Haderburg Pas Dosé, 2009

haderburg

Ho già parlato di Haderburg, ma ho piacere a ribadire che si tratta di un nome sicuro per quanto riguarda la spumantistica italiana d’eccellenza; per saperne di più sulla azienda rimando alle mie note riguardanti il Brut base e al sito del produttore.

Stavolta mi approccio al Pas Dosé, una tipologia non facile, sicuramente di nicchia ma che da qualche tempo gode di buon favore nelle cerchie degli appassionati più hardcore (si può far riferimento a questo post per un veloce ripasso sui dosaggi e la relativa classificazione).
Personalmente, forse anche per questioni territoriali e climatiche, apprezzo decisamente la assenza di dosaggio in molti metodo classico italiani, più che francesi.

haderburgDenominazione: Alto Adige DOC
Vino: Pas Dosé
Azienda: Haderburg
Anno: 2009
Prezzo: 25 euro

Al sodo: si tratta di un millesimato, prodotto con 85 % chardonnay e 15 % pinot nero, affinamento in acciaio e rovere, 36 mesi sui lieviti, assenza di fermentazione malolattica e appena 2 grammi per litro di dosaggio zuccherino.

Colore paglierino brillante, bolla non troppo copiosa ma fine e ben continua. Olfattivo tenue, delicato di agrume, mela verde, erba e lievito.

Come facilmente intuibile parte secchissimo, citrino, con bella freschezza, ma pur essendo un pas dosé non è una lama acida, al contrario c’è equilibrio. Sicuramente lascia bocca pulitissima, senza stucchevolezza.
Buone struttura e corpo, il sorso è bello pieno.

Il bello: dritto, fresco, pulito. Prezzo accessibile
Il meno bello: naso non particolarmente intenso

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Percoranera 2004, Tenuta Grillo

Si dirada il caldo estivo, finalmente torna la voglia di vino rosso e possiamo riprendere gli assaggi dei prodotti di Tenuta Grillo.
Se le puntate precedenti avevano riguardato il Tornasole e Baccabianca, oggi è il turno del Pecoranera, un blend di Freisa (principalmente), Dolcetto, Barbera e Merlot, vinificato con la consueta metodologia aziendale: lieviti autoctoni, lunghe macerazioni, nessuna filtrazione.

Tenuta-Grillo-Pecoranera-280x280Denominazione: Monferrato DOC
Vino: Pecoranera
Azienda: Tenuta Grillo
Anno: 2004
Prezzo: 16 euro

Subito si rivela di aspetto invitante: rubino pieno, intenso, ben vivo e luminoso.
Al primo giorno naso esce prepotente un fruttone rosso maturo, accompagnato da leggeri etereo, alcol e smalto, che si mostrano un pochino invadenti. C’è un accenno puzzetta (riduzione?).

La bocca è calda, con ingresso peno che prosegue corposo, e una bella freschezza acida coerente col colore: difficile pensare di trovarsi di fronte ad un millesimo 2004.
Il tannino c’è, ma è un po’ sfocato, confuso, polveroso. Discreta la lunghezza.

Memore di quando avvenuto con gli altri vini di Tenuta Grillo, lascio da parte mezza bottiglia per proseguire gli assaggi il secondo giorno: l’olfattivo è nettamente migliorato, è del tutto scomparsa la puzzetta ed è praticamente inavvertibile l’etereo; resta un bel frutto maturo con un accenno balsamico. Non si modifica invece la percezione del tannino.

Una bottiglia interessante, magari non particolarmente complessa ma sicuramente piacevole e probabilmente adatta ad un ulteriore invecchiamento. Alla luce dell’assaggio, non ho dubbi nel consigliare l’apertura il giorno precedente o comunque molte ore prima della bevuta.

Il bello: facilità di bevuta, prezzo interessantissimo dato l’invecchiamento
Il meno bello: la necessità di stappare con molto anticipo

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Antares 2010, Cantina Toblino

antares

Si dice spesso che le cantine sociali in Tentino Alto Adige siano una eccezione rispetto a quelle di gran parte del panorama vinicolo italiano, nel senso che sfornano prodotti a prezzi ragionevoli, mantenendo standard qualitativi di ottimo livello.

