Confini 2010, Lis Neris

A volte (forse sempre) si sceglie di comperare un vino anche per suggestione, e a me questa bottiglia intrigava già sullo scaffale: un nome, Confini, evocativo tanto più se accostato ad un prodotto che viene da quella terra di grandi bianchi che è il Friuli e che del limite di territorio è quasi epitome.

confiniDenominazione: Venezia Giulia Bianco IGT
Vino: Confini
Azienda: Lis Neris
Anno: 2010
Prezzo:25 euro

E allora parliamone della bottiglia, prodotta in provincia di Gorizia, nella Valle dell’Isonzo dalla azienda Lis Neris, 70 ettari declinati soprattutto in bianco ma non solo, in questo caso in particolare assemblando uve Gewürztraminer, Pinot Grigio e Riesling ottenendo un liquido giallo dorato, caldo, compatto, di decisa matericità già dalla roteazione.
Un vino “grosso” che si conferma tale anche negli aspetti olfattivi, dove è ovviamente l’aromatico a farla da padrone con i suoi aromi di rosa, litchi e altri frutti tropicali surmaturi. Certo, il fatto che il Gewürzt non sia l’unico vitigno in gioco contribuisce a scongiurare il pericolo di eccessiva sfacciataggine e di stucchevolezza.

In bocca è decisamente di corpo, caldo, secco ma di quella secchezza un po’ morbida che contraddistingue il Gewürztraminer; si avverte il Pinot Grigio, con le sue striature sapide e non si palesa il temibile effetto mappazza grazie ad una buona spalla acida, probabilmente apportata dalla quota di Riesling. Finale abbastanza lungo ma con un eccesso di amarognolo.

Vino particolare, decisamente da abbinamento: cucina fusion, con influssi orientali e speziature importanti.

Il bello: gran corpo e aromaticità ben gestita

Il meno bello: finale non del tutto a registro

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Perlé 2008, Ferrari

E allora diciamolo, che noi enofili da computer siamo degli snob mica da poco. Scrivo queste righe dopo aver provato a dare una occhiata a cosa dice “la rete” su un prodotto magari non di massa ma certo molto noto come il Ferrari Perlé (2008, nell’occasione).
Bene, un mezzo deserto: praticamente nessuno di noi bloggaroli e maniaci che si degni di perdere due minuti a vergare un parere, quando invece è facile leggere opinioni praticamente su tutto, dal vino macerato della Georgia ai Retzina dalla Grecia.

Ed è un peccato, perché per il mio modestissimo parere questa bottiglia, a questo prezzo, regge tranquillamente il confronto con molti metodo classico blasonati, d’oltralpe e non; semmai sconta il delitto di essere marchiata dallo stesso produttore che inonda la GDO con altri spumanti  (dignitosissimi, peraltro).

perleDenominazione: Trento DOC
Vino: Perlé
Azienda: Ferrari
Anno: 2008
Prezzo: 25 euro

Quindi come lo descriviamo questo vino?
E’ metodo classico importante, giallo paglierino carico, ricco di sfumature tostate in primis, ma anche di agrume e di panificazione.
La bolla è giustamente nervosa e decisa, e l’assaggio è ricchissimo ma ben bilanciato: fresco, sapido, gustoso, persistente.
Unico difetto: le note tostate tornano anche al palato e sono un poco eccessive se non si pasteggia, rendendo il sorso non del tutto compulsivo, ma basta saperlo e destinare il vino al suo uso d’elezione, la tavola imbandita, per ovviare ad ogni problema.

Il bello: la ricchezza gustativa

Il meno bello: piccolo eccesso di note tostate

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Mare e Mosto 2016

Sulla carta è solo il secondo passaggio per Mare e Mosto, la rassegna dei vini liguri, ma in realtà l’organizzazione viene da lontano, da quando la manifestazione si chiamava in altro modo e si svolgeva in altra città, ed è proprio questa genealogia a spiegare il motivo per cui, nonostante la gioventù, il tutto sia gestito a puntino: dalla sede molto bella, comoda da raggiungere e con adeguati spazi all’aperto per favorire i momenti di riposo, alle sputacchiere che sono molte e costantemente svuotate, da acqua e pane abbondanti alla consegna all’ingresso di matita e libricino con gli spazi per annotazioni (a proposito: a quando la prima fiera con app dedicata allo scopo,  con mappa dei produttori presenti, elenco dei vini di ciascuno e possibilità di commento, magari poi inviato in diretta “social”?).

