La Voglia Matta, Genova

A volte sospendi il giudizio, perché è chiaro che non sarebbe corretto: è quello che mi è successo la prima volta che ho mangiato a La Voglia Matta, a Genova Voltri.
Era lo scorso anno, a pranzo, ed è stato chiaro fin da subito che si trattava della classica giornata storta, partita male fin da subito con il calice offerto che aveva qualche difetto e poi proseguita sulla falsariga di una medietà poco rilevante.

logoCi sono tornato, e posso dire di essere contento di essermi astenuto, ché la cena non è stata affatto disprezzabile.
Andiamo per ordine: sul posto (la famigerata “location”) c’è poco da dire, è un vicolo ben poco significativo di una zona di Genova un tempo sicuramente meravigliosa ma adesso massacrata dal porto, dall’incuria, dai cavalcavia della autostrada… Per fortuna è meglio l’interno, piuttosto curato, con qualche spunto di colorata fantasia mai troppo sopra le righe. Unici difetti: le luci poco calibrate e l’acustica: quando il locale (comunque diviso in due sale non enormi) si riempie, il rumore è fastidioso.

La proposta culinaria (che presenta chiaramente qualche velleità di innovazione) si basa principalmente sul pesce e si articola in maniera interessante in una bella selezione alla carta e in diversi menu degustazione, che a me piacciono perché permettono di assaggiare più piatti seguendo un percorso coerente deciso dallo chef.
Bella la carta dei vini, che evita di affogare in un mare di referenze e di annoiare con le solite etichette ben note, esibendo un ricarico corretto.
Proprio sui vini ho un appunto: ho scelto uno Chenin Blanc della Loira che non conoscevo. Ora, lo so che lo chenin blanc è versatile e si può trovare fermo, spumantizzato, dolce eccetera, ma se in carta non c’è  nessuna indicazione al riguardo, e la persona cui lo ordino non dice nulla, e io sto scegliendo un vino a tutto pasto, mi aspetto si tratti di un vino secco. Non è stato così, e ho ricevuto un (ottimo) vino dolce… Bastava una domanda: “E’ un vino dolce, è sicuro di quello che ha scelto?”.

Decido per un menu basato sul pesce povero e inizia la cena: buoni il pane e i grissini preparati sul posto e ottimo il prosecco colfondo offerto (chi ha versato ha omesso il nome del produttore, purtroppo).
Non mi dilungo sui singoli piatti, trovo non abbia molto senso. Di certo si avverte la volontà di proporre qualcosa di diverso, di rispettare la materia prima (che mi è sembrata di livello) e di lavorare con passione; altrettanto certamente si avverte in maniera trasversale a quasi tutte le portate la mancanza di un piccolo spunto in più, sia esso un pizzico di sale, un giro di pepe, un giro d’olio, una grattata di zenzero… insomma, di un piccolo spunto a completare un piatto comunque ben fatto, tanto più se la base è appunto “povera” e, immagino per questioni di pescato, sei costretto ad usare lo sgombro in più di un piatto.
Unica preparazione completamente sbilanciata è stato lo sgombro marinato nell’aceto: l’aceto copriva in maniera assoluta il pesce, annullandone ogni aromaticità; notevoli invece il carpaccio e il tataki. Non amo particolarmente i dolci, ma ho trovato gradevolissimi sia il biancomangiare alle mandorle che il millefoglie, nessuno dei due stucchevole.

Il servizio è stato cortese e professionale, e il conto sicuramente correttissimo. Da rivedere i tempi di preparazione: sono entrato alle 20 in punto e sono uscito dopo altre due ore e mezza, decisamente troppo.
Trovo qualche analogia con uno dei miei ristoranti preferiti a Genova, Voltalacarta: stessa volontà di ricerca, stessi mezzi un po’ risicati e medesima attenzione al prezzo finale. In questo caso decisamente meglio la carta dei vini, ma un punticino in meno alle portate, proprio a causa di quella mancanza di spunto di cui ho scritto più sopra.

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Metodo Interrotto, Furlani

Non avevo neppure mai sentito parlare della Cantina Furlani, ma il consiglio di un amico unito al mio apprezzamento per le bolle trentine hanno fatto breccia e ho provveduto all’acquisto.

