Non c’è nulla di male nel pregiudizio. Il pregiudizio ci aiuta ad evitare di intraprendere azioni che molto probabilmente deluderebbero e ci provocherebbero rimorso; l’importante è essere consapevoli del fenomeno e capaci di cambiare idea senza troppe remore.
Avevo un grande, enorme, pregiudizio sul bistrot novarese di Cannavacciuolo: ristorante aperto da poco, locale non ammiraglio di una mini-catena appartenente ad volto ormai onnipresente a livello mediatico, difficoltà a trovare posto in fase di prenotazione (sono finito in una specie di secondo turno un sabato a pranzo), accesso alla sala accompagnato da personale molto formale ed affettato, gran folla all’interno.
Il mio pregiudiziometro personale è saltato fuori scala quando, giunto all’ingresso prima dell’ora stabilita, ho provato a chiedere se era possibile anticipare l’accesso e il body language del responsabile è stato così amichevole da indurmi a valutare di annullare la prenotazione…
Non lo ho fatto, ed è stato un bene: mi sarei perso un pranzo dal buon livello generale e con alcuni passaggi di forte personalità grazie a sapori decisi, capaci di osare (ad esempio il risotto ricci, capperi, limone e acciuga). Menzione obbligatoria per l’ottima piccola pasticceria.
Certo, i tavoli non sono particolarmente ampi e lo spazio tra gli stessi è piuttosto ridotto, la carta dei vini è un po’ risicata e i prezzi non popolari (ma neppure eccessivi: siam pur sempre nel ristorante di una star televisiva); di contro il servizio è sorprendentemente veloce e affabile considerando la quantità di clienti presenti, e l’abbinamento vino-cibo al calice selezionato dal sommelier, pur non pescando da etichette prestigiose, funziona bene. Insomma: pregiudizio sconfitto, mi sento di consigliare la prova senza esitazione.
Prima di buttare giù qualche riga, ho volutamente aspettato che fosse trascorso qualche giorno dal fatto. Il “fatto” in questione è ovviamente il decesso di Luciano Zazzeri, il patron de La Pineta.
A differenza dei molti che la scorsa settimana hanno commentato la notizia, io non ero un cliente abituale del Luciano, tantomeno un suo amico, anzi mi sono attovagliato nel suo locale una sola volta, qualche anno fa, persino con lieve circospezione poiché qualche recensione vagheggiava di trattamenti freddini nei confronti degli avventori occasionali e di una location un po’ datata.
Soprattutto, lo ammetto, temevo l’effetto “locale da turisti in spiaggia”, con il classico menu di pesce tutto sommato banale (non) riscattato dalla seduta fronte mare.
La faccio breve: non andò così e il ricordo della cena è piacevolmente ammantato di una lieve nostalgia; l’accoglienza del personale di sala fu gentile e simpatica, per nulla affettata, tanto che senza averlo chiesto mi venne riservato un tavolo in spiaggia, visto che si era nella prima sera della stagione in cui si cenava all’aperto); le preparazioni, pur nella loro semplicità (o forse proprio grazie a questo), furono tra le migliori portate di mare mai assaggiate, e il signor Luciano fece un passaggio al tavolo pur avendo chiaramente in sala clienti ben più prestigiosi e noti del sottoscritto.
Insomma, la mia serata riuscì a combinare un locale familiare ma gentilmente elegante e di gran qualità con il clima gradevolissimo di una notte di inizio estate: difficile chiedere di meglio.
Memore di due notevoli passaggi a La Crepa di Isola Dovarese era da tempo che avevo voglia di approcciarmi alla Trattoria Guallina. Non che ci sia alcuna relazione tra i due locali, ma la reciproca ubicazione nella profondità della provincia lombarda e una certa fama di eleganza coniugata a rustica tipicità, mi forzavano l’accostamento.
In realtà le differenze non sono poche: se La Crepa la trovate nella piazza centrale di un paesino, qui siamo in una frazione di campagna, e mentre il locale di Isola Dovarese è un gioiellino retrò, qui l’atmosfera è più comune: una trattoria curata, ecco. Analogamente la cantina, pur affatto malvagia, non raggiunge la ricercatezza e la correttezza dei prezzi del ristorante Cremonese.
Al sodo: sono capitato a Mortara il mezzogiorno di un venerdì e per fortuna avevo prenotato: gran numero di coperti per un servizio veloce, ben fatto ma un po’ imprersonale.
