Birre USA all’Irish Pub

L’Irish di Genova Quinto è un pub storico del capoluogo ligure, uno dei primi che in tempi remoti (quando l’interesse per le birre di qualità era affare da “pionieri”), ha avuto in carta un numero considerevole di etichette di rilievo.

Da molto non frequentavo il locale, a causa di una serata abbastanza infelice: non tanto per il cibo, che all’Irish è sempre stato un po’ così (del resto trattasi appunto di “pub”, non certo di ristorante), ma soprattutto perché avevo trovato la selezione delle bottiglie abbastanza sguarnita e un paio di spine non proprio in forma, anzi…

Una serata a tema, incentrata sulle birre USA e condotta dal solito Kuaska (potenzialmente molto interessante, visto che in zona le produzioni birrarie indipendenti americane sono poco reperibili) mi ha dato modo di rimetterci piede.

Irish Birre USA

L’ambiente è sempre lo stesso, nel  bene e nel male: rustico e caldo, un bel pub, con tavolini troppo piccoli e panche per sedersi. Spine non male, una decina mi pare: ricordo un paio di tedesche, un paio di Brewdog,  una Brewfist, una Chimay. Colpevolmente, non ho consultato la carta delle bottiglie.

Tema della cena: birre e cibo USA, ecco i dettagli:
– Pancake alla birra con pancetta con “Morimoto Imperial Pils”, Rogue Ales, Newport (Oregon)
– Cheddar Soup con “Red Giant”,  Element Brewing Company, Millers Falls (Massachussets)
– Quaglia al forno con salsa agrodolce (panna, funghi e marmellata di ciliegie) con “Shakespeare Oatmeal Stout”, Rogue Ales, Newport (Oregon)
– Peanuts Butter Cake con “Bam Biere”, Jolly Pumpkin Artisan Ale, Dexter (Michigan)

Considerazioni: la qualità delle portate è sempre quella… direi che in questo senso l’Irish è un locale irrisolto, nasce come pub e immagino abbia competenze culinarie adeguate a quel ruolo; quando tenta qualcosa in più non riesce del tutto.
Nella fattispecie, i pancake erano freddi (per fortuna non la pancetta), la zuppa non male, le quaglie senza infamia e senza lode e la torta al burro di noccioline (come facilmente immaginabile) un mattone colossale.
Servizio da pub: non mi aspetto certo i fronzoli, e vanno bene tovagliette e tovaglioli di carta, ma mettere in tavola una bottiglia d’acqua e un cestino di pane nell’attesa di iniziare (soliti 30 minuti di ritardo, ormai mi sono rassegnato: vale ad ogni serata) mi sembrerebbe poca fatica, così come credo non sarebbe da rovina cambiare le posate con le portate…

Le birre:
Morimoto Imperial Pils: una “imperial pils”, e ti viene il nervoso solo a sentirla, una denominazione del genere. Persino la bottiglia in ceramica, affrescata con caratteri orientali è tanto fighetta da farti perdere la pazienza, poi però vedi gli ingredienti (100% malto pilsner, 100% luppolo Sterling, lievito cieco. Niente strambismi, finalmente!), la osservi, la assaggi e cambi idea.
Dorata, lievemente opalescente, schiuma un poco grossolana; naso ricchissimo di miele di acacia con accenni erbacei. In bocca, dati gli oltre 70 IBU, dovrebbe essere una delle bombe amare che tanto vanno di moda, invece il malto bilancia benissimo e la scia piacevolmente amara resta solo a fine sorso. Che gran connubio malto-luppolo!
Abbinamento strampalato ma funzionante: l’amaricatura robusta riesce a diluire la grassezza della pancetta calda e la dolcezza delle pancakes.

Shakespeare Oatmeal Stout. Birra contraddittoria, sia perché non mi pare troppo in linea con lo stile dichiarato (che vorrebbe una luppolatura più morbida rispetto a questi 69 IBU di Cascade e Perle), sia perché è tanto poco interessante al naso (non si sente quasi nulla, e mai si sospetterebbe l’uso del Cascade: bottiglia non recentissima?), quanto piacevole al palato: caffè, cioccolato e un tocco di affumicato e di salmastro; corpo piacevolmente leggero, si beve benissimo.

Red Giant: boh. Mi è scivolata via senza particolari impressioni. Birra per me molto anonima.