Cerco qualche informazione sulla bottiglia appena portata a casa e sul produttore ma trovo davvero poche note: un sito di questo tenore nel 2015 è quantomeno indice di poca lungimiranza…

Da quanto capisco, la Cantina dispone di sei ettari di terreno vicino Trento, coltivati con varietà autoctone ed internazionali, ed appartiene al “giro” dei produttori “naturali”, con conduzione biodinamica, rifiuto dei prodotti di sintesi in vigna, affidamento ai lieviti autoctoni, nessun controllo della temperatura in vinificazione, nessuna aggiunta di solforosa e nessuna filtrazione.

furlaniDenominazione: VSdQ
Vino: Metodo Interrotto
Azienda: Furlani
Anno: –
Prezzo: 16 euro

La bottiglia in questione è composta per l’80% da chardonnay e il rimanente da pinot nero, con due anni di riposo sui lieviti.
Un accenno al tappo a corona: non mi scandalizzo, anzi per certi versi è meglio, eliminando alla radice i problemi di sentori di TCA, ma da un vino di una certa importanza con un prezzo di gamma medio bassa ma comunque non regalato, mi aspetto qualcosa di più professionale.

Il ciclo di produzione è quasi quello di un “normale” Metodo Classico, non fosse che viene omessa la fase di sboccatura, quindi non c’è aggiunta di liquore di dosaggio e solforosa: questo ovviamente rende il bicchiere opalescente, lattiginoso, con un aspetto tipicamente da metodo ancestrale o da rifermentato sur lie. Oggettivamente bruttino a vedersi.

La bolla non è da manuale, mantiene una buona finezza ma è ma un po scarsa e l’olfattivo è sempliciotto: floreale e accenni aggrumati, nulla di più.
Il sorso non è male: abbastanza pieno e di discreta lunghezza, ma manca un po’ di acidità, di tensione: si sente qualche accenno dolcino eccessivo, ed è abbastanza sorprendente data la assenza di dosaggio. Per fortuna in chiusura non fa capolino alcun richiamo amaro.

Spumante semplice, di non troppe pretese, non troppo rustico e con una sua dignità; direi una valida alternativa al prosecco per un antipasto disimpegnato.

Il bello: semplice ma gradevole

Il meno bello:  manca la spinta acida acida

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Pas Dosé 2009, Rizzi

Gli spumanti prodotti in Piemonte, siano o meno sotto denominazione Alta Langa, sono una tipologia su cui a  mio avviso si tende troppo spesso a sorvolare con una alzata di spalle: nel mio piccolo mondo di assaggi ho spesso incontrato bottiglie di buon livello vendute a prezzi corretti.
Non fa difetto neppure questo Pas Dosé, messo a punto da un importante produttore di Treiso, ovviamente noto per i suoi Barbaresco: Rizzi.

Denominazione: VSDQ
Vino: Pas Dosé
Azienda: Rizzi
Anno: 2009
Prezzo: 20 euro

Il vino è a base chardonnay con apporto di nebbiolo e pinot nero e viene prodotto ovviamente con il Metodo Classico, facendo uso di lieviti selezionati su cui riposa per ben 56 mesi.
Nella stessa giornata lo ho assaggiato dapprima nel pomeriggio, durante una degustazione di Barbaresco, versato da una magnum sboccata da circa tre mesi, ed era sicuramente un bel bere, poi la sera: convinto della validità del prodotto ne ho portato a casa una bottiglia di formato standard con sboccatura di circa un mese, forse troppo recente (a proposito, complimenti per la precisa indicazione in controetichetta, con data completa di giorno, mese e anno).

I miei appunti parlano di giallo verdolino con bolla copiosissima e piacevolmente esuberante che solletica senza essere fastidiosamente dura, di uno spettro olfattivo abbastanza classico (fiori e frutta tropicale, comunque molto fresco) e di un sorso piacevolmente teso ma equilibrato, senza le acidità stellari, strappagengive di certi non dosati, con un finale senza traccia di fastidiose scie amare.

Segnalo che il vino della magnum aveva una compiutezza maggiore, in particolare a livello olfattivo; ad ogni modo: ottima bevuta a prezzo tutto sommato corretto.