Il cibo è ovviamente incentrato sulla eccellenza locale, l’oca, e rispecchia l’immaginario di trattoria vera: piatti grandi e sapori forti (in particolare un risotto con pasta di salume d’oca davvero “troppo” come quantità e come intensità), misto di salumi discreto ma non da urlo come avrei immaginato, petto d’oca un po’ troppo cotto.
Alla fine l’esperienza non è malvagia ma neppure entusiasmante, soprattutto in ragione di un conto che ho trovato leggermente sbilanciato verso l’altro in ragione di ambiente, servizio e portate.
Come si individua il limite tra sperimentazione sterile, un po’ fine a se stessa o (peggio) messa in campo per stupire con effetti speciali, e la sana volontà di rompere gli schemi per cercare di stimolare e proporre nuove esperienze?
Naturalmente stiamo parlando di ristorazione, e il dubbio è sorto dopo un passaggio alla Antica Osteria Magenes, alle porte di Milano.
Già in partenza il ristorante si pone in maniera ambivalente, con una proposta che oscilla tra tradizione e sperimentazione: la carta presenta alcuni piatti classici (ad esempio cotoletta e risotto giallo) accanto a suggestioni più esotiche (penso alla Spirale di foie gras, uva fragola, robiola di capra, fave di cacao, o ai Ravioli di mortadella, ostriche, nocciole e shiso), e soprattutto una serie di menu (quattro) tematici ma a sorpresaa tema, che lasciano mano libera allo chef.
Il motivo di questa apparente schizofrenia è la storia del locale, che nasce appunto come osteria e poi evolve dopo l’ingresso in cucina e in sala dei figli dei proprietari storici.
In una situazione del genere la cosa migliore è affidarsi ad uno dei percorsi di degustazione, in modo da ricavare una panoramica più ampia possibile sulle idee di cucina dello chef. Nello specifico ho deciso per il menu “A-mare”.
Le portate sono state molte e varie, e non ha molto senso farne l’elenco, visto che mi pare di capire che la proposta sia piuttosto variabile: in alcuni casi i sapori sono piacevolmente decisi (ricordo in particolare una sorta di fagotto di pasta scotta (volutamente) ripiena di vongola, la arachide soffiata con wasabi), mentre con altri si resta tutto sommato indifferenti (il finto pomodoro ripieno vegetale), ma questo è normale all’interno di un percorso piuttosto lungo (anche troppo, circa tre ore) e variegato.
Lascia semmai più perplessi una certa tendenza alla spettacolarizzazione poco votata al risultato finale (due per tutti: il frattale di anice camomilla, miele e lamponi, che pure è molto buono ma che per poter creare il suo effetto ottico è arduo da raccogliere dalla scodella, e il cioccolato bianco, frutta e bottarga, nel quale per dare un tocco di giusta sapidità al dolce si è optato per il “famolo strano” del pesce, a mio modestissimo modo di vedere piuttosto fuori luogo) e l’incongruenza sulla dimensione delle portate, alcune così lillipuziane da renderne difficile la decrittazione gustativa, per poi presentare quasi in chiusura di cena, quando si è inevitabilmente quasi sazi, due piatti dalle porzioni molto più generose del necessario (un risotto e un polpo).
Sia chiaro che non parliamo della classica lamentela del recensore di TripAdvisor che lamenta di dover far seguire un successivo passaggio in pizzeria per calmare l’appetito, al contrario da Magenes si esce ovviamente più che sfamati, semmai non sarebbe male rimuovere un paio di passaggi in modo da rimpolpare leggermente i rimanenti e compattare anche i tempi di servizio.
Note a contorno della cena: la bella sala elegante, senza sfarzi pacchiani ed illuminata in maniera estremamente intelligente, risulta un po’ troppo rumorosa, il servizio è professionale e non ingessato, il pane è di buon livello ma non eccessivo come varietà.
Bella la carta dei vini, con incursioni di interessante personalità anche in Francia e dai ricarichi corretti.
Conto finale non banale ma tutto sommato adeguato.
Buona esperienza, che potrebbe essere migliorata decidendo di arginare spettacolo e di tecnica in favore di un superiore saldo di concretezza.
Certo che al Caffè La Crepa non ci capiti per caso: per quanto mi riguarda ci sono voluti circa 25 minuti di auto, partendo da un hotel di Cremona e viaggiando lungo uno stradone Provinciale, diritto come la lama di un coltello che affonda la Pianura Padana nel buio più totale.