Bam Biere. Delusione della serata, data l’importanza del birrificio; forse anche stroncata da un abbinamento criminale, deciso dalla padrona del locale.
Fermentazione secondaria in botte, con lieviti selvaggi e si sente: lattico, terra, un filo di speziatura, legno. Naso dunque complesso, anche se non troppo fine (il legno la marca molto), pur parlando di birre acide. Il problema è in bocca: molto più semplice e tranquilla, limonosa e corta, troppo corta. La immagino bene per un aperitivo.

Serata interessante e prezzo corretto, considerando le birre non banali e il solito superlavoro di Kuaska.

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St. Peter’s India Pale Ale, o dell’ordinario birrario

Mi capita raramente di assaggiare birre di St. Peters Brewery, e tutte le volte ho l’impressione che manchi sempre un centesimo per fare una lira.

Mi spiego: come fai a non pensare bene di questo birrificio inglese del Suffolk, che in tempi non sospetti ha contribuito a preservare la leggenda delle real ales con prodotti di buon livello, rigorosamente rispettosi della tradizione?
Come fai a non provare simpatia per un produttore che non si lascia invischiare nelle solite mode delle birre one-shot, delle collaborazioni, delle birre “famolostrano” (quelle che Kuaska chiama “birre Disneyland”)?
E poi la bottiglia è elegante e il formato da 50cl a me piace molto…

Quindi tutto a posto? No, purtroppo, perché appunto ogni volta che mi capita una St. Peter’s per le mani non sono mai convinto fino in fondo.
Ieri sera ho preso una bottiglia di India Pale Ale (in un pub, pagata 5 Euro) e l’ho trovata poco felice: colore ambrato leggermente spento, schiuma non abbondante e abbastanza evanescente e grossolana.

Naso a posto: biscotto e un bel luppolo inglese discretamente presente ed elegante, almeno rispetto a certe bombe resinose che vanno oggi per la maggiore.

I problemi maggiori sono in bocca: carbonica lieve, corpo medio e deciso sentore di frutta secca (noce, nocciola), biscotto, caramello, che in qualche modo mal si amalgama con un amaro poco pervenuto e con una lieve dolcezza burrosa.
In sostanza: due o tre sorsi possono andare, ma finire la bottiglia è pesante, e questo non è certo un complimento per un prodotto che credo vorrebbe appartenere alla categoria delle “session beer”.

Viene persino il dubbio che si tratti di una bottiglia poco felice, magari rimasta da tempo sullo scaffale, visto che il pub in cui la ho consumata non è certo luogo di particolare smercio per le particolarità birrarie.

Boh, riproveremo.

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Vino contro birra, alla Ligure

Luci e ombre nella serata “Vino contro birra” del 25/9 organizzata da Papille Clandestine presso il ristorante “Il Genovese“.

Il format è quello oramai classico, inventato dalla coppia Schigi (Luigi D’Amelio: sommelier, esperto di birra e da qualche tempo anche produttore birrario) – Kuaska (Lorenzo Dabove, il massimo cultore della birra in Italia): una cena e per ogni piatto sono proposti sia un vino che una birra. Dopo ciascuna portata i commensali votano l’abbinamento migliore. Alla fine si decreta il vincitore.

Chi conosce i due protagonisti sa che queste serate sono ben lontane dal tipico appuntamento “cena con abbinamento vini” con produttore o sommelier un pochino ingessati che fanno la canonica introduzione più degustazione tecnica e via.
Kuaska è inarrestabile e scoordinato. Coinvolge e diverte, narciso e logorroico: una fucina di aneddoti che sgorgano senza soluzione di continuità per tutta la durata di ogni evento.
Schigi è meno torrentizio, più moderato (anche se imbarazza un poco accostare questo termine ad uno dei più accaniti polemisti-flamer che si sia mai incrociato su internet), ma anche più focalizzato e preciso nel descrivere il prodotto presentato.
Entrambi puntano tutto sulla comunicatività e sulla simpatia, senza alcun formalismo.

Nella fattispecie, la serata si svolgeva presso “Il Genovese”, ristorante in pieno centro di Genova, specializzato in piatti della tradizione.

Il menu e gli abbinamenti:

Le mie considerazioni.