Ne ho avuto conferma stappando questo Antares, metodo classico di Cantina Toblino, che ho potuto indirettamente comparare con un analogo prodotto della Cooperativa Tre Secoli di Mombaruzzo, bevuto qualche giorno prima.
Il confronto è stato davvero impietoso: del primo leggete qui sotto, mentre del secondo mi limito a segnalare la piattezza gusto-olfattiva e il prezzo (8 euro).

antaresDenominazione: Trento DOC
Vino: Antares
Azienda: Cantina Toblino
Anno: 2010
Prezzo: 12 euro

Mi avvicino con un certo scetticismo: infondo si tratta di un metodo classico con 36 mesi di affinamento sui lieviti, per giunta millesimato, proposto a 12 euro!
Contribuisce alla diffidenza l’orrenda etichetta, che mi ricorda nettamente quelle appiccicate sulle bottiglie delle confezioni panettone-spumante da autogrill anni ottanta… Dai ragazzi, io sono tutto fuorché un fissato della grafica, ma credo non sia difficile fare di meglio…

Il vino è uno chardonnay in purezza, paglierino con accenni verdolini, dalla bolla non copiosa ma continua e vellutata.
L’olfattivo è fresco, floreale, con qualche accenno di fieno, anice e una lontana crosta di pane; semplice ma piacevolmente delicato.

L’ingresso in bocca, che mi aspettavo timido, è in realtà pieno e di una certa struttura, acidità e sapidità sono ben calibrate; proseguendo, il sorso risulta un po’ troppo morbido per i miei gusti (ma per nulla stucchevole): è pur sempre una bolla “primo prezzo” che deve piacere a tutti!
Lunghezza non esaltante, ma non possiamo chiedere troppa grazia.

Ottimo rapporto qualità prezzo, una dignitosissima interpretazione di vino base da servire in tutta tranquillità e piacevolezza con aperitivi e primi piatti di mare.

Il bello: il prezzo, la semplice piacevolezza
Il meno bello: lunghezza e complessità limitate

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Il mostro di formaggio: Cheese 2013

cheese1Guardate questa foto, vi prego. Questo è uno dei mercati di Cheese, ripreso domenica mattina alle 10.40 circa; ovviamente la folla sarebbe andata ad aumentare per tutto il giorno, perlomeno fino alle 16 e 30, quando, stremato, ho desistito e mi sono incamminato verso l’auto.

Li dico subito: non sono socio Slow Food e non ho certo la saggezza per suggerire alcunché a Petrini o ai suoi luogotenenti, ma sinceramente credo che sia venuto il tempo di ripensare queste manifestazioni-monstre: è pacifico che a tutti noi piace entrare nel Paese dei Balocchi per un giorno all’anno (o ogni due anni, come in questo caso), ma ormai abbiamo oltrepassato il livello del turismo di massa, siamo agli autobus che scaricano frotte di varia umanità condita da gelato e fotocamera compatta davanti al Vaticano, o ai 23 Km di coda in automobile il fine settimana per arrivare in una spiaggia con i lettini accatastati in spalla gli uni agli altri…

Non è questione di snobismo: in mezzo a questa folla di malcapitati, a sgomitare per una briciola di formaggio della Macedonia o per un cucchiaino di yogurt africano c’ero anche io, e non certo per la prima volta… Io sono colpevole tanto quanto tutte le altre migliaia di bipedi vocianti e sudati presenti.

Il punto è che inizio a chiedermi che senso abbia tutto questo circo (a parte ovviamente il godere del Paese dei Balocchi di cui sopra), quando ti rendi conto che, pur con tutta la buona volontà, non potrai scambiare una parola con i produttori, non riuscirai a leggere una riga dei cartelli accanto agli stand, non avrai modo di camminare tranquillamente e di fermarti ad annusare senza rompere le scatole ad altre venti persone che attendono dietro le tue spalle…
Inizio a chiedermi perché ad ogni manifestazione di SF ci debbano essere gli stand della piadina romagnola, delle olive ascolane, della farinata genovese eccetera eccetera, via col giro d’Italia.
Soprattutto, ora che il cibo è tornato ad acquisire dignità e centralità e che il concetto dei presidi è ben noto, mi chiedo se il famoso slogan del “Buono, pulito e giusto” non faccia fatica ad armonizzarsi con i formaggi paracadutati qui da mezzo mondo, con le migliaia di auto parcheggiate sotto la collinetta di Bra e lungo la strada, con gli autobus che fanno saliscendi continuato, con i bar che ormai hanno capito l’antifona e hanno messo pure loro il banchetto all’aperto, proponendo birra e gelato industriali ai visitatori meno accorti, con la gente che si spintona per un piatto di qualsiasi cosa e lo mangia in piedi o seduta in terra, accanto all’onnipresente logo “Slow”.
Certo, i contrasti sono il sale della vita, ma vedere dei tizi che arrotolano spaghetti alle vongole seduti ai tavolini di un bar di Bra (Cuneo, Piemonte) durante lo weekend di Cheese, ha qualcosa di surreale….