Essendo, come chi scrive, almeno un po’ attratti da certe atmosfere lievemente crepuscolari, si potrebbe persino essere affascinati quando si giunge ad Isola Dovarese: è freddo, c’è una pioggerellina leggera frammista alla nebbia appena accennata e si parcheggia dove si vuole in una ampia piazza di paese letteralmente deserta e illuminata in maniera piuttosto fioca. Non un rumore, neppure un cane.
E’ proprio su questa bella piazza porticata, da provincia antica, che si affaccia il palazzo del XV secolo che ospita al suo interno il Caffè La Crepa, la trattoria della famiglia Malinverno.
Se fuori il tempo sembra essersi fermato, lo stesso accade entrando nel locale, accolti da un grande bancone da bar sovrastato dal classico specchio inclinato, poi, sulla destra, una sala arredata con divanetti e sedie con velluti e una caratteristica stufa in maiolica. Io sono capitato in una serata in cui l’illuminazione era esclusivamente a lume di candela: benvenuti negli anni ’20!
Ok, ma il cibo? Non si cerchi qui il birignao di certi stellati: certo, c’è la piccola polpetta servita in guisa di amuse bouche, ma poi si parte con un menu a forte connotazione gastronomica locale declinato in forma canonica di antipasto, primo, secondo e dolce, con porzioni casalinghe che non occhieggiano alla litania del menu degustazione dalle millemila micro-portate.
Da queste parti non può mancare la classica entrée di salumi, tutti di gran livello, in questo caso serviti con una fetta di frittata e un contorno di giardiniera.
A seguire: gustosissimo il ripieno dei marubini in brodo, piacevole ma un filo troppo asciutto il riso alla pilota con salsiccia d’oca e finocchietto; pazzesco il cotechino, così morbido che si scioglie in bocca e in qualche modo riesce persino a non sembrare grasso… Chi lo ha assaggiato mi dice buone cose anche del dolce; ottimo il pane, che immagino maison (ma non ho chiesto).
Molto ben curata la carta dei vini, ovviamente non enciclopedica ma ricca di etichette “giuste” con un ricarico corretto, peccato non sia forse aggiornatissima, visto che una bottiglia scelta non era poi presente.
Per la cronaca, ho pasteggiato con un Laherte Millesime 2006 clamoroso: champagne da amatori, con un filo di ossidazione nobile e la bolla appena cedevole a supportare una pienezza gustativa encomiabile.
Non sono sicuro che il termine “trattoria”, oggi fortemente abusato, sia corretto per la tipologia di locale, ad ogni modo il servizio è garbato, preciso e giustamente informale, e il conto adeguato: fosse un locale sotto casa sarei felice di frequentarlo quando possibile.
Lo ammetto, una buona dose di prevenzione mi faceva temere che il ristorante Capo Santa Chiara fosse il classico fumo con poco arrosto.
Lo temevo per vari motivi: anzitutto per il notevole battage promozionale al momento dell’apertura, poi perché il locale è collocato in posizione perfettamente strategica per ricadere nella definizione “ristorante fighetto” (classificazione coerente con varie gestioni non brillanti, che immagino abbiano puntato molto sull’immagine e poco sui contenuti) e non da ultimo perché lo chef Collami è reduce da un lungo e prestigioso passato al comando di Baldin, uno dei nomi storici della ristorazione genovese che però gli ultimi passaparola davano in fase calante, forse anche a causa della perdita della stella Michelin.
E invece, una volta tanto, è bello vedere smentiti i propri pregiudizi.
Anzitutto arrivi a Boccadasse, in pratica un pezzetto di Camogli in pieno centro di Genova: un borgo marinaro ricco di suggestione, silenzio e paesaggio a due passi dalle vie principali della città, capace di predisporti al meglio per la cena. E poi entri nel locale, nuovo, curato, elegante ma non affettato, con una meravigliosa cucina a vista che colpisce appena si mette piede all’interno. Del panorama è inutile parlare, così come della bella terrazza, che immagino prenotatissima nelle giornate con meteorologia favorevole.