Torta pasqualina: una buona torta di verdura, non una pasqualina (lo so che ci sono molte ricette, ma per me se non ci sono uovo e carciofi non è corretta), e andava a meraviglia con il sapido Colfondo a bilanciarne la dolcezza. Accoppiamento con la birra poco felice: data anche la presenza di Kuaska (detto il Principe del Pajottenland) avrei visto decisamente meglio una Gueuze.

Gnocchi al pesto: buoni, ma decisamente troppo poco aglio per essere in un ristorante che fa della tradizione la sua bandiera. Abbinamento non perfetto in entrambi i casi: il pigato era un po’ troppo “ciccione”, e il bouquet della birra male assortito con la salsa.

A margine: nessuna delle due proposte di 32 Via dei Birrai mi ha convinto, eppure in passato ho assaggiato cose interessanti di questo produttore. Bottiglie sfortunate? Abbinamenti non ottimali? Serata mia particolare? Forse questa ultima, visto che altri astanti hanno gradito.

Brandacujun: bel piatto; abbinamento un filo ardito (pesce e rosso) ma sicuramente riuscito con il Santa Maddalena, che ha un tannino lievissimo e corpo medio. Male la accoppiata con la Beerbera, birra che mi piace molto ma che personalmente vedo bene con affettati o formaggi di media grassezza.

Polpette di mucca cabannina: piatto molto piacevole e abbinamenti entrambi riusciti: il Santa Maddalena accompagna senza sovrastare la polpette, piuttosto delicate, e l’amaro e la aromaticità presenti (ma non eccessivi) della Ambrata conducono bene al boccone successivo.

Pinolata: buona, ma molto ricca e pesante, in particolare al termine di una cena con diverse portate e con porzioni non risicate. Sulla carta l’abbinamento con la Papessa (una imperial stout sui generis, ma comunque molto caffettosa e tostata, più adatta a cioccolate o magari erborinati) era una follia, ma tutto sommato non è andata peggio che ad una malvasia piuttosto deludente.

Al mio personale cartellino, e non solo, la vittoria è andata al vino.

Conclusione: cibo, vini e birre di livello adeguato, in particolare considerando i 30 euro di spesa comprese le bevande.
Note negative: davvero troppo lunga la serata, con il canonico inizio in ritardo e troppa attesa tra le portate, forse anche a causa del pienone e della logistica delle presentazioni degli abbinamenti e della raccolta dei voti  (il ristorante è su due piani).

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Pasturana 2012

Sulla via per Terroir Vino ho tenuto il fegato in allenamento portandolo al più classico dei raduni birrari italiani, la tre giorni di Pasturana, una tranquilla e ordinata cittadina di mille abitanti (siamo nell’alessandrino, zona di Gavi), nella quale, grazie uno di quei fenomenali paradossi spazio-temporali che talvolta animano la profonda provincia italiana, da dieci anni si organizza uno dei più rinomati e divertenti festival dedicati alla birra di qualità italiana.

Piccola digressione, ci tengo a far notare che ho scritto di qualità per evitare l’uso del termine artigianale: birrariamente abusato e poco ricco di significato. Un tempo, agli albori della scena dei microbirrifici italiani, si parlava di birra non filtrata e non pastorizzata, ma ultimamente, caduto il dogma della non filtrazione, si punta di più su altri aspetti: non è la stessa identica bevanda delle multinazionali, è prodotta con cura, passione e ingredienti di qualità, è prodotta in quantitativi limitati e via emozionando ma non specificando.
In definitiva, visto che è difficile spendere il termine “artigianale” sulla base dei volumi prodotti (ci sono esempi di birrifici statunitensi che sfornano gazillioni di ottima craft beer, degli ingredienti usati (proprio noi italiani siamo maestri nel impreziosire il mashing con pepe rosa, zenzero, zafferano e mille altri stranofacendoli) e dei processi di produzione, preferisco basarmi solo sul risultato organolettico del prodotto finito: “birra di qualità”.

Tornando a noi: Pasturana è uno strano ibrido mutante, a metà tra la strapaesana sagra della salsiccia e la ricercatezza di Slow Food: per dire, ci sono le tavolate comuni con le panche e i piatti di carta e accanto i laboratori del gusto proprio di Slow Food condotti dal maestro Kuaska, il concerto rock della cover-band i turno e molti birrai che passano a farsi un bicchiere.

