Vinnatur Genova 2016

Non ho voglia di parlare di assaggi, non avevo il blocchetto degli appunti e trovo sempre più noioso l’elenco del telefono dei nomi segnati in piedi nella folla che poi lo rileggi a casa come se stessi decifrando il vangelo aramaico.
Semmai parliamo dell’evento: cosa dire ancora della manifestazione che annualmente Vinnatur porta in Liguria? Ormai da due anni, dopo alcune edizioni a Sestri Levante, Vinnatur si è trasferito a Genova, in pieno centro, in uno splendido edificio storico, ma di questo già scrivevo lo scorso anno.

vinnaturE infondo potrei solo ripetermi, perché di fatto la formula (ormai rodata e vincente) giustamente si tocca: la location si raggiunge facilmente con i mezzi pubblici, è accogliente, c’è spazio, c’è il guardaroba, c’è sempre pane e acqua ai banchetti dei produttori, c’è lo spazio della gastronomia, c’è il depliant con la mappa dei partecipanti. Eccetera.
Non posso poi non notare che il posizionamento in pieno centro città, e forse anche l’aver legato alla manifestazione altri eventi in alcuni locali genovesi, ha trascinato all’ingresso un buon numero di persone evidentemente “non del giro”, novizi del vino, facce nuove incuriosite.

Una nota di merito e una di demerito ai produttori: ho parlato con alcuni vignaioli sorprendentemente onesti, tanto da essere i primi a rimarcare qualche difetto di un loro vino; al contrario, di qualcuno ci si domanda perché partecipi ad una manifestazione se poi non ha il minimo interesse a comunicare con il pubblico…

In mezzo a tutti non puoi non notare il patron Angiolino Maule: magrissimo, l’aria tranquilla di chi si sente a casa ma l’occhio febbrile che guizza l’ennesimo cenno di saluto a una delle mille persone che vengono a rendergli omaggio mentre versa il vino. E’ lui, Angiolino, il motore e l’anima della manifestazione, di Vinnatur tutta e di buona parte del movimento dei “vini naturali” italiani, qualsiasi cosa significhi questa definizione ormai abusata.

Cose negative da segnalare?
Forse l’ingresso potrebbe essere un pochino più contenuto, ma comprende anche un buono per una porzione ai banchi della gastronomia e allora va bene così.
Forse l’orario: aprire domenica e lunedì, saltando il sabato, è una scelta che giustamente lascia una giornata (il lunedì, appunto) più dedicata agli operatori del settore e penalizza un pochino gli appassionati, che in maggioranza non prenderanno ferie e sono quindi costretti ad ammassarsi alla domenica, quando per giunta si chiude alle 18.

Ma queste sono inezie, semmai, se un vero limite della manifestazione esiste, è paradossalmente legato alla sua formula: per l’appassionato che partecipa ogni anno a questo raduno (e anche ad altri a tema simile), più o meno la gran parte dei produttori è ben nota, difficilmente capitano grandi scoperte, quindi oltre ai complimenti meritati per l’organizzazione, porgiamo a Vinnatur gli auguri di tante nuove affiliazioni, così da poterci incontrare il prossimo anno a Genova con una decina di produttori inediti in più.

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Prosecco Spumante Brut Valdobbiadene, Siro Merotto

Disclaimer: il vino di cui parlo in questo post mi è stato inviato gratuitamente dal produttore.
Ribadisco che su questo sito non si fanno sponsored posts e che, se non diversamente segnalato come in questo caso, le bottiglie vengono acquistate dal sottoscritto in enoteca o in azienda.

Ai più attenti tra i miei pochi lettori non sarà sfuggito che il prezzo medio dei vini di cui si parla su questi schermi non è proprio popolare, intendiamoci: non stappo mai rarità o nomi stellari, ma mi rendo conto che 40 (o anche 20, se per questo) euro per una bottiglia non possono essere una spesa quotidiana.
Il motivo di questa mia scelta è banale: io sono uno dei quelli che in settimana durante i pasti scaraffa solo acqua, e mi riservo per il weekend qualcosa di particolare, qualcosa di possibilmente differente da tutto quello che già conosco e che sia, perlomeno potenzialmente, capace di regalarmi emozioni. Al contrario, la mia famiglia era solita avere sempre una bottiglia a tavola, che durava magari cinque o sei giorni.  Quindi, esistono tanti tipi di bevitore, nessuno è quello “giusto” o “sbagliato”, semplicemente ci sono esigenze differenti.