Mi piace invece spendere qualche parola per il personale di sala, giovane e competente, mai freddo ma neppure sbracato (bravi!) e per le comodità delle sedute, che spesso in tanti ristoranti vengono sacrificate in nome del design. Da elogiare anche il giusto spazio tra i tavoli e un arredamento che garantisce una discreta insonorizzazione. Segnalo anche che le portate sono arrivate con buon ritmo fin quasi alla fine, quando il locale si è riempito e il servizio ha avuto un minimo di difficoltà.
Piacevoli le varietà di pane e focacce e interessante la carta dei vini, di certo non ciclopica ma fornita di una discreta varietà di etichette non banali a prezzi tutto sommato adeguati alla classe del locale; io ho scelto l’SP68 Bianco di Occhipinti (vino che colpisce per il bouquet esuberante, ma forse un po’ eccessivo a tutto pasto).
Come spesso preferisco, mi sono affidato ad un menu degustazione, nello specifico cinque portate a scelta dello chef per 38 euro. Degni di nota un cous cous croccante di seppia, semplice ma molto gradevole e una pasta al nero di seppia ripiena, gustosa a puntino senza eccedere in sapidità. Unica portata sottotono, un baccalà su purea di patate con tartufo nero: nulla di grave, ma il tuberaceo un po’ insapore rendeva il piatto piuttosto banale.
A termine cena ci si alza senza appesantimenti e di certo senza fame: segno che le quantità sono ben calibrate.
Non è indispensabile, e capisco che un menu di pesce a 38 euro in una location del genere sia già un gioco di incastri complicato, ma un piccolo fuoriprogramma all’inizio o al termine avrebbe gratificato ancor di più il cliente…
La conclusione è che forse Genova ha un nuovo locale di riferimento per quanto riguarda la “gamma alta” della ristorazione, elegante nei cibi come nella location, ma con prezzi accessibili. Resta la curiosità di provare i piatti alla carta per capire se c’è la possibilità di puntare alla stella.
Leggi Ovada e subito pensi al Dolcetto, o comunque a vini appartenenti alla tradizione Piemontese magari in declinazione Monferrato, e a piatti altrettanto territoriali… invece una vocina ti spiffera che in centro città c’è un locale diverso, con un titolare simpaticamente un po’ matto e totalmente “champagne addicted”. Vorrai mica non farci tappa?
E’ così, grazie alla segnalazione di Gianluca Morino, che mi sono imbattuto in questa “Vineria Champagneria Quartino diVino” di cui avrei altrimenti ignorato l’esistenza: è un locale carino, elegante ma molto alla mano, in cui mi pare di capire si possa fermarsi per un aperitivo o un piatto veloce, oltre che per cenare come ho fatto io.
Al momento del mio passaggio la carta si articolava in una manciata di proposte di terra, con attenzione a carni e a formaggi locali e a qualche piccola incursione in piatti di mare; ho provato gli uni e gli altri ricavandone la medesima impressione: ottime materie prime elaborate in portate abbondanti ma curate (non è l’osteria del camionista) e cucinate in modo da ricavarne preparazioni forse non troppo raffinate ma di certo vigorosamente gustose.
Nonostante la ragione sociale, la carta dei vini propone non solo bolle: presenti pure un bel numero di etichette dei rossi locali e qualche bolla nostrana. Ovviamente importante la scelta degli Champagne, e all’interno di questa tipologia il proprietario sembra avere una decisa liason con Drappier: di questa maison non avevo mai assaggiato nulla e ho gradito un Brut Nature 100% pinot nero di ottimo rapporto qualità prezzo.
In sintesi: personale cortese e veloce, titolare simpatico e competente, ambiente informale, prezzi dei piatti non bassissimi ma corretti in ragione di quanto assaggiato e favorevoli ricarichi sui vini: un locale che mi sento di consigliare a tutti coloro che passano in zona e vogliono fare una piccola deviazione rispetto alla classica trattoria piemontese.
“Temo che ci rivedremo nel 2015”: così concludevo il mio piccolo sfogo di due anni fa a proposito di Cheese.
E’ lampante, già lo sapevo che nonostante tutte le mie riserve sulle orde di visitatori poco accorti, sui magheggi di marketing di Slow Food, sulla assurdità delle olive ascolane e della piadina romagnola accanto ai presidi africani, a Bra ci sarei tornato nel 2015.