Il top dello svacco è che la manifestazione si svolge accanto a un bel campo da calcio (di quelli di una volta, con l’erba vera e non sintetica) sul quale è possibile campeggiare liberamente. E la gente, per sfuggire al sacrosanto etilometro, campeggia: famiglie con i bambini che giocano a pallone e biker che tra due ore vomiteranno l’anima, camper e tendine lillipuziane di quelle che si montano da sole lanciandole in aria… insomma l’atmosfera è rilassata, senza incravattati e senza pregiudizi.

Tra tanti pregi, i difetti son sempre quelli da che io ho memoria: il cibo un po’ così, i bicchieri di plastica, la temperatura di servizio uniformemente glaciale, le code per il cibo e per i bagni, la spillatura non sempre perfetta… ma, diamine, siamo qui per divertirci in primis, e solo poi per le pippe sulla esegesi organolettica del fermentato di malto.

Il pubblico presente è pure lui un Giano bifronte, coprendo tutta la gamma zenith-nadir del caso: dai super-appassionati che si sono fatti ore di auto per esserci, si conoscono tutti fra loro, forgiati da anni di cameratesca carboneria birraria, si portano da casa il bicchiere di vetro per godere meglio e smanettano sullo smartphone per aggiornare i loro beer ratings, ai ragazzotti che si affollano per prendere una ciocca colossale (sicuro) e per quagliare con qualcuna delle giovani addette alle spine (magari).

In mezzo a questo magnifico calderone ci sono le protagoniste, le birre.
In cartellone una quindicina di birrifici per trenta birre, a rappresentare, tra gli altri, storici quarti di nobiltà della scena brassicola italiana (Baladin,Montegioco), solide certezze (Maltus FaberToccalmatto) e giovani rampanti (ExtraomnesBrewfist).

Dichiaro subito inadeguatezza e rozzeria: in cuor mio credo che solo la visione coatta di una settimana di Porta e Porta possa essere più noiosa e inutile dei punteggi (82 questo, 83 quello: dai, fammi ridere) e della psichedelica giungla dei descrittori, per questo mi limiterò a qualche accenno.
Disclaimer: ai festival birrari non si sputa, vivaddio, si manda giù tutto di buon grado. Questo piccolo ma significativo aspetto, se certo contribuisce al gioioso clima raccontato poco sopra, immagino non sia un buon viatico per la completezza e la lucidità della descrizione delle bevande.

In generale, per quanto ho potuto provare (non si sputa, ricordate?) qualità discreta: nessun grosso difetto ma anche nulla che abbia fatto gridare al miracolo e molte produzioni penalizzate dalla serata fredda e ventosissima che osteggiava il raggiungimento della temperatura corretta delle birre.
Le note di quello che più ho apprezzato: la mia bevuta della serata è stata la T.I.P.A. di Pausa Caffè (birrificio torinese forse poco sugli scudi e non troppo assiduo nei commenti degli aficionados): una bella e classica IPA da 6,7 gradi, dal colore carico e corpo medio a sostenere un luppolo importante ma non sfacciato, semmai elegante (leggo sul sito: East Kent Golding, quindi un nobile europeo).

La piacevolezza della semplicità è ben rappresentata dalla Blond di Extraomnes (microbirrificio di Marnate, capeggiato dal ben noto Luigi “Schigi” d’Amelio): chiara come lascia intuire il nome, 4,4 gradi, corpo leggero ma non acquosa, secchissima, fresca di un agrumato dissetante, con una leggera speziatura e un amaro ben presente ma che non supera i livelli di guardia. Come si dice in questi casi: da berne a secchi; sicuramente ideale per l’estate.

Per coloro cui piacciono i cazzotti amari, i pesi massimi delle IBU, c’era la Spaceman di Brewfist, giovane ma affermato birrificio lodigiano, creatore di questo instant classic della scena brassicola italiana: si tratta ancora di una IPA (tra gli stili più modaioli del momento) da 7 gradi, densa, volutamente esagerata, resinosamente amarissima ma non monocorde.

Sempre da Brewfist, professionisti dell’estremo ma non solo, ancora una mazzata: la Imperial porter X-ray. Nera impenetrabile, appena un filo di abboccatura e poi tonnellate di tostature (cioccolato, caffè, orzo) e anche una bella manciata di luppoli a bilanciare. Detta così sembra una mappazza, e forse lo è, ma lasciata scaldare si beve bene.