Quanto sopra per introdurre l’assaggio di alcune bottiglie che mi sono state cortesemente inviate in forma gratuita dall’azienda Siro Merotto, facendo notare come il prezzo dei prodotti in questione sia piuttosto distante da quello dei vini di cui solitamente scrivo: senza ricadere nelle dubbie operazioni da etichetta ignota a due euro il litro nel supermercato, il costo consente certamente di definire queste proposte come “vino quotidiano”, e ritengo che come tale debba essere valutato.

Alcuni cenni veloci sulla azienda, che si estende per sette ettari collinari in località Col San Martino, in provincia di Treviso; il lettore smaliziato avrà già capito che siamo al centro della denominazione Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, dunque viene coltivata la varietà Glera ma anche altre tipiche della zona (Perera, Boschera, Verdiso, Bianchetta), declinate in tre tipologie per un totale di circa 25.000 bottiglie annue: il “classico” Prosecco Spumante Brut DOCG, il Prosecco Tranquillo DOCG e anche un vino frizzante chiamato In Un Sol Bianco.

Poco da dire sul fenomeno “denominazione Prosecco”, se non che si trova ad un passo cruciale: al momento lo straordinario successo planetario è stato alimentato in gran parte con la (temo poco lungimirante) politica di estendere i confini della zona di produzione in maniera dissennata, privilegiando la quantità sulla qualità. Capiremo nei prossimi anni se l’aver drogato il mercato con milioni di bottiglie a basso costo e dal profilo organolettico quantomeno discutibile sia una pratica a lungo sostenibile.

Ciò detto, è innegabile che il Prosecco abbia un marcia in più: grazie alla sua immagine vincente di vino per tutti, semplice, relativamente economico, disimpegnato, giovane; sicuramente un profilo che non appartiene ai vini Metodo Classico, che sono poi gli spumanti che abitualmente tratto in questo sito.

spumante-sito-merotto2Denominazione: Conegliano Valdobbiadene DOCG
Vino: Prosecco Spumante Brut DOCG
Azienda: Siro Merotto
Anno: 2015
Prezzo: 8 euro

E’ proprio dal Prosecco Spumante Brut Valdobbiadene, sicuramente il vino più prestigioso della casa, che voglio iniziare.
Indubitabilmente Prosecco alla vista: quasi incolore, scivola leggerissimo nel bicchiere, con bollicine non particolarmente fitte ma che poi in bocca si riveleranno delicate.

Appena aperto è invece un Prosecco leggermente atipico per lo spettro olfattivo non particolarmente intenso, che prende una strada più consona seguendo la scia delicata, molto leggera, di frutta bianca non acerba ma sicuramente fresca. Il riferimento evidente (che tornerà anche all’assaggio) è quello tipico del varietale, quindi la pera.
L’assaggio denota ovviamente un corpo leggero e una buona acidità, fortunatamente non penalizzata da dosaggi invadenti, come spesso accade in questa denominazione; è questo ultimo un aspetto che voglio rimarcare: non siamo di fronte ad uno dei troppi Prosecchi molli e dolcioni che stancano dopo mezzo bicchiere.
Il calore quasi impercettibile, che sembra persino inferiore agli 11 gradi dichiarati, confeziona assieme alla freschezza un vino semplice ma di ottima bevibilità, che poi ritengo sia l’obiettivo cui deve puntare un Prosecco, in particolare se appartenente a questa fascia di prezzo, insomma il compagno ideale di un bicchiere pomeridiano, di un aperitivo o di qualche antipasto non strutturato.

Il bello: semplice, onesto, prezzo abbordabile col plus di un dosaggio controllatissimo
Il meno bello: nulla da segnalare

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Crémant de Loire Cuvee Jean & Jacques, Moulin de l’Horizon

Sono stato per la seconda volta al Salon des Vignerons a Cagnes -sur-Mer, forse non una delle fiere vinicole più note agli italiani, ed è un peccato: intanto si svolge in Costa Azzurra, che è sempre una bella destinazione per un fine settimana, specie in un periodo non vacanziero, quando non c’è grande affollamento, e poi perché certo è un salone dove ci sono i vini (tantissimi, francesi, ça va sans dire) ma c’è anche moltissima gastronomia.
Non essendo ancora riuscito a capire quale sia la logica della disposizione degli espositori, il risultato è che sono stato costretto a girare nei due padiglioni un po’ a casaccio, favorendo le scoperte interessanti.