Ci sono poi tanti incontri collaterali: degustazioni, dibattiti, la finale per il titolo del migliore sommelier di Liguria e la costante supervisione dei tanti membri AIS coinvolti. Insomma, una manifestazione riuscita che ha il suo punto focale nella possibilità di “fare il punto” sulla gran parte dei vini liguri, con il bonus della presenza di un consorzio ospite (lo scorso anno era il Trento DOC, stavolta il Soave) e un piccolo minus: gli stand del cibo decisamente non all’altezza.

20160509_162042Subito al punto: non ho fatto una degustazione approfondita dei vini regionali (a quella mi dedicherò partecipando alle sessioni della guida dell’AIS), ma piuttosto una carrellata di assaggi più edonistica che tecnica; la prima cosa che ho notato è che fortunatamente non mi sono capitati casi di prodotti portati in assaggio palesemente troppo giovani come in passato, la seconda è che i nomi che più restano in mente sono sempre quelli dei “pesi massimi” regionali: i Cinque Terre di Cappellini con il loro afflato marino, le sperimentazioni di De Battè, sulla carta estreme ma poi in bocca godibilissime, la precisione millimetrica di Santa Caterina (che portava per la prima volta una lunga macerazione di vermentino: straordinario come Andrea Kilgren sia riuscito a mantenerlo fresco e bevibile), l’eleganza assoluta dei Rossese di Giovanna Maccario, l’ampiezza dei Pigato di Bruna.
E poi, come perdersi l’ennesimo show dell’anarchico scienziato pazzo Fausto de Andreis (Le Rocche del Gatto), che ogni anno porta in degustazione non due o tre annate, ma cinque o sei o persino di più, sia di Vermentino che di Pigato e anche dello Spigau (la selezione di Pigato)) e te le fa assaggiare tutte e si offende pure se cerchi di saltare qualcosa.

20160509_144237 (Medium)La delusione è venuta dal Soave: la Garganega è un uva dalle potenzialità straordinarie (e pure la Durella), soprattutto in invecchiamento, ma il Consorzio ha deciso di farsi rappresentare da molti vini giovanissimi e spesso banali, caratterizzati da spettri olfattivi imbalsamati sui canonici e impersonali frutti tropicali e banane, e da una serie di spumanti poco incisivi e molli.
Tra questo panorama poco interessante mi piace segnalare due metodo classico che spiccavano nettamente sugli altri, Il Lessini-Durello Marcato 36 mesi e 60 mesi: complimenti erano buonissimi, peccato che come accadeva con altri colleghi, al banchetto non fosse presente il produttore…

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Arione 2013, Piccinin

Oggi si parla di un metodo classico diverso: diverso per la provenienza, estranea ai soliti circuiti francesi (Champagne) o italiani (Franciacorta, Trento, Alta Langa ecc.), per il vitigno utilizzato (la Durella, che viene partecipa con successo a tante spumantizzazioni ma insomma, non è certo Chardonnay o Pinot Nero…), e per quanto posso intuire mi pare diverso anche il metodo produttivo. Ma andiamo con ordine.

La piccola cantina nella provincia di Verona (circa 15000 bottiglie) è quella di Daniele Piccinin, folgorato sulla via di Angiolino Maule, tanto da diventare vicepresidente di Vinnatur con tutto quel che ne consegue: vigne in cui viene limitato l’intervento dell’uomo e quindi ricche di piante spontanee, uso esclusivo di preparati vegetali e rame e zolfo, nessun intervento in cantina eccetera.

In passato ho assaggiato qualcuno dei suoi vini in vari banchi di assaggio, e li ho trovato piacevoli ma oggettivamente “derivativi”, nel senso che ho riscontrato più una somiglianza con i prodotti di Maule, ma stavolta Piccinin si è avventurato in un territorio nuovo, la spumantizzazione, realizzando il metodo classico Arione di cui tira circa 4500 bottiglie.