Curiosamente interessante la Due Mondi del Croce di Malto di Trecate, una collaboration beer (altro trend attuale) realizzata con lo storico Birrificio Italiano. Due Mondi di nome e di fatto: lo stile di partenza dichiarato è quello tedesco delle doppelbock, quindi gradazione rilevante (siamo a 7,7 dichiarati) e corpo ben presente, maltosità pronunciata e un certo grado di tostatura. Fin qui siamo nei canoni, ma la Due Mondi a tutto questo aggiunge una buona dose di luppolo americano, aromatico e amaricante e notevole secchezza a rendere il tutto più facilmente bevibile. Da provare il prossimo inverno.

Nota finale di merito per l’organizzazione di Pasturana: al mattino prima delle 8, per coloro che si risvegliavano e dovevano riprendersi dall’hangover, magari per mettersi in auto e far ritorno a casa, c’era il servizio bar aperto con caffè e cappuccino. Ringraziamo sentitamente.

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IBF Genova: disastro annunciato

IBF

Durante “Pork’n’beer” lo avevo detto ai ragazzi di Brewfist che IBF Genova rischiava di essere un flop pazzesco, e purtroppo così è stato. Non ci voleva molto per prevederlo: concomitanza con il Salone nautico, la piazza di Genova, la mancanza dei birrifici genovesi (questo non si sapeva, ma si poteva immaginare), erano tutti elementi fornieri di sciagure… Si aggiunga una desolante mancanza di promozione perlomeno in provincia e il piatto (vuoto) è servito.

Mi spiace ovviamente per i birrai, desolantemente ridotti a vagare da uno stand all’altro per ingannare il tempo, ma in particolare spiace per Genova, che dopo una debacle di queste proporzioni non vedrà più un festival birrario in saecula saeculorum.

Volendo trovare qualcosa di buono: visto il deserto di presenze, per l’appassionato c’era la possibilità di monopolizzare gli espositori e parlare con tranquillità, tanto che anche un timido come me ha avuto modo di fare nuove conoscenze.

Quello che più ho gradito: Zona Cesarini in forma strepitosa, aromatica, delicata e intensa assieme, oltretutto servita da un Allo super amichevole e modestissimo, e la Two penny in versione barricata. Complimenti in questo utlimo caso al birraio per aver saputo dosare con mano lieve il passaggio in legno, caraterizzando la birra senza eccessi.

Una menzione per Kamun, appena arrivati sul mercato, di cui ho assaggiato una blanche molto beverina e del tutto in stile: ben fatto.

p.s. tanto per peggiorare le cose: l’acqua dei rubinetti del palazzetto, usata per lavare i bicchieri tra un assaggio e l’altro, lasciava un percettibilissimo sentore di pescione (d’altronde, Genova è città di mare…)

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Superbirra: che tristezza!

Secondo anno di Superbirra a Genova (niente link: non riescono neppure a fare un sito, occorre seguire su Facebook e simili) e seconda delusione, se possibile ancora più cocente di quella dello scorso anno.

In breve: poche spine (e pochissime italiane), nessun birraio presente (perlomeno in forma ufficiale), nessuna rarità (non è un dramma, ma almeno un contentino agli aficionados si potrebbe dispensarlo), prezzi da rapina (per dire: 4 degustazioni da 20cc 12 euro!!!), bicchieri in plastica.

Tralascio per amore di patria il costo delle bottiglie e del cibo: io sono andato a comperare da mangiare da Eataly che è lì a pochi passi, altri nel magazzino di Farinetti ci hanno comperato direttamente da bere…

L’unica cosa da salvare immagino siano stati i laboratori di Kuaska: ero in zona mentre se ne svolgeva uno e, come sempre, lo ho sentito sgolarsi per quasi due ore.

In definitiva: mi sfugge il senso di una manifestazione del genere e non riesco a capire come abbia fatto a finire invischiato in una porcheria simile una persona seria come Maurizio del O’Connor (pare che lui fosse coinvolto solo nella parte dei laboratori, anche se non mi è chiaro cosa significhi).
Credo che il tutto sia architettato da Timossi (uber-distributore di zona) e dal fighetto Kitchen Mon Amour.