Se lo scorso anno avevo fatto il pieno di Champagne, questa volta mi sono dedicato a vini a me meno noti, tra cui in particolare roba proveniente dalla zona del Rodano, visto che nei giorni successivi avevo in programma un viaggio da quelle parti. Ma di questo parlerò in un prossimo post.

Sorprendentemente, uno dei vini della giornata è stato questo Crémant de Loire: i Crémant sono denominazioni in Italia ben poco praticate, oscurate a destra dallo Champagne e a sinistra dagli spumanti autoctoni. Lungi da me conoscerne una quantità adeguata per poter tracciare un panorama sensato (oltretutto si spazia tra Alsazia, Loira, Borgogna, Limoux eccetera, persino fino al Lussemburgo, quindi con diversità enormi nelle varie tipologie), ma se la media fosse del livello di questa bottiglia ci sarebbe da gridare al miracolo, anche e soprattutto in relazione al prezzo.

Della azienda Moulin de l’Horizon, situata a Puy-Notre-Dame, con 30 ettari nel cuore della AOC Samour, so poco o nulla, avendo scambiato solo due parole al volo col produttore durante il salone.

Al sodo: si tratta di un assemblaggio per metà Chenin e per metà Chardonnay, che per quel che importa, ha vinto la medaglia di bronzo al Concours des Vins des Vignerons Independants del 2015.

Denominazione: AOC Crémant de Loire
Vino: Cuvée Jean & Jacques
Azienda: Moulin de l’Horizon
Anno: –
Prezzo: 9 euro

L’aspetto è un paglierino tenue, con una bollicina bella continua, fitta e sottilissima, che in bocca si rivelerà vivace ma non puntuta, mentre la fase olfattiva è decisamente intesa per un metodo classico, con molto floreale difficile da identificare, e una scia di anice.

La bevuta è di piacevole pienezza, vivacizzata appunto dalle bolle mai fastidiose e dalla acidità garbata. I toni aggrumati, di pompelmo in particolare, accompagnano il buon equilibrio generale: è un vino piuttosto semplice ma di grande piacevolezza, senza spunti di eccellenza (certo non c’è infinita lunghezza, e una certa morbidezza spunta ogni tanto) ma non posso non definirlo banalmente molto buono.

E’ l’ennesima conferma della grande qualità media dei vini francesi, che con un “semplice” cremant da 9 euro si permettono di tener testa a tanti metodo classico italiano di ben altro prezzo.

Il bello: ottimo aperitivo, prezzo imbattibile
Il meno bello: nulla da segnalare

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Viogner 2012, Château Beauchêne

La breaking news è che sono stato qualche giorno in Francia, per una visita veloce alla zona di produzione del Rodano di cui vi parlerò in seguito.

Durante il viaggio sono entrato un una piccola enoteca a Châteauneuf-du-Pape, avendo occhieggiato all’interno una degustazione; definire caratteristica l’ambientazione è riduttivo: siamo in ottobre inoltrato, è domenica mattina e il paesino (si contano circa 2600 abitanti) è piuttosto freddo e avvolto nella nebbia; più o meno tutti i negozi sono chiusi e in questo negozietto scorgo meno di una decina di francesi col bicchiere in mano davanti ad un bancone peno di bottiglie aperte.
A “condurre la degustazione”, come direbbero i colleghi sommelier, non c’è un tizio incravattato e con padellino al collo ma una vecchina piccola e storta, immagino la padrona del negozio, che con modi assai sbrigativi sbicchiera agli astanti. Accanto, su una vecchia botte, diversi piattini di salumi e formaggi… Come potevo perdermi l’assaggio?