E infatti eccomi qui, a raccontare le solite cose e a commentare le medesime immagini; certo, la minestra la si può condire con qualche nuovo aneddoto come quello del gruppo di romani: uno di loro fende la calca per inforcare finalmente una briciola di Stilton, la divora, ne agguanta un altro pezzetto e lo porge ad uno dei compari, urlando: “Aoh, senti che bono”. Risposta dal fondo: “No, no, io mica me fido a magnà stà robba”. E qui sarebbe più dignitoso chiudere, ma non posso non ricordare che, stavolta, c’erano anche i furgoni dello street food.
Ci si domanda che ci azzecchino con i formaggi, e pazienza, ma un minimo di controllo su cosa debba essere uno street food ci vorrebbe, ad esempio un cartoccio con alcune (poche) polpettine di carne appena dignitose, venduto a 7 euro di sicuro non lo è.
Chiudo con la mia piccola guida per la sopravvivenza a Cheese 2017:
se possibile, vai al venerdì (lo so, idea originale…)
se, come per me, il venerdì ti è impossibile, perlomeno arriva al mattino presto. I banchi aprono alle 10, entro le 9.30 si riesce a parcheggiare quasi in città, evitando l’autobus
prepara prima una lista di cose che vuoi assaggiare e che ti interessa approfondire e più o meno attieniti a quella, perlomeno per le prime due ore, le uniche nelle quali la folla non è ancora a livelli da prima fila nel prato durante il concerto di Jovanotti. Il cazzeggio indiscriminato ai banchi lascialo per dopo
evita di metterti in coda per qualsiasi cibo dopo le 12. Mangia prima o moooolto dopo
ricorda che puoi entrare in macelleria, comperare un metro di salsiccia di Bra, poi andare dal panettiere all’angolo e farti un panino gourmet ad un terzo del prezzo richiesto agli stand
porta uno zainetto per mettere gli acquisti; riempilo a casa con una bottiglia d’acqua (ho detto bottiglia, non bottiglietta)
in ogni caso, alle 15 sbaracca: hai mangiato e bevuto come un orso, hai camminato e sgomitato per ore, inutile proseguire
p.s. menzione doverosa per lo stand di Ales and Co: ho bevuto diverse birre, tutte di ottimo livello, ma in particolare una Mosaic di The Kernel strepitosa per quanto era fresca e fragrante.
Non portando Onassis come cognome (e neppure Sacco, se per questo) non è purtroppo mio costume quotidiano mettere le gambe sotto al tavolo di ristoranti stellati; d’altro canto mi sono reso conto (soprattutto il mio allarmato portafogli lo ha fatto) di non riuscire più a tollerare le cene in pizzerie che propongono a poco meno di 10 euro dischi di pasta mal lievitata e condita da improponibili surrogati di mozzarella, o trattorie “che mi ha detto un amico che con 25 euro è tutto genuino e ti danno certi piattoni…”.
Ecco, senza voler per forza essere snob, ho detto basta.
Da qualche tempo ho deciso che se baratto euro per roba edibile lo faccio solo per entrare in locali che mi promettono una certa qualità e soprattutto per vivere un esperienza non replicabile neppure sommariamente tra i fornelli di casa mia. Magari ne posso restare deluso ma perlomeno ho avuto una aspettativa di qualcosa di “alto” e di diverso.
Dunque dicevo: non discendendo da stirpe di armatori o petrolieri e non avendo antenati parlamentari, questa mia perversione gastronomica devo centellinarla, ma i casi della vita mi hanno portato in questi ultimi sei mesi circa a varcare l’ingresso, tra gli altri, di un tristellato, un bistellato e due monostellati, ricevendone impressioni radicalmente differenti.
Non voglio fare recensioni, non ne sarei in grado causa desuetudine a deschi così importanti e deficienza di un lessico appropriato alla descrizione di sapori e impiattamenti; soprattutto, per mio convinto imbarazzo, non ho provveduto alla ormai obbligatoria documentazione fotografica professionale delle portate. Mi limito quindi a qualche schizzo di impressione, a cercare di capire cosa mi è rimasto dopo queste visite.
Prima tappa per un menu che mai mi sarei potuto permettere se non non grazie ad un regalo: Piazza Duomo ad Alba.
Che avesse ragione il buon (ex-)Cavaliere? Ma quale crisi: prenotare in un ristorante che propone degustazioni da circa 200 euro a cranio, vini esclusi, richiede circa un mese di preavviso, e la prima cosa si nota dopo l’ingresso è che molta della clientela è palesemente composta da abituè…
Curioso che in una cittadina così distinta e caratteristica, un locale di questo livello, posizionato proprio nel centro del centro storico, abbia accesso da un portoncino anonimo in un vicoletto, e che la sala sia certo elegante ma tutto sommato neppure troppo.