La differenza con un evento recente (inizio Agosto, a Montegioco) come Pork’n’Beer, nettamente più “ruspante”, è abbastanza imbarazzante.
Nonostante si possa trovare qualche riserva anche all’appuntamento piemontese (i bicchieri in plastica, i prezzi), il confronto è impietoso per atmosfera e soprattutto selezione delle bevande.

Superbirra da dimenticare, anzi: da ricordare il prossimo anno in modo da evitarla accuratamente.

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O’Connor: crepi l’avarizia

Brevemente sulla cena “a tema” all’O’Connor: Crepi l’avarizia, birre scozzesi e genovesi.
Conduzione di Kuaska che, una volta tanto senza microfono, si sgola.
Cibo e ospitalità di Maurizio come sempre di gran livello.

Le birre:
– Maltus Faber, Bianca.
Un prodotto che normalmente adoro. Ieri sera l’ho trovata un filo appesantita, forse non era una bottiglia recentissima, e per un prodotto che ha il suo punto di forza nella estrema freschezza, questo potrebbe incidere. Comunque, ce ne fossero.

– Brewdog, Punk IPA alla spina, nuova versione e versione precedente.
Bah… la versione nuova ha decisamente un equilibro maggiore tra corpo, amaro e malto, ma era presente al naso una leggera puzzetta. La vercchia versione è come la ricordavo: piacevole un sorso, diventa subito dopo un maglio di luppolo resinoso che, lungi dall’essere balsamico e piacevole, stanca e asfalta il gusto

– La Superba, Castagnasca.
Non sono un amante delle birre alle castagne, e questo non aiuta, anche considerando che qui il frutto è molto avvertibile. Non mi entusiasma, anche a causa di una dolcezza eccessiva.

– Brewdog: Abstract.
Un mostro da 15 gradi dalla Scozia. Con Mr Chiodi di fronte a me, utilizzando un recentemente introdotto metodo di  degustazione, la abbiamo classificata “mappazza + pigna”.
Seriamente: birra da dopocena, da abbinare a dolci importanti, di grande corpo, naso e retrolfattivo con cioccolata, rabarbaro, caffè, piccante e direi anche una punta di balsamico. IBU a vagonate.
Buona, ma da utilizzare in dosi omeopatiche.

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Il Tempio della Birra? Ma neanche per sogno.

Passi nello sperduto nulla della campagna di Castel Boglione e vedi un casermone bello grosso con una insegna “Il Tempio della Birra”. Vuoi non fermarti?
Certo che ti fermi, ma forse facevi meglio a tirare dritto…
Dentro è molto grande e c’è ampio spazio all’esterno, l’arredaemnto è poco caldo: tavolini e sedie in metallo sponsorizzate Tuborg o qualcosa di simile, vabbè…
Sul sito dicono: “oltre 450 etichette diverse” ma neanche per sogno; ci sono alcune liste: una di birre di Natale (e siamo a fine aprile…), una di roba belga e una di italiane. In fusto (solo 3 spine, peraltro), 3 tedesche a me non note, descritte come “bionda, rossa e doppio malto” o qualche mostruosità simile.
Pazienza: prendiamo un tagliere piccolo di formaggi e una focaccina con mozzarella e pomodoro. Birra scelta, una Orval (5 euro!!): non c’è.
Ripiego su una Gueuze 3Fonteinen: non c’è.
Chiedo se c’è qualche altra fermentazione spontanea, senza frutta: no, hanno solo una Cantillon Criek.
Vedo in lista una Rulles Estivale: il tizio parte, ma torna con una Cantillon Iris… “ho trovato questa”, mi sono già rotto: “Ok, bene questa”.
Formaggi così cosà, focaccina orrida (“La mozzarella è finita, posso mettere un altro formaggio”?), neanche del tutto calda.
La Iris è buona, ma gelata; non è stata data neppure una annusata al tappo alla apertura per controllare che tutto fosse a posto, ed è stata servita in coppe da triple…
Tocco  finale, il costo della bottiglia di Iris da 75cc: 17 euro!!!
Ricapitolando: ambiente abbastanza triste, scelta delle birre alla spina pessima e in bottiglia abbastanza scadente, prezzi folli, servizio scarso, cibo da dimenticare.
In conclusione: se questo è un Tempio della Birra, io sono Zeus.

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