Avvertenza, questa è una degustazione senza rete: di solito scrivo quel che penso, ma poi butto un occhio al sito per produttore per verificare di non avventurarmi in idiozie sesquipedali sulla metodologia di produzione, ma stavolta non trovo alcuna informazione, quindi sappiatevi regolare…

Arione-MC-Daniele-Piccinin-20160428114356764Denominazione: VSQ
Vino: Arione
Azienda: Daniele Piccinin
Anno: 2013
Prezzo: 20 euro

Il colore dorato intenso lascia pensare al legno o piuttosto ad una breve macerazione, e il naso sembra confermare questa seconda impressione: i profumi sono molto intensi di frutta quasi surmatura.

La carbonica è piuttosto delicata sul palato e il è calore moderato; a spiccare più che la freschezza (che comunque non manca) è la grande sapidità, che resta a lungo in bocca anche a sorso completato e mi pare di avvertire anche un filo di astringenza da tannino, ulteriore conferma della avvenuta macerazione; si chiude con un corpo agile, sottile ma non magro e un finale di discreta lunghezza.

Sicuramente una bevuta diversa dal solito, magari non elegantissima come si è abituati a pensare quando si tratta un metodo classico con lunghi mesi di affinamento, però comunque piacevole e interessante.

Vino da provare in abbinamento a crostacei e frutti di mare: la contrapposizione tra la sapidità spiccata del vino e la tendenza dolce del del cibo promette interessanti sinergie.

Il bello: personalità, sapidità

Il meno bello: complessità e finezza un po’ limitate

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Erbaluce Fiordighiaccio 2015, Produttori Erbaluce

Questa non è una recensione, semmai un appunto veloce.

e_fior_gjiaccioHo comperato una bottiglia di Fiordighiaccio: avevo voglia di qualcosa che non mi capita mai di bere e ho chiesto un vino semplice e poco costoso; mi è stata proposta questa bottiglia della cantina sociale Produttori Erbaluce di Caluso alla folle cifra di 5 euro e mezzo, come facevo a rifiutare?

Come era?
Un vino a cui trovare difetti era sinceramente impossibile, profumatissimo, leggero ma con una presenza degna e una discreta verticalità.
Il problema (se di problema si può trattare) è che si vede lontano un miglio che si tratta di un prodotto estremamente tecnico, lo capisci dal colore esilissimo, dagli aromi quasi esagerati, dalla pulizia estrema del sorso…
Difatti a posteriori ho scoperto ad esempio che in cantina viene eseguita la criomacerazione.

Dunque? C’è qualcosa di male nel “costruire” un vino in questo modo, cioè usando la tecnologia, e ovviamente senza ricorrere ad adulterazioni non previste dalla legge?
No, io credo (anzi sono sicuro) che non ci sia nessun problema nell’utilizzare queste pratiche di cantina, in particolare se si riesce poi a realizzare un prodotto di questo buon livello a questo ottimo prezzo; il problema, semmai, è che un vino così (che ho usato come piacevolissimo accompagnamento ad un antipasto) non trasmette nessuna sensazione di particolarità, di unicità, di scoperta, e non voglio neppure stare a scomodare la secondo me abusatissima territorialità.

Ma cerchiamo di capirci, queste riflessioni sono del tutto personali, senza alcuna valenza oggettiva, e nulla tolgono al valore della bottiglia; soprattutto, forse sono emblematiche del rapporto non del tutto “sano” che abbiamo noi appassionati con il vino: ci facciamo forse tutte queste domande quando mangiamo una bistecca o un pomodoro? Non ci basta sentirli gustosi, succosi, in una parola “buoni”?
Perché ad un vino chiediamo anche qualcosa di altro? Non è che abbiamo voglia di suggestione e ogni tanto esageriamo?

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Dosaggio Zero, Maso Martis

Mi è frequente avere conferme sul Trento DOC: nella fascia di prezzo umano, quello più accessibile da noi consumatori comuni, è abbastanza facile incontrare prodotti di buon livello. Perlomeno, è più facile rispetto a quanto accade con altre zone più di moda (Franciacorta, per non far nomi).

