Dalle stelle alle stalle: Summer Beer Festival

Dalle stelle alle stalle: passare in pochi giorni e in pochi chilometri dalla teutonica perfezione organizzativa di Terroir Vino a Genova all’indefinibile Summer Beer Festival di Chiavari regala la straniante sensazione della realizzabilità dei viaggi spazio-temporali.

In poche parole, è un periodo in cui ho poco tempo, quindi decido di farci un salto sabato pomeriggio: alle 16 e 20 circa sono all’ingresso. Ci siamo io, la tensostruttura e la polvere, mentre elementi magari poco coreografici ma abbastanza essenziali come il tizio alla cassa e quelli che dovrebbero spillare risultano non pervenuti.
Temendo di aver capito male gli orari, mi guardo attorno: tutti i volantini e i cartelli sostengono (come le info su internet) che l’apertura avrebbe dovuto essere alle 16.

Faccio un giro e mi ripresento verso le 16 e 45.
E’ ancora tutto deserto, ma ci sono due ragazzi della Compagnia della Birra che iniziano a mettere a posto i banchi di servizio e un tizio che, mosso a compassione, prova ad aprire la cassa per me, senza successo.
Mi dicono che siccome il giorno precedente la gente è arrivata in massa verso le 20, hanno deciso di aprire dopo…

Sono senza parole, di solito mi incazzo per i canonici 15-30 minuti accademici di ritardo nelle serate e nelle cene di degustazione, ma addirittura veder posticipata l’apertura di una manifestazione di qualche ora è davvero una prima assoluta.

Voglio fare i complimenti ai responsabili della solerte organizzazione, che mi pare comprendesse anche i soliti bicchieri di plastica e il prezzo di 4 (quattro) euro per ogni birra.
I responsabili da elogiare risulterebbero essere tali “Storico, Modà Cafè, Vinoria e Crystal, in collaborazione con Arte Group e la Compagnia della Birra”.
A ciascuno il suo: da quel poco che mi è dato sapere la Compagnia c’entra poco, essendo stata contattata solo per fornire un paio di persone per i laboratori e per le spiegazioni.

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Riesling Wehlener Sonnenuhr Spatlese 2010, Dr. F. Weins-Prüm

Era da troppo tempo che non scrivevo di Riesling, quindi…

Rieccoci nuovamente in Mosella ad assaggiare un vino prodotto con uva proveniente da uno dei vigneti simbolo di questa zona, Wehlener Sonnenuhr, come ci era capitato in passato.
Stavolta l’azienda è Dr F Weins-Prüm, dal nome di uno dei tanti produttori discendenti di Sebastian Alois Prüm, il più famoso dei quali è sicuramente J.J. Prüm.

Lo anticipo subito: questo è uno di quei classici casi di infanticidio, un vino di questa foggia meriterebbe almeno altri 5-7 anni di affinamento prima di essere messo in tavola, ma qualche volta capita che non hai voglia di aspettare, o semplicemente ti capita la bottiglia e sei curioso…

Dr. F. Weins-Prüm Wehlener Sonnenuhr Riesling spatleseDenominazione: Riesling Spatlese
Vino: Wehlener Sonnenuhr
Azienda: Dr. F. Weins-Prüm
Anno: 2010
Prezzo: 21 euro

Colore giallo paglierino brillante, molto carico, si intuisce la corposità già solo osservandolo.
L’olfattivo è intenso, elegante, quasi penetrante, ricco di agrumi, fiori bianchi, spezie; comunque tutti profumi molto freschi.

In bocca è molto grosso, quasi denso, e resta in equilibrio precario tra la grande dolcezza e una acidità notevole. Oltre a quanto prometteva al naso, l’assaggio regala una sorta di marmellata di albicocca, un velo di mineralità pietrosa e un accenno di carbonica residua.

Sicuramente intenso e discretamente lungo, già così è un bel bere, personale e divertente, ma di certo, avendo più pazienza del sottoscritto, maturerà mascherando meglio la spiccata dolcezza con accenti minerali ben più evidenti di quelli odierni.