Immagino che per SF manifestazioni come questa siano una ottima fonte di marketing e di reddito (libri venduti, laboratori, espositori paganti), così come sono certo che per la cittadina di Bra un evento simile valga più dell’oro, e che quindi sia ben difficile trovare il coraggio di metter mano al carrozzone per ridimensionarlo, però ritengo che sarebbe un bel segnale di coerenza e un salto di qualità notevole da parte della associazione.
Immagino non più un unico Cheese-monstre ogni due anni, ma tanti piccoli Cheese basati sulle realtà locali (e magari alcuni, pochi, selezionati prodotti ospiti, scelti sulla base di affinità), con eventi magari solo a prenotazione e a pagamento.
Certo, per noi appassionati finirebbe il Paese dei Balocchi in cui nello stesso giorno puoi levarti la voglia di cheddar e caciocavallo, ma forse ci aiuterebbe a crescere, ad essere più consapevoli, e scongiurerebbe la deriva da “sagra della salsiccia con orda di turisti giapponesi”.

cheese2Detto questo, Cheese è sempre una gran figata per la possibilità di assaggiare tutto quello che hai in mente e anche oltre, e l’organizzazione è impeccabile: gli spazi per i dibattiti, i parcheggi ai piedi della città con gli autobus che portano in centro, la moltitudine di isole ecologiche presidiate da ragazzi che ti aiutano a buttare il rifiuto nel contenitore giusto, i laboratori con traduzione istantanea bilingue, il centro informazioni accogliente e cortese, e tanto altro ancora…

Temo che ci rivedremo nel 2015.

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Cosa mi combini, Oscar! E, in appendice, la cena al ristorante “Il Marin”

Per sgomberare il campo da equivoci dichiaro subito che ritengo Natale Farinetti detto Oscar un grande imprenditore, una risorsa per l’Italia, uno che vede lontano (sganciarsi dal settore dell’elettronica di consumo per inserirsi in quello del cibo e delle bevande di alta qualità è forse ovvio oggi ma di certo non lo era quando lo ha fatto lui).

logo-eataly1Ciò detto, ho molte riserve sul piccolo (ma neanche tanto) impero Eataly: a prescindere dallo sfavorevole rapporto qualità/prezzo dei “ristorantini”, non è bellissimo trovare in vendita accanto allo slogan degli “Alti cibi”, sotto il cappello filosofico di “sostenibilità, responsabilità e condivisione” e della “possibilità di offrire a un pubblico ampio cibi di alta qualità a prezzi sostenibili”, prodotti quantomeno discutibili (es. il pesto senza aglio, la birra Peroni, la pasta Barilla sugli scaffali di Eataly New York, tutta la pletora di creme e cremine per viso e corpo vendute a prezzi da strabuzzo degli occhi, eccetera), ma capisco che il supermercato occorre riempirlo e che i margini di profitto abbiano le loro esigenze, quindi non mi scandalizzo di certo.