Il bello: bella spinta acida ma ottimo equilibrio del sorso

Il meno bello: in questo caso, bottiglia forse troppo giovane

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Le vieux clos 2009, Nicolas Joly

Nicolas Joly è ormai qualcosa di più di un (bravo) vignaiolo della Loira: su di lui tanto si è scritto e detto, anche perché in questi ultimi anni altrettanto si è parlato di biodinamica, pratica di cui Joly è considerato uno dei guru e di cui è da sempre carismatico divulgatore.
Da parte mia, ho esplicitato Il mio pensiero su questa metodologia in un vecchio post, quindi è inutile ripetermi, e d’altro canto a me poco importa se quel che bevo è stato ottenuto usando il cornoletame o la temperatura di fermentazione controllata, i lieviti selezionati o il diserbo meccanico… tutto molto interessante, eh, ma quel che conta davvero è poi il bicchiere…

Siamo dunque all’interno della denominazione Savennières, circa 150 ettari sul lato destro della Loira, dove domina lo chenin blanc, vitigno dalla rilevante acidità, tanto interessante quanto sottovalutato, forse anche perché usato in tutto il mondo in produzioni spesso intensive e poco qualitative.

Oltre al mitizzato Coulèe de Serrant (che personalmente non ho mai avuto modo di assaggiare, intimorito dalla micidiale accoppiata di prezzo importante abbinato a rilevanti alti e bassi di qualità), Joly vinifica un second vin a denominazione Savennières: Les Vieux Clos; ecco, questo l’ho bevuto un paio di volte da millesimi diversi e, con le dovute differenze, entrambe le occasioni hanno avuto il denominatore comune di un miglioramento costante ed estremamente rilevante delle qualità organolettiche dal momento dell’apertura sino al giorno seguente.

Joly_Vieux_Clos_SavenierresDenominazione: AOC Savennières
Vino: Les Vieux Clos
Azienda: Nicolas Joly
Anno: 2009
Prezzo: 30 euro

Quello che ho avuto stavolta nel bicchiere: vino color oro, lucente e abbastanza fluido, che olfattivamente parte male, con accenni di zolfo.
L’etichetta dice di decantare, a me non va e preferisco aspettare e spillare qualche sorso ogni qualche ora.
Dopo mezza giornata la musica cambia: lo zolfo è scomparso e finalmente domina una albicocca matura, fine e decisa, frammista a fiori gialli e pietra focaia. Bellissimo

il sorso è sorprendente: dato il punto cromatico, gli aromi e l’alto grado alcolico, immaginavo di trovare un vino pericolosamente in bilico, pronto a scivolare nello stucchevole; invece scalda, si, ma vibra di acidità e scorre veloce, accompagnato da un lunghezza rimarchevole.

Sicuramente un vino da non mortificare con una temperatura di servizio troppo bassa: i 14 gradi indicati in etichetta sono corretti, ma se si sbaglia per difetto non si fa nulla di male, anzi… Altrettanto certamente è una bottiglia di difficile abbinamento: la freschezza notevole unita alla ottima persistenza e alla intensità dei sapori esigerebbero un cibo complesso, di buona struttura e magari con una certa aromaticità, ma il problema vero è la necessità di stappare con ore di anticipo e soprattutto di seguire il vino nella sua evoluzione. Alla fine forse è meglio gustarlo in splendida solitudine, magari con qualche grissino e pezzetti di formaggio, in accompagnamento ad una giornata di pigrizia.

Il bello: ricco, cangiante, profondo, personale

Il meno bello:  poco facile da reperire; necessità di stappare ore prima del consumo

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Vecchio Samperi Ventennale, De Bartoli

Il classico adagio recita che non ci può essere un due senza il tre, e allora dopo i Grappoli del Grillo e il Terzavia, come esimersi dal metter mano (pardon, labbra e lingua e palato) ad uno dei pezzi forti della azienda De Bartoli, il Vecchio Samperi Ventennale, che ancora una volta onora alla grandissima l’uva Grillo.

Dopo una magnifica interpretazione in bianco e una altrettanto valida spumantizzazione, è la volta quindi di un vino ossidativo secco: il Marsala di tipologia Vergine (ma non si può dire, visto che non rientra nella DOC a causa della mancata addizione alcolica, e difatti raggiunge in splendida autonomia i suoi 17,5 gradi alcolici).