Il bello: l’olfattivo ricco, complesso, intenso
Il meno bello: l’eccessiva gioventù che non permette un equilibrio ottimale

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Rosé Cuvée del Frati 2009, Ca’ dei Frati

Mea culpa: sono sempre troppo scettico per quanto riguarda i vini metodo classico prodotti al di fuori delle zone tradizionalmente vocate (Champagne, ça va sans dire, Franciacorta, Trento… già l’Oltrepo Pavese mi sembra una roba esotica… ). Si tratta di sensazioni indotte dalla tradizione di certi territori, ma, temo, anche dalla mera quantità di bottiglie prodotte e dal sapiente marketing.
Nel caso di questo Rosé Cuvée del Frati della azienda Ca’ dei Frati di Sirmione il mio scetticismo si moltiplica, trattandosi di bolle rosa (una tipologia che assaggio raramente, a causa di qualche delusione), per giunta prodotte da vitigni non tradizionalmente alfieri della spumantizzazione (Groppello, Marzemino, Sangiovese e Barbera): sono troppo sincero se dico che temevo l’effetto “facciamo già altri vini, buttiamo dentro delle bolle e vediamo che succede”?

cuvee_dei_fratiDenominazioneVSQPRD
Vino: Rosé Cuvée del Frati
Azienda: Ca’ dei Frati
Anno: 2009
Prezzo: 15 euro

Al solito, velocemente i dati tecnici: uve provenienti da Desenzano del Garda, vinificazione in acciaio, malolattica non svolta, 24 mesi sui lieviti.

Intanto il colore è interessante: un bel buccia di cipolla scarico ma luminoso, e la bolla è fine anche se magari non particolarmente copiosa e non molto continua.

Il naso è lieve (c’è un tostato appena avvertibile, contornato da bitter, fragola e rosa), mentre la bocca è piena senza comunque essere potente; più sapido che acido, sicuramente ben fresco e molto equilibrato, con un accenno di tannino; il dosaggio mi sembra ben bilanciato, per nulla fastidioso. Lunghezza discreta, qualche pecca nella complessità.

Quanto sopra per un vino molto facile, non nervoso e verticale ma rotondo (per quanto possa esserlo un metodo classico non stucchevole), dalla bolla non aggressiva, delicato ma gustoso, e con nessuna amarezza finale.
Lo vedo semplice anche nell’abbinamento: direi antipasti di salumi, piatti a base di pesce, preparazioni di carne non troppo strutturate.

Sboccatura indicata in retro etichetta (ma solo l’anno, non il mese: uffa) e buon rapporto qualità prezzo.

Il bello: piacevole, versatilità nell’abbinamento
Il meno bello: semplice, poco sorprendente sia al naso che in bocca

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Tenuta Grillo: Baccabianca 2006

Secondo assaggio per le bottiglie comperate durante la mia visita presso Tenuta Grillo.
Rimando al post precedente per le considerazioni generali e passo subito a raccontare il vino: stavolta si tratta del Baccabianca, un “orange wine” prodotto da Cortese in purezza, lieviti indigeni, senza filtrazione (e si vede) e con lunga macerazione (oltre un mese, mi pare di ricordare, e si vede e si sente).

BaccabiancaDenominazione: Vino da Tavola
Vino: Baccabianca
Azienda: Tenuta Grillo
Anno: 2006
Prezzo: 16 euro

“Orange”, dicevamo: ed in effetti è ambrato, leggermente velato, opalescente.
Portandolo al naso si avvertono una leggerissima volatile (ma è solo un cenno di freschezza), il caramello e una punta di ossidazione (ossidazione “nobile”, se mi è concesso, nel senso che non è fastidiosa, ma aggiunge complessità), accompagnati da floreale ed erbaceo così delicati da risultare inattesi in un vino dall’aspetto non certo gentile.

In bocca è estremamente intenso, ci sono calore, buona freschezza e sapidità, e si avverte una tannicità abbastanza rilevante per un vino bianco, per quanto macerato.
Buon corpo e finale lungo, ma un filo monocorde, come del resto un po’ tutta la bevuta di un vino sicuramente interessante, rustico ma piacevole da bere, cui manca forse uno spunto di dinamismo, di mutevolezza.

Data la struttura non banale e la stoffa non fine, consiglio un abbinamento con cibi non troppo delicati: nel mio caso ha funzionato bene con un vitello tonnato dalla salsa fin troppo “strong”. Raccomando di non servirlo freddo, in modo da non indurire il tannino.