Vado oltre: pur non piacendomi per nulla, accetto persino il voler spostare l’asticella del (legittimo) marketing sul piano etico, ma quando si arriva a certi eccessi retorici non può non scapparmi una risata.
La prima volta in cui avevo percepito chiaramente l’abbattimento del muro del ridicolo era stata quando Oscar, in combutta con Illy, aveva risolto in pochi decisionisti istanti il problema previdenziale che attanaglia il Belpaese; l’ultima volta nei giorni scorsi, quando ho ricevuto una mail di Eataly.
Apro la mail e mi accoglie una foto di Obama e Putin che si stringono la mano; istanti di smarrimento (“che c’azzeccano i presidenti col supermercato”), poi gli occhi scivolano sull’oggetto del messaggio: “Noi di Eataly vi invitiamo a pranzo” per poi scendere sul delirante testo: “… noi la pensiamo come il Papa: la guerra è sconfitta dell’umanità. Lui giustamente propone il digiuno come preghiera del corpo contro la guerra. Noi di Eataly ammiriamo questo gesto potente che unisce i religiosi di tutto il mondo con i laici che ripudiano la guerra. Vogliamo però aggiungere che il mangiare insieme può rappresentare un altro valore forte, rivolto alla convivialità e al superamento dei conflitti. Ci piace immaginare di poter invitare Putin e Obama ad un pranzo qui da noi, dove di fronte ad ottimo cibo i due possano trovare il modo di parlarsi”.
Sono senza parole! Immagino che al prossimo giro Oscar, per vendermi un vasetto di marmellata, si attrezzi a risolvere la questione palestinese, oppure chissà metta mano al problema  mediorientale per farmi iscrivere ad uno dei suoi corsi di cucina…

A margine, una doverosa appendice sul ristorante “vero” di Eataly Genova, Il Marin.
C’ero stato la prima volta a Febbraio, sono tornato la settimana scorsa, e per quel che mi riguarda in entrambi i casi ho trovato la migliore cucina di Genova, by far.

Certo, restano alcuni limiti strutturali (l’arredamento discutibile, l’ingresso che costringe all’attraversamento del supermercato, i tavoli “di design” senza tovaglie), ma altri sono stati superati (maggiore professionalità al servizio, con una ottima direttrice di sala).
Odio prendere appunti o scattare foto quando ceno, quindi vi beccate qualche ricordo confuso, anche perché non posso aiutarmi con il menu pubblicato sul sito, che non è per nulla aggiornato (dai Oscar! Questo è da correggere immediatamente): pregevole cortesia sia in fase di prenotazione che all’arrivo sulla scelta del tavolo all’esterno o all’interno, encomiabile l’aperitivo realmente offerto e non aggiunto al conto, molto bene i tempi di servizio (io ho preso un menu degustazione da varie portate, chi era con me solo due piatti più dolce, e comunque c’è stata armonia e nessuna attesa eccessiva), bella la presentazione al tavolo del carrello del pescato del giorno.
I piatti che ho apprezzato maggiormente: le acciughe fritte ripiene offerte a inizio pranzo, ottimo l’antipasto di crudi di mare, strepitosi gli spaghettoni alle sarde.

Qualche appunto negativo: servire a Genova una focaccia non perfetta è un vero delitto, e quella dell’altra sera era da galera diretta senza passare per il via, per tenere in fresco la bottiglia sarebbe meglio attenersi alle tradizionali glacette e buttare quelle buste in plastica semirigida che fanno temere il rovesciamento da un momento all’altro, il preantipasto di centrifugato di melone è abbastanza scoordinato e la piccola pasticceria post-dolce decisamente non al livello del resto della cena. Sala un po’ rumorosa.

Ma sono dettagli, in generale le portate sono felici, con cotture chirurgiche, dosi adeguate e impiattamenti perfetti; la carta dei vini è discreta e ha ricarichi umani, il personale cortese e competente, i tavolini sono ben distanziati, la cucina a vista è piacevole e il panorama sul porto è ovviamente meraviglioso.
Da ultimo, ma non per ultimo, il conto non è basso ma del tutto giustificato da quanto raccontato sopra.

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La Lune 2009

Per dirla chiara e senza ombra di dubbio: non conoscevo nulla del Domaine de la Sansonniere, di Marc Angeli e di questo La Lune, sapevo solo di voler bere uno Chenin Blanc…

Quello che ho capito sbirciando a destra e a manca, è che Marc Angeli, influenzato dalla sua amicizia con Nicolas Joly, ha rilevato i 12 ettari di questa tenuta nella Loira a fine anni 80, facendone la realizzazione delle sue idee radicali: in pratica il Domaine è quasi autosufficiente sia dal punto di vista energetico che da quello del ciclo produttivo, e i vini sono distribuiti sotto il cappello di Triple A Velier, dunque associati a tutto il corollario bio-naturale proprio della sigla in questione: nessuna aggiunta di solforosa, nessuna chiarifica e filtrazione, nessun diraspamento eccetera.