Il nome è mutuato dalla zona di coltivazione dell’uva, appunto la contrada Samperi nell’entroterra di Marsala, e i dati tecnici parlano di Grillo al 100%, con resa di 20hl per ettaro, di selezione e raccolta manuale e poi di fermentazione in fusti di rovere e castagno a temperatura non controllata.
Il lungo affinamento (una media di venti anni, da qui parte del nome in etichetta) viene poi svolto sempre in legno, in maniera analoga al Soleras utilizzato ad esempio per lo Sherry: dalle botti si preleva una piccola quantità di vino poi sostituita con altrettanto più giovane. L’operazione viene svolta periodicamente, in modo da creare un amalgama tra millesimi e invecchiamenti differenti.

samperi ventennaleDenominazione: Vino liquoroso secco
Vino: Vecchio Samperi Ventennale
Azienda: De Bartoli
Anno: –
Prezzo: 35 euro

Premesso che non amo i vini ossidativi, non posso comunque non ammirare il risultato: bel colore ambrato, carico e lucente che introduce richiami olfattivi legati al salmastro, allo iodato, alla terra e al fungo, con una punta di vernice in lontananza.

L’ingresso in bocca è sorprendentemente scorrevole nonostante gradazione e intensità, e la bevibilità si giova della netta impressione di secchezza.
Il corpo presente ma agile accompagna un finale decisamente molto persistente: un vino che nella mia immaginazione vedevo bene servito piuttosto fresco e abbinato a formaggi robusti, magari erborinati, ma che sorprendentemente si è trovato più a suo agio in abbinamento a pasticceria secca e ad una temperatura quasi ambiente.

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SoloUva: approfondimenti

Giusto due righe per segnalare che su Intravino è comparsa una interessante discussione sul Metodo SoloUva, di cui avevo scritto qualche tempo fa.

Consiglio di impiegare qualche minuto, oltre che per leggere l’articolo, anche per approfondire i commenti, che riportano interessanti interventi sia tecnici che organolettici e anche gli importanti interventi di Giovanni Arcari.

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Grillo 2013, Barraco

Non è passato molto tempo da che ho tracannato il meraviglioso Grillo di De Bartoli, ed ecco che mi capita a portata di cavatappi una bottiglia con cui posso approfondire la mia conoscenza del vitigno.

L’etichetta stavolta porta il nome di Barraco, piccola azienda vicino a Marsala che produce circa 15000 bottiglie l’anno, tutte ottenute dalla vinificazione di uve autoctone: Grillo appunto, poi Zibibbo, Pignatello e Nero d’Avola.

Il sito è molto chiaro sulle modalità di produzione: per i bianchi ci sono quattro giorni di macerazione sulle bucce, poi fermentazione con lieviti non selezionati a temperatura non controllata. Malolattica spontanea, minima solfitazione, affinamento in acciaio e imbottigliamento senza filtrazione e chiarifica.

barraco_grilloDenominazione: Terre Siciliane IGT
Vino: Grillo
Azienda: Barraco
Anno: 2013
Prezzo: 13 euro

Nel bicchiere trovo un bell’oro luminoso e pulito: non sembra affatto un vino non filtrato.
Al naso arriva un bel respiro di aromi primari (uve, frutta fresca), con alcuni accenni di agrume e un graffio iodato.

L’assaggio è pieno, robusto, caldo ma maschera bene i suoi 13,5 con buona acidità e perfetta sapidità; tutto bene, a parte una lievissima scia amara nel finale che sporca appena un sorso di ottima compattezza.
Sicuramente da servire a temperatura non troppo fredda e da abbinare a cibi non troppo “light”: nel mio caso ha lavorato egregiamente con verdure fritte.

Inevitabile il  confronto con de Bartoli: questo Grillo è meno esuberante, più composto, forse più classico. Sono due vini che parlano la stessa lingua ma con accento diverso: personalmente preferisco “I Grappoli” di De Bartoli, ma è solo una questione di gusti personali, ed è anche vero che la bottiglia ha un prezzo diverso.

Il bello: sapidità e calore per un sorso mediterraneo

Il meno bello: nulla da segnalare

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Champagne Gremillet Zéro Dosage

Come sempre, ci si diverte quando si assaggia un vino di cui non si conosce nulla: zero aspettative, zero pregiudizi…  In questo caso poi si tratta di un regalo, quindi non conosco neppure il prezzo: la situazione ideale!

champagne_gemillet_zero_dosage_brut_natureDenominazione: Champagne
Vino: Zéro Dosage
Azienda: Gremillet
Anno: –
Prezzo: ? (è un regalo)

Stappo e verso un vino color oro pallido, con bolla finissima ma stranamente poco numerosa e un po’ scomposta (ma migliorerà col passare dei minuti).
Gli aromi sono molto interessanti, con richiami floreali, vegetali e di agrume, in un assieme estremamente fragrante e fresco.