Il bello: intensità di sapore, per nulla banale
Il meno bello: sorso un po’ monocorde

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Balter Brut: ottimo rapporto qualità prezzo

La denominazione Franciacorta goda di notorietà tanto superiore rispetto ad altre realtà spumantistiche italiane per vari motivi: i meri numeri (la quantità di bottiglie prodotte di fatto rende la DOCG lombarda “IL” metodo classico italiano), l’ottimo lavoro di comunicazione svolto dal Consorzio, la grande imprenditorialità delle aziende coinvolte e, certo, una qualità media di buon livello con punte di sicura eccellenza.

Resta il fatto che ci sono altre zone in Italia in cui si imbottiglia ottimo metodo classico, penso in particolare a Trento, che può vantare una ottima propensione territoriale per la produzione di questa tipologia e altrettanta tradizione (basti pensare alle storiche Cantine Ferrari).

Un produttore che non conoscevo e che è entrato recentemente nella mia enoteca di fiducia è Balter: 10 ettari su di una collina a 350 metri, accanto a Rovereto. L’azienda produce anche alcuni vini fermi bianchi e rossi ma è sicuramente più nota per gli spumanti, dei quali ho assaggiato il Brut “base” e la Riserva.
A seguire, le mie impressioni sul Brut, prodotto da sola uva Chardonnay raccolta manualmente e fermentata parte in acciaio e parte in piccole botti di rovere, con sboccatura dopo 36 mesi sui lieviti.

Denominazione: Trento DOC
Vino: Brut
Azienda: Balter
Anno: –
Prezzo: 15 euro

balterBello da vedere: giallo paglierino con accenni dorati, schiuma abbondante, bolla fitta, continua e molto fine.
Olfattivo lieve, non di grande complessità (agrume, fiori bianchi), ma sicuramente piacevole e fresco. Quando si scalda ho l’impressione di avvertire un leggero anice e anche una lontana eco del rovere.
In bocca la sensazione che risalta è l’equilibrio: il dosaggio si avverte ma non è fastidioso, la bolla è presente ma senza essere aggressiva. La freschezza è ottima, e il finale è di media lunghezza.

Direi che è un vino facile (“facile” nel senso buono del termine: può piacere sia all’appassionato più smaliziato che al bevitore occasionale), ma di qualità e dall’ottimo rapporto qualità/prezzo.

Indicato in retroetichetta l’anno di sboccatura (2012, in questo caso): bene, ma mi piacerebbe che fosse riportato anche il mese.

Il bello: grande equilibrio e ottimo prezzo
Il meno bello: poca complessità olfattiva

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XX Bitter: l’amaro originale

XX Bitter per me non è un nome, è una dichiarazione di intenti… è l’amaro originale.

Cerco di spiegare: un sacco di anni fa mi aggiravo tra i banchetti di un Italian Beer Festival ad Alessandria, ero un neo bevitore di birra artigianale con idee poche e molto confuse su stili e sapori e mentre camminavo venni accalappiato da quello strano nome di cui avevo solo sentito parlare.
Il tizio che mi stava riempiendo il calice, con aria ammiccante mi disse: “Ti piace l’amaro, eh?”, rivolgendosi a me come avrebbe fatto Mazzini ad un iscritto carbonaro.
Io, che la birra più amara che avessi bevuta all’epoca temo fosse una Chimay (figurarsi…), finsi di mostrarmi degno di tanta confidenzialità, tracannai e la mia vita (birraria, s’intende) cambiò per sempre.
Ricordo perfettamente che, nonostante la birra fosse gelata, ebbi una delle epifanie gustative più intense che avessi mai provato fino ad allora: mi fu chiaro in un istante che l’amaro, questo amaro, era buono e che rendeva più facile, meno stucchevole la bevuta.

Sono passati gli anni, l’amaro è diventato una moda per molti versi anche censurabile (chi, in certe manifestazioni, non ha sentito frasi ridicole del tipo “Dammi la più amara che hai”) che ha prodotto capolavori come anche grandi quantità di squilibrati mostri mutanti da milioni di IBU, imbevibili se non con il contagocce, ma la XX Bitter è ancora oggi un campione di eleganza a differenza di tante “pigne amare” più moderne, un riferimento per chi desidera una birra saporita con un pizzico di estremo ma senza esagerare e spendendo poco.

Birra: XX Bitter
Azienda: De Ranke
Stile di riferimento: Belgian Ale
Prezzo: 2,90 euro (33cl)

XX BitterNote varie: il birrificio De Ranke è nato a metà anni novanta dalla voglia di brassare luppolato dei due amici Guido Devos e Nino Bacelle, e in particolare la ricetta della XX Bitter (alta fermentazione, malto Pilsner e gran quantità di luppolo Brewers Gold e Hallertau)  è stata creata all’epoca per essere “la più amara del Belgio”, nazione fino ad allora non particolarmente interessata a produzioni così amare.
Il birrificio afferma di non ricorrere a filtrazione e pastorizzazione.