Oggi ho stappato la bottiglia di una azienda (certificata biologica) rappresentante di questa tipologia di Metodo Classico “di montagna”, Maso Martis, che conduce 12 ettari, situati a 450 metri di altitudine, sopra a Trento, per una produzione di circa 60.000 bottiglie l’anno.

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Denominazione: Trento DOC
Vino: Dosaggio Zero
Azienda: Maso Martis
Anno: –
Prezzo: 25 euro

Il vino in questione è il Dosaggio Zero, composto al 70% da Pinot Nero e al 30% da Chardonnay; la metodologia di produzione prevede che le uve bianche vengano fermentate e affinate in barriques, mentre quelle nere solo in acciaio; i mesi di riposo sui lieviti sono 24 e non si aggiunge liqueur d’expedition.

Colore paglierino-verdolino, con bolla millimetrica e bel naso fine, di fiori e agrumi con accenni minerali e di nocciola, sottile ma non anemico, molto elegante.
Il sorso è ricco, pieno, gustoso, materico, con carbonica che solletica tramite punture decise ma fini; sicuramente fresco e sapido e anche molto equilibrato: quasi non sembra un dosaggio zero per come si stacca dalla moda di certi estremismi arriccia-gengive.

Finale non particolarmente lungo, con accenno di mandorla che fortunatamente non arriva a definirsi nell’amaro.

Il bello: bellissimo spettro olfattivo e sorso gustoso

Il meno bello: manca un po’ di lunghezza, finale non finissimo

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Satèn, Corte Fusia

Ogni tanto mi piace rituffarmi nel mare di proposte dei Franciacorta per capire se nell’oceano di bottiglie ci sia qualcosa di nuovo che emerge. Il problema secondo me è sempre il medesimo: la qualità generale è buona con punte di eccellenza, il Consorzio lavora benissimo rispetto agli omologhi di altre denominazioni, il marchio è forte e “tira”, ma il prezzo medio è alto e secondo me c’è una diffusa mancanza di personalità.

Ho voluto provare stavolta il Satèn di Corte Fusia, una giovane azienda di cui ho letto belle cose che mi hanno incuriosito; il territorio è quello di Coccaglio, zona Monte Orfano, con 5 ettari coltivati con i classici vitigni Pinot nero, bianco e Chadonnay, da cui si ricavano circa 20.000 bottiglie l’anno, declinate in quattro tipologie: Brut, Rosé, Zero e appunto Satèn.
Ho scelto il Satèn seguendo il consiglio di una persona fidata, e anche perché tutto sommato si tratta di una tipologia che tendo solitamente a trascurare in favore del classico Brut o del “modaiolo” Dosaggio Zero.

saten_bottigliaDenominazione: Franciacorta DOCG
Vino: Satèn
Azienda: Corte Fusia
Anno: –
Prezzo: 22 euro

I dati della scheda tecnica parlano di un vino ottenuto da uve 100% chardonnay con residuo zuccherino estremamente contenuto (2 g/l), ottenuto tramite fermentazione in acciaio e affinamento sui lieviti di 30 mesi.

E’ un bicchiere che mi lascia perplesso, si tratta di uno di quei vini di cui non si riesce a parlare con completezza: non c’è nulla di stonato o fuori posto, ma per qualche motivo non arriva nessuna emozione particolare, anzi la bevuta resta piuttosto anonima.
All’occhio trovo un verdolino paglierino con bolle sottili, mentre l’olfattivo concede qualche sbuffo di lievito molto timido e poco altro.

L’assaggio denota morbidezza da satèn, appunto, con bolle decisamente tranquille (anche un po’ troppo, a parer mio), acidità nella norma, e dosaggio ben contenuto; si chiude con qualche sentore di frutta secca, appena al limite con un finale amaro, per fortuna è solo accennato.

Nel complesso come dicevo nulla di sgradevole: un vino che forse ha il suo migliore uso a pasto, dove, in abbinamento a portate poco strutturate, è capace di farsi spalla silenziosa e tranquilla. Peccato che ad un vino di prestigio come un Metodo Classico io chieda qualcosa in più.