Nei piatti ho trovato una cucina che definirei postmoderna per come decisamente abbandona i crismi della tradizione cui siamo assuefatti: il minimalismo impera, e ad esempio l’uso costante delle verdure di stagione, proposte in mille maniere e mille famiglie a me sconosciute, denota certo una ricerca quasi maniacale, esasperante, ma talvolta anche la mancanza di goduriosità al palato. E’ una cucina concettuale, che richiede concentrazione per registrare sapori minuti, sfumature, tocchi leggerissimi.
Perfetta la gestione dei tempi, giustamente formale ma non eccessivamente ingessato il servizio: non ci si sente a disagio.
Non la definirei una cena, piuttosto una esperienza interessante ma non appagante nel senso più sensuale del termine: temo sarebbe forse necessario ripeterla più volte per ambientarsi nel mondo sensoriale ideato da Enrico Crippa, peccato non poterlo fare.
Seconda tappa poco distante: ristorante San Marco.
Solo trenta chilometri separano Alba da Canelli, ma sembra di aver attraversato continenti nello spazio e qualche era nel tempo: qui la sala con i quadri, il caminetto, gli infissi in legno e gli scaffali delle bottiglie racconta un approccio ben diverso alla tradizione, e lo stesso accade con un rassicurante menu dai piedi saldamente poggiati nella ritualità piemontese.
Che dire: la cantina è ben fornita a ricarichi umani, la signora Mariuccia (persino il nome della chef racconta un Italia semplice e concreta) passa in sala con grande amichevolezza a proporre un bis di quel che si è preferito e i prezzi sono abbordabili. In sostanza si mangiano bene piatti appunto della tradizione (ad esempio degli straordinari tajarin 40 tuorli) ingentiliti ed elegantizzati quel tanto che basta per rendere onore alla stella.
Un appunto: la mia seconda visita è casualmente coincisa con la festività cittadina dell’assedio di Canelli, e l’ovvio affollamento nel locale ha causato qualche sbavatura nei piatti che non avevo riscontrato la prima volta. Tenetene conto.
Per la terza tappa scendiamo lungo lo stivale fino a Lucca, destinazione l’Imbuto di Cristiano Tomei, chef noto per varie apparizioni televisive dalle quali trasudano innata simpatia e verve comunicativa.
Se a Canelli avevamo fatto ritorno nella tradizione, qui viriamo decisamente nella modernità spinta a cominciare dalla formula: il ristorante è ospite nelle sale di un museo di Arte Contemporanea e non ha neppure un insegna all’esterno; si mangia dunque nelle salette del museo, con una mise en place e un servizio piacevolmente informali.
Ma soprattutto il ristorante non ha un menu: ci sono quattro proposte “al buio” con un diverso numero di portate che lasciano carta bianca alla fantasia totale dell’autodidatta Tomei.
Ne risulta una sarabanda di portate in cui si sovverte ogni schema classico, che alterna picchi altissimi (la bistecca primitiva e uno strampalato creme caramel di fegatini di pollo e salsa di soia) e discese rovinose (uno spaghetto con salsa di albicocca) e che assomiglia ad un cuoco un po’ cazzaro che gioca, sporcandosi le mani modificando, pasticciando, inventando, distruggendo, che talvolta esagera persino prendendoci un po’ in giro ma talvolta (forse suo malgrado) ci regala sensazioni sorprendentemente intensissime e parimenti piacevoli. Di sicuro non ci si annoia, anzi ci si diverte, aiutati anche da un prezzo non improponibile; certo, resta la curiosità di capire cosa potrebbe accadere se Tomei rallentasse per cercare di mettere a punto un menu consolidato e (più o meno) “stabile”.
Carta dei vini a prezzi corretti ma un po’ risicata.
Ultima fermata a Senigallia, dove, come credo tutti, sono attanagliato dall’imbarazzo della scelta: Uliassi o Cedroni?
Decido non con la monetina ma con la pancia: leggo i menu, ricordo le apparizioni tv, clicco i blog e i siti di settore ma resto sempre in bilico. Il colpo di grazia me lo regala una serie di video sponsorizzati su YouTube nei quali Cedroni presenta qualche ricetta e si piega a raccomandare un certo gas come ingrediente fondamentale a chilometro zero: credo ci sia un limite alle panzane che posso digerire e la decisione è presa.