E’ già una festa quando la versi: una montagna di schiuma candida, fine, compatta che sovrasta il giallo  opalescente.
Il naso è pulitissimo, con l’erbaceo verde e fresco del luppolo, poi la speziatura, la pesca e un lievissimo accenno di caramello. Olfattivo fine e variegato, da non mortificare con temperature glaciali.
In bocca c’è un lieve attacco caramellato e poi arriva la botta di amaro, netta e resinosa, pulita e secca, estremamente intensa senza essere fastidiosa o tagliente.
La carbonatazione non è per nulla aggressiva, il corpo è medio, la secchezza esemplare e il sorso scorre veloce e facile. Il finale amaro è lunghissimo.

La trovo sempre una birra di ottimo livello, con molti dei pregi che preferisco: bevibilissima ma di grande personalità, e, da non trascurare, economicamente del tutto abbordabile.

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Vinidamare 2013: qualche breve cenno

vinidamareAl volo sull’ultima edizione di Vinidamare (siamo arrivati alla decima): non conosco i numeri, ma l’impressione, come per Slow Fish, è che la crisi si sia fatta sentire: ad occhio il numero dei partecipanti era sicuramente inferiore agli anni precedenti e tra gli assenti si notavano anche alcuni nomi di peso.

Peccato, perché se le precedenti edizioni avevano qualcosa da farsi perdonare sul piano organizzativo (ad esempio l’ultima, ospitata all’interno del Cenobio dei Dogi in spazi palesemente inadeguati al flusso dei visitatori, e la penultima, con gli espositori allineati lungo la passeggiata a mare, con i vini “uccisi” dal gran caldo), questa volta mi sembra che AIS abbia gestito nettamente meglio la situazione: la scelta del Portofino Kulm ha permesso di avere a disposizione una sala di dimensioni adeguate e buone possibilità di parcheggio, e il fatto di non essere in una zona di passaggio ha eliminato l’afflusso dei visitatori casuali, riducendo il numero delle presenze a numeri più gestibili.

Altri punti di merito: la consegna all’ingresso del libretto dei partecipanti e di una penna, buona scorta di pane ai banchi d’assaggio e servizio solerte nello svuotamento delle sputacchiere.

Nota di demerito: sul sito non ho trovato l’elenco dei produttori partecipanti. E’ una banalità che semplifica la vita al visitatore, permettendo di pianificare in anticipo il percorso di degustazione.

Tralascio i commenti sui vini: ho assaggiato poco e in fretta, ma a parte alcuni nomi importanti (per esempio Lambruschi), l’impressione generale non è stata entusiasmante, con molte bottiglie nettamente “puzzettose” (ma i produttori annusano quello che stappano, prima di servire?) e altrettante palesemente troppo giovani: francamente non mi sembra una grande idea portare in assaggio dei 2013 chiaramente non pronti…

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Saint Aubin 1er cru En Remilly 2007, Marc Colin et Fils

La Borgogna è lontana, chilometricamente ma anche e soprattutto economicamente: i prezzi dei grandi Pinot nero e Chardonnay sono quasi sempre inarrivabili per noi comuni mortali, e, perlomeno nella mia esperienza, talvolta capita che se si cerca di rovistare a casaccio nelle produzioni minori si finisca per incappare in solenni delusioni, spendendo comunque cifre non banali.

Non è il caso di questo Saint-Aubin (certo non regalato ma vivaddio ancora nel range delle umane possibilità) proveniente da Marc Colin ed Fils, azienda di buon nome che coltiva 19 ettari e produce una vasta gamma di denominazioni, molte delle quali di gran prestigio.

Le circa 14000 bottiglie con questa etichetta sono prodotte con uve provenienti da viti piantate dal 1970 al 1990 su suolo argilloso-calcareo esposto a Sud-Ovest, con vinificazione e successivo affinamento effettuati in fusti di rovere.
Il vigneto è considerato il più prestigioso di Saint Aubin, anche perché una parte di esso prosegue a Sud-Ovest nella più rinomata denominazione Chassagne-Montrachet.