Il bello: discreto accompagnatore a tavola

Il meno bello: poca emozione

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Chiesino, Podere di Rosa

Il Podere di Rosa è una azienda agricola con annesso agriturismo in provincia di Lucca; ora, io non ho messo piede nell’agriturismo (e questo poco importa) ma soprattutto conosco poco e nulla i vini dei questa zona della Toscana, per questo ho colto la palla al balzo quando mi è stato proposto l’acquisto del Chiesino, un IGT Toscana bianco, prodotto da prevalenza di Vermentino e saldo di Trebbiano, con la ormai tipica tecnica dei cosiddetti “vini naturali”: fermentazione spontanea con lieviti indigeni, nessun controllo della temperatura, nessuna filtrazione e chiarifica.

Mi accingo quindi all’assaggio scevro da pregiudizi, la condizione migliore.

al-podere-di-rosa-chiesino-igt-toscano-biancoDenominazione: IGT Toscana
Vino: Chiesino Bianco
Azienda: Podere di Rosa
Anno: 2014
Prezzo: 12 euro

Giallo, di un dorato che già si capisce dove andremo a parare, e il naso conferma i presupposti: la leggera volatile che arricchisce e veicola i profumi di erbe di campo e di camomilla racconta di una leggera ma decisa macerazione.
Per fortuna la volatile è dosata col calibro (anche se per qualche purista sarà certamente al limite dell’accettabile,  di certo non trapana il naso) e serve solo come coadiuvante degli altri aromi; a me, ogni tanto, un vino con queste caratteristiche non spiace: basta sapere prima a cosa si va incontro e passa la paura.

in bocca ricorda la frutta leggermente acerba ma è garbato, con corpo semplice (non esile), discrete freschezza e sapidità e alcol poco avvertibile. Anche in questa fase, si capisce che ha macerato, ma è altrettanto chiaro che il produttore ha usato la mano leggera: non c’è tannino e, vivaddio, neppure quella pesantezza di bevuta che talvolta marca troppo nettamente i vini che fanno uso di questa tecnica.

Bottiglia semplice ma non banale e dal sorso facile, che consente un buon abbinamento con cibi saporiti: con me ha funzionato bene accompagnando ravioli di gorgonzola e pera.

Attenzione, perché immagino a causa dell’uso limitato di solforosa o chissà per quale altro motivo, il giorno successivo la bottiglia cambia nettamente carattere, alzando i toni e sviluppando in fretta sentori ossidativi non sgradevoli ma piuttosto evidenti.

Il bello: bevuta coinvolgente e saporita

Il meno bello: volatile un po’ al limite

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Live Wine Milano 2016

E’ con colpevole ritardo che scrivo e pubblico qualche riga su Live Wine; era la mia prima alla manifestazione milanese e devo dire di essere rimasto stupito dalla professionalità della organizzazione: tutto di alto livello, dal numero e dalla qualità dei produttori, proseguendo con la sede spaziosissima e luminosa, con i tanti eventi a corollario (ad esempio le degustazioni guidate), gli ottimi banchi gastronomici, il libricino con la mappa dei partecipanti, l’area riservata per la stampa, eccetera.
Ho presenziato tutto il sabato pomeriggio e, nonostante il notevole afflusso di visitatori, ancora verso le 18 c’era possibilità di degustare in maniera decente. Complimenti sinceri all’organizzazione: faccio un nodo al fazzoletto virtuale per ricordarmi di partecipare il prossimo anno e consiglierò altrettanto a chi mi conosce.

Live WinePer il resto: davvero tanti i produttori presenti nonostante che il maltempo improvviso (con tanto di nevicate) abbia reso difficoltoso il transito ad esempio dalla Francia all’Italia e aggiungo che forse per la prima volta ho apprezzato anche gli stand dei distributori presenti: sarà un caso ma perlomeno a quelli da cui mi sono fermato mi hanno servito persone che conoscevano bene i prodotti proposti e non hanno fatto rimpiangere l’assenza dei produttori, anzi è stata l’occasione di fare assaggi di vini di tipologie molto diverse, magari estemporanei ma divertenti.