E’ così che ho scoperto questo vino buonissimo, interamente a base Viognier, fermentato e affinato in barrique (ma non si sente), prodotto da una azienda per nulla blasonata e a me sconosciuta, ed è così che mi è stata ribadita per l’ennesima volta la grandezza della enologia Francese, che può vantare una qualità media (lasciamo perdere le vette di eccellenza) sicuramente invidiabili.

vin_81Denominazione: Côtes du Rhône
Vino: 100% Viognier
Azienda: Château Beauchêne
Anno: 2012
Prezzo: 12 euro

Il colore è compatto, giallo dorato, limpido, e gli aromi sono di frutta tropicale (mango, ananas), intensi ma non pesanti: ci sono sempre un accenno viola e una punta di minerale a pulire l’olfatto dalla stanchezza.
L’assaggio è molto sapido, caldo, di buon corpo e gran profondità; avvolge e riempie il cavo orale dove torna il tropicale che si annuncia come una vera spremuta: una roba che detta così è un mattone tremendo, ma invece i guizzi salini e alcolici riescono sempre ad equilibrare un vino che sulla carta sembra esagerato, e invece in bocca (pur molto pieno) resta godibile e tutto sommato persino agile e piuttosto lungo.

Dovessi definirlo parlerei di gusto mediterraneo, inteso non come accade ad esempio con i vini delle Cinque Terre che alimentano ricordi di macchia mediterranea e di mareggiata, ma come un liquido solare, luminoso e intenso come la luce del cielo della Provenza.

In quanto all’uso, mi viene da pensare ad un vino universale: persino da antipasto se ben rinfrescato, ma capace al meglio di reggere tranquillamente formaggi di media stagionatura e altre pietanze discretamente strutturate. L’aromaticità può far pensare anche ad abbinamenti con cibi speziati, orientali.

Il bello: la pienezza e l’intensità mai pesanti
Il meno bello: la scarsa reperibilità, perlomeno in Italia

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Cuis 1er Cru Brut, Pierre Gimonnet et fils

Per le mie tasche proletarie, la fascia di prezzo tra i 30 e i 40 euro è un po’ lo spartiacque tra un vino caro ma tutto sommato accessibile e uno da lasciare sullo scaffale, ed è proprio in questa terra di mezzo che in Italia si possono reperire un buon numero di champagne che, spiace dirlo, fanno barba e capelli a tante bolle nostrane che vengono via per lo stesso esborso: il metodo classico di cui scrivo oggi è proprio uno di questi casi.

Il territorio in cui opera la famiglia Gimonnet è la Côte des Blancs, dove lo Chardonnay regna sovrano: 22 ettari suddivisi tra Grands Crus e Premiers Crus, quasi tutti con vigneti con più di 30 o 40 anni di età.

gimonnetIl vino che ho assaggiato è un sans année, elaborato con assemblaggio di varie annate, in modo da ottenere una vinificazione “rotonda e bilanciata” (come dice la scheda tecnica): missione compiuta certamente!
Oltre al ricorso ai vini di riserva (tutti conservati in bottiglia), le tecniche utilizzate sono quelle della raccolta manuale, della temperatura controllata in fermentazione, dello svolgimento della malolattica, dell’affinamento in bottiglia di 18-30 mesi e di un leggero dosaggio (circa 8g/l).


Denominazione
: Champagne
Vino: Cuis 1er Cru
Azienda: Pierre Gimonnet et fils
Anno: –
Prezzo: 38 euro

Alla vista è paglierino tenue, appena accennato, con bollicine, neanche a dirlo, sottili come punte di spillo, copiose ma non fittissime.
Passando al sodo: la prima impressione olfattiva è molto bella, ricca di lieviti e noce e frutta secca in genere, con una spruzzata di agrume sullo sfondo, ma è in bocca che questo champagne eccelle: La bolla è giustamente viva, senza eccessi puntuti, il sorso è estremamente appagante, ampio ma non molle, anzi semmai freschissimo ma per nulla astringente, e senza il minimo accenno amaro.
Il quid in più è quel tanto di grassezza che rende la bevuta meno ascetica e più goduriosa; nel finale resta la scia di panificazione e soprattutto la sensazione aggrumata, molto piacevole.

Una bollicina ottima, senza punti deboli, versatile nell’abbinamento adeguato a tutto pasto, e l’ennesima dimostrazione della straordinaria attitudine al metodo classico dei cugini francesi.