Denominazione: Saint-Aubin
Vino: En Remilly 1èr cru
Azienda: Domaine Marc Colin et Fils
Anno: 2007
Prezzo: 35 euro

Saint AubinVisivamente molto giovane, giallo paglierino con riflessi verdolini, ma la parte più interessante è l’olfattivo intenso ed estremamente particolare, con un gran buquet di fiori, in particolare la ginestra, ma ci sono mille sfaccettature fini, e una distinta mineralità che con i minuti evolve in speziatura. Da perderci le ore annusando, tanto è cangiante.

Il sorso è tesissimo, con acidità alle stelle  e sapidità direttamente in scia, ma l’intensità del gusto e il buon calore riescono a bilanciare le sensazioni, rendendolo facile da bere, quasi senza far notare di avere davanti un vino di notevole importanza.
C’è lunghezza, ma non infinita.

Ancora giovane, ma è un gran bel bere nonostante sia ancora orientato alle durezze: di certo posso lo immagino fantastico in un paio di anni da ora.

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Tornasole 2004, Tenuta Grillo

Avevo assaggiato qualcosa di Tenuta Grillo in varie manifestazione ma non avevo mai approfondito granché, così, visto che ero in zona, il mese scorso ho visitato la cantina in modo da avere una panoramica più completa dei vini proposti.

Prima di descrivere il Tornasole, qualche accenno sulla azienda. Dopo qualche difficoltà di orientamento (ragazzi, inserite un Google Maps sul sito, please…), sono stato ricevuto dalla gentilissima Igea, torinese, co-titolare della azienda e moglie di Guido Zampaglione, campano emigrato al nord per cercare un territorio adatto alla sua idea di vino, territorio finalmente trovato in 32 ettari (di cui 17 vitati) a Gamalero, vicino ad Alessandria.

La filosofia aziendale, chiaramente influenzata dal maestro di Guido, quel Giulio Armani direttore di produzione de La Stoppa e lui stesso vigneron (Denavolo), è improntata al movimento dei cosiddetti “vini naturali” (minimo interventismo in vigna e in cantina, macerazioni, lunghi invecchiamenti, no alla solforosa eccetera), e lavora un territorio pianeggiante e sabbioso, situato a circa 200 metri di altitudine.

Tornasole

Denominazione: Vino da Tavola
Vino: Tornasole
Azienda: Tenuta Grillo
Anno: 2004
Prezzo: ? (comperato in azienda assieme ad altre bottiglie, dovrebbe essere sui 15 euro ma potrei sbagliare)

Abbastanza curiosa la scelta di coltivare e vinificare il Merlot, visto che normalmente i pasdaran del naturalismo rifuggono i vitigni internazionali come la peste, ma a me la scelta mette simpatia per il suo andare controcorrente.

Colore rubino ben vivo e concentrato, con l’unghia che vira addirittura ad accenni porpora: grande dimostrazione di giovinezza per un 2004. Accenno di riduzione all’apertura, che fortunatamente svanisce dopo qualche minuto, lasciando spazio ad un olfattivo intensamente dominato da una volatile francamente al limite (e lo dice uno a cui solitamente non disturba…), tanto da coprire i più canonici descrittori di frutta rossa matura e sotto spirito. Un naso che da principio sembra vivace, ma poi non evolve e resta abbastanza monocorde.

In bocca è secco, caldo e morbido, con una buona spinta acida e un tannino leggermente sfocato. C’è corpo, e il vino risulta decisamente pieno e polposo, intenso e anche equilibrato; chiusura non troppo lunga e con un accenno amaro, che mi ricorda il caffè, un po’ fuori posto. Sicuramente meglio in bocca che al naso, dà l’idea di poter migliorare con ulteriore invecchiamento.

Quanto sopra è il resoconto del giorno in cui è stato stappato; a sorpresa, ma forse neppure troppo, il giorno seguente si la nota volatile sembra meno invadente, cresce il frutto e fa capolino qualche accenno di speziatura. In parole povere, migliora nettamente.

Degno di elogio l’uscire sul mercato oggi con un 2004 ad un prezzo decisamente abbordabile, considerato il lungo affinamento.

Il mio giudizio personale è quello di una discreta bottiglia, che vorrebbe essere estremamente personale (come si usa dire oggi con una frase che odio cordialmente, “interpretando il terroir”), ma manca proprio proprio nell’intento della unicità, a causa del relativo appiattimento dell’olfattivo.