Devo proprio fare i nomi di qualche produttore o vino che mi ha colpito? Gli elenchi mi annoiano e appunto li trovo riduttivi nell’economia di una manifestazione così riuscita, ma vabbè, mi limito a qualche appunto sparso con note veloci.
Dopo lunga (mia) assenza torno ad assaggiare Podversic e non posso non annotare la vitalità e la simpatia dell’uomo, che rispondeva sempre disponibilissimo e con un sorriso a tutta la folla che lo accerchiava. I vini? Tra i pochi a saper macerare in modo da mantenere facilità di bevuta e identità di vitigno e territorio (e scusate se ho scritto un termine stra-abusato e poco significativo, “territorio”).

Il Cannonau non è sicuramente uno dei vini del mio cuore, ma se capita quello di Montisci non posso fare a meno di godermelo.Live Wine

Continuo a non familiarizzare con i vini di Pepe, perlomeno con i bianchi: il Trebbiano che mi è stato servito secondo me non era del tutto a posto, ma la persona al banco mi ha confermato che era proprio lui… boh, ne deduco sia colpa mia. Ritenterò.

Il Camerlengo lo avevo assaggiato anni fa, poi non mi era più capitata l’occasione, e mi si conferma un vinone nel senso migliore del termine: pieno, caldissimo, succoso, robusto ma bevibile. Devo tentare una bottiglia a pasto invece che un semplice assaggio per capire se non sia “troppo”.

I bicchieri serviti da Corte Sant’Alda mi fanno ricordare come mi piacciono i vini della Valpolicella e come troppo poco li frequenti.

Mi sono piaciuti molto i vini Alsaziani di Geschickt, magari troppe tipologie per analizzarle a fondo in cinque minuti, ma i Riesling erano ben fatti e tipici, freschi, sapidi, capaci di invecchiamento. Più semplice ma ben godibile il Cremant.

Per chiudere, mi piace spendere qualche secondo per Chateau Tour Blanc, produttore da una zona, l’Armagnac, nota per altri liquidi alcolici piuttosto che per i vini. E’ stata una bella sorpresa assaggiare una batteria di bottiglie di millesimi e di parcelle diverse, tutte da un vitigno poco considerato (l’Ugni Blanc, il nostrano Trebbiano) e tutte di notevole interesse e, mi pare di aver capito, prezzate in maniera decisamente abbordabile.

Ancora complimenti all’organizzazione. Ci vediamo l’anno prossimo!

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Champagne Brut Grand Cru Millesime 2009, Camille Saves

Altra bottiglia di un produttore dal quale fino ad oggi ho sempre ricevuto buone impressioni qualitative, con il bonus di prezzi sempre civilissimi.
Ricordo che l’azienda possiede 10 ettari nella zona della Montagna di Reims, quindi particolarmente vocati per il pinot nero, a Bouzy, Ambonnay e Tours sur Marne (tutti classificati Grand Cru) e a Tauxières (Premier Cru) sè. La produzione è piccola e si aggira sulle 85.000 bottiglie.

L’etichetta sembra di quelle di prestigio: è un Grand Cru formato da Pinot Nero all’80% e Chardonnay al 20% dalla vendemmia 2009. Vinificazione e fermentazione in acciaio inox,  malolattica non svolta, ben 5 anni di affinamento sui lieviti e disaggio di 8 g/l.

champagne-camille-saves-millesime-2009-brut-gcDenominazione: Champagne
Vino: Champagne Brut Grand Cru Millesime 2009
Azienda: Camille Saves
Anno: 2009
Prezzo: 25 euro

Il bicchiere è piuttosto curioso, se il colore è il solito bel paglierino carico, la bolla sembra invece stranamente un po grossolana, peraltro già la prima sniffata mette tutto a posto: potente, floreale e ricco di agrume (l’ananas in particolare), magari non particolarmente complesso ma godibilissimo.

La paventata rozzezza della carbonica in bocca non si sente, e il sorso è pieno, grasso non di mollezze e vaniglia ma di gusto fruttato e di robustezza che sembra crescere col passare dei minuti. Notevole l’acidità, che regala una decisa scossa al palato, per nulla appiattita da un dosaggio inavvertibile; la materia importante è ben equilibrata dalla freschezza e da un discreto allungo.

Non è un fuoriclasse, non ne ha la profondità, ma è certamente un campioncino di bevibilità: funziona bene prima e durante i pasti, a patto di abbinarlo a preparazioni non troppo strutturate.

Il bello: ricco, si beve bene

Il meno bello: manca un po di complessità

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