L’intransigenza di Angeli si evince forse maggiormente facendo notare il volontario declassamento dei suoi prodotti dalla nota AOC Anjou alla ben poco prestigiosa dicitura ‘Vin de Table’, in segno di protesta contro il mancato intervento delle Denominazioni nella riduzione dei pesticidi.
“La Lune” è uno dei suoi vini più noti e discussi, a quanto pare a causa di una certa incostanza di risultati non difficile da immaginare, vista la metodologia di produzione: io ho assaggiato il millesimo 2009.

La LuneDenominazione: Vin de Table
Vino: La Lune
Azienda: Domaine de la Sansonniere
Anno: 2009
Prezzo: 35 euro

Il colore indica chiaramente un vino giovane, l’olfattivo è intenso e completo: c’è tutto, e tutto è cangiante, all’apertura un tocco dolce di miele (poi scomparso), poi dal floreale alla albicocca disidratata, da una leggera pungenza dell’alcol alla frutta macerata.

Entra caldo, decisamente secco, con acidità stellare ma soprattutto sapido; forte, ma dal corpo abbastanza snello, che non riesce a mascherare del tutto i 13 gradi.
Decisamente giovanissimo e pieno di carattere, soprattutto lunghissimo e facile da bere.

Il bello: la grande complessità e la lunghezza
Il meno bello: il prezzo, la reperibilità e, temo, la costanza delle annate

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Eataly Genova: in picchiata (verso il mare?)

eataly

L’immagine che si fissa subito in mente quando si sale per la prima volta da Eataly Genova è la straordinaria veduta del porto che si gode nei pochi secondi di ascensore in vetro panoramico necessari ad arrivare all’ingresso: una ascesa sul mare e le navi, magari al tramonto, decisamente invitante e poetica.

Quanto sopra era accaduto alla mia prima visita, poco dopo l’apertura, e resta vero anche adesso. Peccato invece che le perplessità iniziali non si siano dissolte, anzi, se ne siano aggiunte di nuove.

eatalyPremesso che questo inverno ho avuto forse la migliore cena dell’anno proprio al Marin, il ristorante “serio” di Eataly (e, causa pigrizia, ho colpevolmente omesso di scriverne), e permesso che il costo di un pasto al Marin non è banale, capita che talvolta ci scappi un piatto in uno dei cosiddetti “ristorantini tematici”.

Se la prima volta che sono stato da Eataly avevo trovato il personale non all’altezza delle pretese di qualità del luogo e ne davo la colpa alla recente apertura, alla sempre troppo citata “necessità di rodaggio”, a questo punto non è più possibile nascondersi dietro ad un dito: nei famigerati “ristorantini” i ragazzi che servono e che prendono le ordinazioni non sono adeguatamente istruiti.

Già devi sorbirti di fare l’ordinazione in maniera più abominevole che alle sagre di paese: ti ammazzi per trovare un tavolo libero (che è piccolo, troppo: con due piatti, due calici, il pane, olio e pepe hai tutto in un equilibrio precario come la salute di coloro che guardano la tv pomeridiana), lo occupi mandando uno solo del gruppo a far la fila a più di una cassa (non puoi ordinare il pesce dove fanno la carne ecc.)…
Se aggiungi che la ragazza cui detti la comanda non conosce i vini che ha in carta e devi farle vedere quello che ordini puntando il dito sul menu altrimenti ti guarda attonita, se prosegui che comunque ti portano il vino sbagliato, che dimenticano di portarti il pane, che la mozzarella di bufala (indicata in carta “con olio extravergine di oliva e sale”) è appunto senza olio e sale ed è ghiacciata dentro e che quando fai presente che mancano i condimenti ti rispondono che “Facciamo così, in modo che il cliente possa scegliere”….
Se aggiungi che naturalmente pochi dei ragazzi parlano le lingue, e di conseguenza ho visto discussioni banalmente risolvibili in un battito di ciglia degenerare in infinite, esilaranti pantomime degne di un film di Totò, ecco, se assieme a tutte queste cose aggiungi i prezzi da oreficeria e il fatto che la decantata qualità ormai prevede ad esempio la vendita di articoli di pregio come la birra Peroni, ecco che all’uscita, durante la meravigliosa discesa in ascensore, in picchiata verso il blu del mare incendiato dal rosso del sole, qualche dubbio di essere preso per il culo inizia ad invaderti prepotentemente.