Seriamente: se potrò, sarò felice di provare una cena alla Madonnina del Pescatore, ma mai sono stato più contento di un scelta: l’esperienza da Uliassi è stata connotata da una sequenza spettacolare di portate, un meccanismo perfetto che ha alternato alla naturale preponderanza dei piatti di mare un paio di incursioni nella carne (e mi resta l’acquolina in bocca, pensando a cosa debba essere il menu di cacciagione).
Soprattutto, Uliassi è riuscito a porgermi il sacro Graal che avevo mancato da Crippa: il bilanciamento tra innovazione e ricerca e l’immediata e massima comprensibilità e piacevolezza del piatto.
Ricordo distintamente i fusilloni ai ricci di mare o la ricciola alla puttanesca o ancora delle cannocchie stellari, ma tutta la cena è stata un unico zenith, di certo la migliore della mia vita, una esperienza resa ancora più piacevole dalla ambientazione in una struttura in riva al mare semplice ma elegante e da un servizio cordialissimo, orchestrato con bella leggerezza dalla sorella di Mauro, Katia.
Bella carta dei vini, con ricarichi per nulla eccessivi.
Esco da questa serie di cene con alcune certezze: la prima è che mangiare bene costa tanto. Troppo. E il dramma è che dopo essersi seduti in ristoranti di questo calibro diventa arduo godere in locali di pretese inferiori.
La seconda, è che in tutti i casi ho assistito ad organizzazioni di gran livello, con una regia che mai mi ha fatto attendere per ore un piatto o ha dimenticato una portata o ha lasciato spazio a disguidi.
La terza è che i vari menu degustazione sono ben calibrati e anzi, talvolta persino troppo abbondanti, e da queste mense mai si esce con la fame come paventato dalle recensioni di legioni di mangioni inveterati: cari amici di TripAdvisor, ma che ve magnate a casa???
Cinque Euro per un calice di Berlucchi, non ho altro da aggiungere Vostro Onore!
Certo, come dice il sito “per partecipare a Slow Fish non occorre acquistare un biglietto, l’ingresso è gratuito!”, e ci mancherebbe: hai diritto di aggirarti gratuitamente fra i food-truck che friggono le acciughe e i tendoni che propongono birra (ovviamente entrambi a pagamento), hai facoltà di bighellonare tra stand che ad esempio offrono due-pezzetti-di-pane-due con sopra un pezzetto di palamita a soli due euro. Eccetera.
Va bene, ci sono i dibbbbattiti e le lezioni e gli slogan roboanti su “Cambiamo rotta per salvare il mare e nutrire il pianeta”, ma se a questi accosti i 5 euro (più due per il prestigioso micro-calice e relativa elegantissima tasca portabicchiere) per sorseggiare un Franciacorta in piedi, senza lo straccio di un grissino, permetti che mi sento un po’ preso per il culo?
Dirai che la qualità si paga, tanto più se te la portano sotto casa, ma si dà il caso che a me la sorte degli stand abbia riservato un arancino inspido, una linguna salatissima e una tiella ustionante fuori però ancora congelata dentro. Tutto a pagamento, s’intende, e tutto a seguito di doverosa coda chilometrica. D’altronde siamo “slow” o no?
Chiuderei parlando della partecipazione: una la folla debordante ed ignara dei buoni propositi relativi al risanamento degli oceani, che che si avventa per un granello di formaggio o una crosta di pane e olio in assaggio, per poi, rigorosamente dotata di portafoglio in mano, dilettarsi in attese e spintoni al fine di accaparrarsi il diritto ad uno spiedino da rosicchiare appoggiati ad un palo della luce, con i piedi pestati dai tizi in coda per la birra.
Agli amici di Slow Food vien da chiedere se forse una manifestazione con un (modesto) biglietto di ingresso per selezionare il pubblico realmente interessato, qualche espositore francamente inutile in meno e un minimo di controllo su prezzi e qualità dei prodotti in vendita, non potrebbe essere più rispettosa delle sbandierate intenzioni rispetto a questa sorta di sagra della salsiccia (o meglio, del gambero)…
Temo mi si possa rispondere che espositori e organizzatori sono, giustamente, felici così: Slow Fish, Big Cash.