altri tre ettari in Valle Isarco, dedicati a Müller-Thurgau, Pinot grigio, Riesling, Sylvaner, Gewürztraminer e Kerner.

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La gamma dei vini spumanti mi era già ben nota (ne ho parlato ad esempio qui e qui), ma un ripasso non fa mai male: il Brut base (85% chardonnay, 15% pinot nero, 24 mesi di affinamento sui lieviti, no malolattica) è un prodotto sincero, che non tradisce mai e dal prezzo sicuramente corretto; il Pas Dosé (85% chardonnay, 15% pinot nero, 36 mesi sui lieviti, no malolattica) secchissimo e nervoso, aggiunge sapidità e pienezza; il Rosè (60% pinot nero, 40% chardonnay, 24 mesi sui lieviti) gode di uno straordinario colore e presenta piacevoli e intensi richiami ai piccoli frutti di bosco.

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Il top di gamma è l’Hausmannhof 2004 (100% chardonnay, affinamento di un anno in piccole botti di legno, non svolge la malolattica e poi 8 anni sui lieviti; in precedenza erano 10, se non vado errato), per il quale vale la pena spendere qualche parola in più: bel giallo dorato, luminoso, con bollicine sottili (forse non numerosissime) che in bocca si rivelano sorprendentemente morbide, per nulla graffianti e persino troppo addomesticate.
Olfattivo di buona intensità, ricco di pasticceria e fiori maturi.
Il primo sorso è leggero e poi cresce di intensità nella parte centrale e finale dell’assaggio.
Estremamente scorrevole: l’acidità c’è ma è ben mascherata e in generale è difficile discernere la varie componenti: tutto concorre ad una sicura rotondità, mai piaciona o noisamente morbida, ma sempre elegante e composta.
Bella chiusura, senza amarezze e con discreta lunghezza: resta un piacevole ricordo sapido.
Ottimo vino, dal prezzo comunque importante, al quale (se mi è consentito muovere un appunto), chiederei un po’ di spunto brioso in più.

Non avevo mai assaggiato i vini fermi, e l’impressione generale è sicuramente di prodotti di buon livello, con una punta di eccellenza per il Pinot Nero Riserva Hausmannhof (affinamento per 12 mesi in barriques nuove e altrettanto tempo in legno già usato): la sera precedente al ristorante avevamo bevuto questo stesso vino nel millesimo 2004 restandone fortemente colpiti per rotondità e freschezza ma anche finezza del tannino e per la buona persistenza. Il 2010 (al momento molto giovane) promette altrettanto: ne ho prese un paio di bottiglie da lasciare in cantina qualche anno.
Convincente il Pinot Nero: più semplice e immediato rispetto alla Riserva, dimostra comunque grande freschezza e facilità di bevuta.9 Molto interessante il passito Perkeo (Gewürztraminer e Petit Manseng): acidità notevole, gradazione non eccessiva e corpo piacevolmente scorrevole lo rendono per nulla stucchevole nonostante la dolcezza e l’aromaticità spiccata.
Il vino che ho trovato meno convincente è il Riesling: poca personalità, corpo sfuggente, olfattivo un po’ banale.

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