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Champion Grand Cru Blanc de Blancs, 2004

champion

Ancora una volta bolle, ancora una volta Champagne, stavolta prodotto da un vigneron di stanza a Chouilly, nella Côte des Blanc: Roland Champion.
La famiglia Champion vinifica da tre generazioni e coltiva 18 ettari ricavandone circa 80-90.000 bottiglie suddivise in varie tipologie, tra le quali questo Grand Cru millesimato (un classico Blanc de Blancs, quindi 100% Chardonnay con disaggio di 6 grammi per litro e ben otto anni di affinamento sui lieviti) è una delle eccellenze.

championDenominazione: Champagne
Vino: Grand Cru Blanc de Blancs 2004
Azienda: Roland Champion
Anno: 2004
Prezzo: 31 euro

Bel colore giallo paglierino con ancora vibranti riflessi verdolini, certamente non si direbbe un vino con nove anni sulle spalle. Il perlage è finissimo, continuo e molto abbondante.
L’olfattivo è intenso, ricco, con evidenti richiami di panificazione, nocciolina, burro e poi fiori bianchi, anice e un accenno lievissimo ed elegante di mielato-ossidato.

In bocca la bolla si conferma fine ma ben viva e cremosa.
L’acidità è stellare e la sapidità quasi al medesimo livello; è intenso, coerente con quanto evidenziato all’olfattivo, entra potente e poi si conferma con una buona lunghezza.

Bella bevuta, l’unico difetto è una certa monotonia in bocca, manca la progressione che conduce alla complessità, lo scatto finale: chissà se su questo fronte possa migliorare attendendolo ancora? Infondo la struttura c’è…

Il bello: Grandi acidità e sapidità, buon olfattivo
Il meno bello: Manca l’evoluzione, si avverte una certa fissità/monotonia al gusto-olfattivo

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Ferrari Riserva Lunelli 2002

Una avvertenza agli eventuali pauperisti bio-tutto in ascolto: oggi non parlo del vino biodinamico dell’agricoltore eroico, poeticamente sfigato, che possiede mezzo ettaro abbarbicato su un crinale con pendenza al 50%, e neppure del risultato di una minuscola particella di terroir vinificata senza solforosa e senza controllo della temperatura… piuttosto racconto l’assaggio di uno dei prodotti industriali di una cantina che da tempo immemorabile sforna milioni di bottiglie l’anno.

Ma andiamo per ordine: parliamo di Ferrari, un nome talmente simbolico per la spumantistica italiana che si potrebbe azzardare equivalente a Trento Doc; in realtà il parallelo sarebbe addirittura riduttivo nei confronti della storica “maison”, che per numeri e popolarità surclassa il resto della denominazione.
Sono stato un anno e mezzo fa in cantina (se vogliamo chiamare così uno stabilimento enorme, che accosta molta grandeur a qualche angolo un pochino datato), e la visita è stata come la immaginavo: professionalmente asettica e dimenticabile.

Ferrari è tutta una gamma di metodo classico, dal “Brut” da supermercato, tipicamente e tragicamente consumato in abbinamento al dolce durante le feste, fino al sontuoso (nel gusto e nel prezzo) “Giulio Ferrari”, passando persino per un inusuale Demi-Sec; un gradino sotto al prestigioso “Giulio” è posizionato il “Riserva Lunelli” di cui scrivo oggi.

Riserva Lunelli

Denominazione: Trento DOC
Vino: Riserva Lunelli
Azienda: Cantine Ferrari
Anno: 2002
Prezzo: 35 euro

Il solito sguardo veloce sui dati tecnici: raccolta manuale di Chardonnay del millesimo 2002 dal vigneto di proprietà Villa Margon, fermentazione in legno e sette anni di affinamento sui lieviti. La bottiglia in mio possesso aveva sboccatura datata 2009.

Tornando alla introduzione: è un vino costruito? Sì, certo, eccome,  ecchissenegrega!
E’ dorato, lucente, con un olfattivo intenso e ricco di panificazione, frutta matura, nocciole tostate. Si sente il legno, sicuramente, ma è un legno che esalta il vino, non lo sotterra, forse perché ha avuto tutto il tempo necessario ad amalgamarsi.
Avendo pazienza di attendere esce uno chardonnay che mi ricorda persino qualcosa di borgognone.