Il sorso è ambiguo, nel senso che trovo buone durezze (l’acidità vibrante e la sapidità notevole), corroborate da un corpo adeguato, ma l’assaggio è un po’ mortificato dalla bolla palliduccia.
Gli aromi di bocca appartengono alla famiglia della frutta secca (mandorla) e accennano al balsamico, con un buon finale di adeguata lunghezza, senza punte di amaro.
Alla cieca azzardo un pinot nero, perlomeno in prevalenza.

Terminata la bottiglia, è tempo di una rapida occhiata al sito aziendale per carpire qualche informazione: l’azienda si dice familiare ma di certo non è una piccola impresa, visto che si estende per 40 ettari vicino a Troyes, in quella zona che è considerata un po’ la cenerentola sfigata dello champagne, la Côte des Bars.
Il vino assaggiato, lo Zero Dosage, è descritto come vinificato in acciaio a temperatura controllata, ed è un blend di varie vendemmie, con malolattica svolta, residuo zuccherino di circa 2 grammi per litro e almeno 28 mesi di invecchiamento.

Il bello: la freschezza e l’olfattivo di ottimo livello

Il meno bello: bolla un po’ risicata

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Roederer Brut Premier

Tra le grandi maison di Champagne, Roederer può vantare un particolare che la rende estremamente moderna: se storicamente era uso comperare l’uva per poi occuparsi solo della fase di vinificazione e affinamento, già a metà del diciannovesimo secolo Louis Roederer decide di acquistare i vigneti che ritiene migliori, in modo da controllare in prima persona tutto il processo produttivo.

Crescendo di generazione in generazione, la maison è arrivata oggi a possedere circa 240 ettari nel cuore della Champagne, tra Montagne de Reims, Vallée de la Marne e Côte des Blancs, tutti classificati Grands o Premiers Cru e ad avere a catalogo una vasta gamma di prodotti, dal demi sec Carte Blanche al Brut Nature millesimato, dal Vintage al Rosé, passando per un Blanc de Blancs, fino a quello che è ormai (suo malgrado) un simbolo del lusso ostentato e un po’ cafone, il Cristal.

Non sono purtroppo vini per tutti i portafogli, tantomeno il mio, quindi è giocoforza parlare del più accessibile del listino: il Brut Premier, classico assemblaggio di 40% di Pinot Nero, 40% di Chardonnay e 20% di Pinot Meunier, con uve provenienti da vari appezzamenti vinificate in legno, e poi affinato da tre anni di permanenza sui lieviti.
Al corpo del vino ricavato da un millesimo principale viene aggiunto il 10% di vini di riserva di altre annate, in modo da assicurare carattere e corpo predefiniti.

L’apertura non è piacevole, ennesimo caso di questi mesi di un tappo non perfetto: lungi dall’essere un bel fungo allargato alla base, il cilindro resta di diametro troppo uniforme. Un po’ di esperienza mi dice che spesso i vini spumanti che presentano una chiusura di questo tipo non sono al top, ed infatti troverò una bottiglia certamente non difettosa ma meno piacevole di una analoga provata nei mesi scorsi.

roedererDenominazione: Champagne
Vino: Brut Premier
Azienda: Roederer
Anno: –
Prezzo: 40 euro

L’aspetto manco a dirlo è da manuale, oro pallido con bolle sottilissime e numerose. Il naso tradisce un’anima morbida e dagli aromi sono banditi il fruttato aggrumato o il minerale; trovo qualche cenno floreale ma poi arriva prepotente la speziatura. E’ scongiurato il rischio “vaniglione”, perché il complesso è comunque assai delicato. Dopo un’ora si apre e si arricchisce ulteriormente, in particolare con note di glicine.

In bocca è molto classico e conferma quello che l’olfatto aveva evidenziato: la bolla delicatissima (forse anche troppo), qualche agrume sottotraccia e poi una decisa morbidezza che denota un certo dosaggio (non ho dati ufficiali, ma ad occhio siamo sui 10 g/l) e l’evidente passaggio in legno; per fortuna arrivano a bilanciare il sorso l’acidità di buon livello, il corpo prepotente e una lunghezza rimarchevole.