Questa perplessità su una relativa mancanza di identità dei vini la riscontrerò più o meno anche nelle altre tipologie prodotte e di cui conto di scrivere in seguito, mano a mano che berrò quanto comperato: in generale, stappi e pensi che si tratta di un vino naturale ed è molto riconoscibile la mano di Armani (intesa come scuola); il mio timore è che la metodologia produttiva utilizzata per sfuggire alla omologazione dei tanti vini “perfetti” e “comuni”, risulti in questo caso estremamente (troppo?) caratterizzante.

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Slowfish 2013: impressioni di sfuggita

Alla fine ci sono andato, a Slowfish 2013. Per una serie di casini personali pensavo di non farcela, ma visto che avevo prenotato un Master of Food (diobuono, ma un nome meno pomposo non riescono proprio a inventarselo? C’è quasi da vergognarsi a ddirlo: “Dove vai?”, “Eh, c’ho un Master of Food…”, “Mavaff…”), mi sono ritagliato una mattinata.

Nuova ubicazione (area del Porto Antico invece che la Fiera del Mare), e conseguenti ingresso libero (bene!) e mancato tetto sopra la testa in caso di maltempo (male, ma fortunatamente non ha piovuto).
Ho avuto l’impressione di un minor numero di espositori rispetto all’ultima volta, ma potrei essere stato ingannato dalla ampiezza dell’area; di sicuro la crisi si è fatta sentire: una vocina mi ha detto che il prezzo richiesto agli espositori per uno stand è diminuito, e anche la scelta di non far pagare il biglietto ai visitatori immagino sia dovuta a questo…

Ho fatto un giro veloce, quindi butto giù poche note e pure confuse.
Il famigerato Master of Food conferma le bieche impressioni di collusione Petrini-Farinetti, infatti viene tenuto in una delle aule corso di Eataly. Nulla di nuovo, per carità, è ben noto che Slow Food e Eataly collaborino su vari progetti, ma francamente mi pare che la liason stia andando troppo oltre e che gli obbiettivi prettamente commerciali di Eataly (seppure ammantati di etica) facciano fatica a quagliare dignitosamente con le linee guida di Slow Food.
Ad ogni modo, il Master of Food è organizzato con precisione teutonica: la lezione è ripresa con una telecamera in modo da mostrare i dettagli su due grandi schermi, permettendo una visuale chiara a tutti i corsisti, ogni partecipante ha la sua postazione dignitosamente spaziosa e con tutto il necessario e viene anche omaggiato (oltre che di taccuino e matita) di due bei libri sull’argomento. A fine lezione, si mangia quanto preparato e si esce felici.

Il rapido giro per l’area espositiva è un mix di sensazioni: ci sono gli stand educativi su vari argomenti, e c’è anche tanto mercato (che poi, diciamocelo, è quello che interessa la massa dei visitatori), talvolta anche poco in tema con l’argomento (un esempio? Il venditore di olive ascolane lo vedo sia a Cheese che qui… che ci azzecca?), ma alla fine è sempre bello cazzeggiare tra i cibi, assaggiando un sacco di cose buone e facendo qualche parola con i produttori.

Spendo una riga per gli amici di Maltus Faber, che non vedevo da tempo e che erano presenti, oltre che con le “solite” Blond Hop e Bianca (pulitissime e piacevolissime), con un nuovo prodotto, una Sweet Stout da neppure quattro gradi che gioca tutta sulle finezze (di tostatura, di luppolatura, di carbonatazione; anche il corpo, spesso robusto in questa tipologia, è ben bilanciato) e che mi è sembrata una ottima session beer. Sarà disponibile solo in fusto, e spero di riassaggiarla a breve con più calma, con un bicchiere di vetro al posto della orrida pinta in plastica imposta in queste manifestazioni.

Nota di demerito per l’Enoteca. A parte qualche bottiglia presente in elenco ma in realtà non pervenuta, il prezzo degli assaggi è davvero eccessivo (bicchieri da 3, 4 o 5 buoni, ciascun buono costa 1 euro, in più occorre aggiungere il solito costo del calice), in particolare tenendo conto che non c’è uno grissino disponibile, che non ho visto acqua per pulire la bocca tra un assaggio e l’altro e che non siamo in una vera enoteca (non c’è servizio al tavolo e i posti a sedere sono abbastanza pochi, perlomeno a certe ore del giorno).

Appuntamento a settembre per Cheese!

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