In bocca la bolla quasi non esiste per quanto è fine e cremosa; l’equilibrio è invidiabile e le durezze notevoli (in particolare una sapidità che avvolge) sono ben bilanciate dalla dolcezza del legno e da un corpo sicuramente presente.
Il sorso è pulitissimo e mai stancante, entra sontuoso, continua pieno e finisce lungo, senza alcun residuo appiccicoso o stucchevole e senza alcuna chiusura amara, anzi, al retro-olfattivo traspare perfino un tocco balsamico.

Quando ho comperato la bottiglia avevo qualche timore a causa della sboccatura datata, in realtà non ho trovato nessun segno di stanchezza, anzi avrei voglia di prenderne un paio ancora da lasciare in cantina per vedere dove possono arrivare nel giro di qualche anno.

E’ un vino sontuoso, forse anche troppo: una fusione di burro, nocciole e alcol che però riesce a mantenere adeguata la tensione; se bevuto da solo capisco che alla lunga possa stancare, e forse non è adatto a preparazioni delicatissime, ma pasteggiando credo abbia pochi rivali.

Il bello: L’equilibrio, la lunghezza, la complessità
Il meno bello: Una certa opulenza che non lo rende adatto ad ogni occasione

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Balter Brut Riserva 2006

Secondo assaggio per Balter, dopo la prova del Brut “base”.

Alla commercializzazione delle circa 35.000 bottiglie l’anno di Brut, dal 1995 è stata aggiunta una limitata quantità di Riserva (circa 3000 bottiglie); si tratta di una produzione con ambizioni rilevanti, visto per creare questa miscela di 80% chardonnay e 20% Pinot nero, l’uva viene vendemmiata manualmente, fatta fermentare parte in acciaio e parte in rovere piccolo, e poi lasciata maturare sui lieviti per ben 72 mesi.

Balter RiservaDenominazione: Trento DOC
Vino: Brut Riserva
Azienda: Balter
Anno: 2006
Prezzo: 25 euro

Colore giallo paglierino, quasi oro, con bolle fini ma (piccolo campanello d’allarme) non troppo numerose e persistenti.
Olfattivo estremamente tenue di pasticceria, con accenno tropicale e, curiosamente, una punta di tostato-affumicato: scoprirò poi che parte dell’affinamento si svolge in legno piccolo.

In bocca entra bello pieno, con bolle molto fini e per nulla aggressive, forse persino troppo delicate. La freschezza è discreta, cosi come la sapidità e la lunghezza; in realtà spicca un grande equilibrio, che peraltro avevo riscontrato anche nell’assaggio del Brut.

Qualche dubbio sulla presenza un po’ eccessiva del legno, sul finale lievemente amaro e, all’inizio della bevuta, anche sul dosaggio: in genere prediligo prodotti molto “dritti” e avvertivo di un eccesso di ruffianeria.
Con il passare dei sorsi mi sono ricreduto, non è certo un vino tagliente ma tutto sommato mi pare che anche in questo caso si sia ricercato, e trovato, l’equilibrio. Forse un filo di dolcezza viene dal legno?
A suo grande grande pregio, a fine assaggio la bocca resta ottimamente pulita, senza dolcezze appiccicose o acidità strizza gengive.

Tirando le fila, un vino magari non entusiasmante ma di buona armonia, dal quale però francamente mi aspettavo una complessità maggiore, in ragione dei 72 mesi sui lieviti: ne comprendo l’ottima base, temo leggermente penalizzata da un uso non ottimale del legno (o forse occorre ancora attenderlo in bottiglia, in modo da ottimizzare l’affinamento?).

Piccola nota di demerito: non c’è data di sboccatura, e non trovo indicazioni sul dosaggio.

Il bello: L’equilibrio e la “base” importante dei 72 mesi sui lieviti
Il meno bello: poca complessità

p.s. dopo un ora dall’apertura è uscito un lieve floreale e il vino ha acquistato maggiori eleganza e complessità.

p.p.s. Franco Ziliani ha un altro riscontro (ma è un diverso millesimo), sicuramente più affidabile del mio, in cui non ci sono accenni a tostature ma semmai ad ossidazione.

Queste due ultime note mi fanno venir voglia di provare una seconda bottiglia, in modo da verificare le sensazioni. Vedrò di procedere…

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