Si nota la maestria della costruzione: il bicchiere si ferma un millimetro prima della esagerazione e riesce a non essere stucchevole, dando vita ad un vino sicuramente da abbinamento, troppo opulento per il semplice aperitivo.

Il codice riportato in etichetta e inserito sul sito parla di una cuvée 2009, imbottigliata nel 2010 e sboccata nel 2012, quindi forse un po’ troppo “avanti” per un brut base?
Certo, lo ricordavo migliore, mi resta il dubbio di una bottiglia non al meglio magari a causa del tappo, ma a questi livelli di prezzo francamente mi aspetto sempre l’eccellenza.

Piccola nota: capirei se il sito riportasse note più esaustive, ma qualcuno mi spieghi il senso del dover andare su internet e inserire il codice per vedere due-dati-due… bastava aggiungerli in etichetta e si evitava la scocciatura… Boh.

Il bello: corpo, stuttura, classcità del sorso

Il meno bello: un po’ troppo opulento. dosaggio avvertibile

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Vinnatur in Borsa!

In effetti è proprio nello storico Palazzo della Borsa di Genova che, dopo due anni a Sestri Levante, Vinnatur ha deciso di ospitare la sua annuale rassegna ligure.

Palazzo della Borsa GenovaNon conosco i motivi dello spostamento (sebbene qualcosa alle orecchie sia arrivato non mi piace riportare voci di corridoio), ma di certo la nuova sede unisce grande effetto estetico a comodità e spazio: siamo nel pieno centro di Genova, in un maestoso edificio in stile liberty edificato ad inizio XX secolo, con parcheggi (a pagamento) a portata di mano, e a cinque minuti dalla stazione.

Come per il passato non si può non elogiare l’organizzazione di Vinnatur: ai banchi degli espositori non mancano mai pane e acqua, i ragazzi dell’alberghiero si prodigano nello svuotare le sputacchiere e c’è, a pagamento, il benedetto guardaroba (in inverno è davvero noioso girare per banchetti con giacche e cappelli in una mano e bicchiere e penna nell’altra).
L’unico consiglio che mi sento di dare per migliorare ulteriormente: sarebbe bello un catalogo dei produttori un pochino più corposo, con la mappa, il dettaglio dei vini e un piccolo spazio per gli appunti.

vinnaturLe impressioni generali: ho la sensazione che il numero degli espositori sia diminuito, ma forse è l’effetto della maggiore metratura dello spazio espositivo; di sicuro sono molto minori i banchi relativi al cibo.

Per quanto riguarda i vini, avendo poco tempo mi sono preso l’impegno di dedicarmi quasi esclusivamente ad aziende che non conoscevo (a parte qualche ri-assaggio “goloso” di nomi che gradisco particolarmente) e qui iniziano le note meno positive: la media non è stata entusiasmante, tra bicchieri decisamente troppo giovani, qualche volatile un po’ troppo evidente, molti sorsi “corti” e varie altre rusticità.
Forse era la mia giornata sfavorevole, forse sta cambiando il mio approccio a certe tipologie di vino, ma le mie sensazioni hanno avuto pieno riscontro anche dalle quattro chiacchiere scambiate con alcuni amici incontrati.

vinnaturMi limito a segnalare brevemente quello che mi ha colpito favorevolmente: davvero interessante il Carignan del Domaine Vinci, vitigno e zona (il Roussillon) da me sempre trascurati; bene tutti i prodotti della azienda Radoar (se ricordo bene dalla Valle Isarco), con evidenza particolare ad un Kerner morbido e piacione senza essere stancante; una scoperta i Fiano de Il Don Chisciotte: macerazioni senza esasperazione che regalano complessità e gusto, mai prevaricando il vitigno; davvero godibilissime le selezioni Zanovello di Cà Lustra (Colli Euganei), in particolare ‘A Cengia (Moscato bianco e Fior d’arancio) e Girapoggio (C. Sauvignon e Carmenere).
Menzione a parte per la conferma assoluta Camillo Donati: i suoi rifermentati in bottiglia (tutti) hanno non una ma due marce in più rispetto agli altri assaggiati e possiedono il raro dono di una bevibilità assassina…

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