Il bello: ricco, godurioso ma per nulla pesante
Il meno bello: nulla da segnalare

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Blanc de Blancs Brut Grand Cru, R&L Legras

Ancora bolle, sempre fortissimamente bolle stavolta da Chouilly, uno dei più famosi comuni settentrionali della Côte de Blancs, Grand Cru al 100% (per quanto riguarda lo chardonnay).
La maison è R&L Legras, fondata oltre 6 generazioni fa e ancora gestita dalla famiglia Legras
legras
Quello che assaggio oggi è uno champagne da solo chardonnay, che matura per ben 4 anni sui lieviti e dichiara un dosaggio di 6 g/l.

Denominazione: Champagne
Vino: Blanc de Blancs Brut Grand Cru
Azienda: R&L Legras
Anno: –
Prezzo: 41 euro

Il perlage è una mousse finissima e i richiami odorosi sono di erba agrume, gesso e glicine.
L’assaggio è molto equilibrato, con una freschezza apprezzabile ma non tagliente e una rotondità di bocca che lo classifica come leggermente morbido (si sente il dosaggio ma non troppo).

Al palato tornano i richiami aggrumati, l’alcol è molto ben mascherato e non si avverte nessun amaro in un finale di discreta lunghezza.
L’idea è quella di un vino da bere fresco e giovane, anche per via del corpo piuttosto leggero e di una complessità poco sviluppata.
Piacevole, forse un po caro per quel che offre, è un gradevole aperitivo

Il bello: piacevole, fine
Il meno bello: prezzo eccessivo

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Friulano 2014, Ferlat

Considero il Friulano (l’ex Tocai, per capirci) uno dei vini più gastronomici in circolazione: semplice ma non banale, nelle sue migliori incarnazioni è un compagno discreto e sicuro di tanti piatti leggeri o di media struttura.

L’assaggio di oggi è della azienda Ferlat (5 ettari nella DOC Friuli Isonzo, conduzione in fase di conversione al biologico): 100% Friulano, raccolta manuale, breve permanenza di uno o due giorni sulle bucce e fermentazione a temperatura controllata. Viene svolta la malolattica.

Denominazione: DOC Friuli Isonzo
Vino: Friulano
Azienda: Ferlat
Anno: 2014
Prezzo: 12 euro

Il vino è paglierino carico, con una netta tendenza al dorato, e alla intensità si adegua anche il buquet, che rivela molti fiori e frutta bianca matura con un tocco di camomilla.
Il sorso parte morbido e si inspessisce in chiusura, accompagnato a ricordi di mandorla; di sicuro non sono le durezze a dominare.

Nel complesso un bicchiere garbato, dal corpo discreto e di grande bevibilità (i 13 gradi non si avvertono), che però difetta un po’ di personalità: tutto è a posto, corretto ma manca uno spunto che accenda la lampadina alla bevuta. Oltretutto anche il famigerato terroir viene lievemente mortificato: manca la grande sapidità e olfattivamente c’è forse un filo di aromaticità di troppo.

Il bello: vino molto bevibile
Il meno bello: manca personalità

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Ristorante Capo Santa Chiara, Genova

Lo ammetto, una buona dose di prevenzione mi faceva temere che il ristorante Capo Santa Chiara fosse il classico fumo con poco arrosto.
Lo temevo per vari motivi: anzitutto per il notevole battage promozionale al momento dell’apertura, poi perché il locale è collocato in posizione perfettamente strategica per ricadere nella definizione “ristorante fighetto” (classificazione coerente con varie gestioni non brillanti, che immagino abbiano puntato molto sull’immagine e poco sui contenuti) e non da ultimo perché lo chef Collami è reduce da un lungo e prestigioso passato al comando di Baldin, uno dei nomi storici della ristorazione genovese che però gli ultimi passaparola davano in fase calante, forse anche a causa della perdita della stella Michelin.

E invece, una volta tanto, è bello vedere smentiti i propri pregiudizi.
Anzitutto arrivi a Boccadasse, in pratica un pezzetto di Camogli in pieno centro di Genova: un borgo marinaro ricco di suggestione, silenzio e paesaggio a due passi dalle vie principali della città, capace di predisporti al meglio per la cena. E poi entri nel locale, nuovo, curato, elegante ma non affettato, con una meravigliosa cucina a vista che colpisce appena si mette piede all’interno. Del panorama è inutile parlare, così come della bella terrazza, che immagino prenotatissima nelle giornate con meteorologia favorevole.

Mi piace invece spendere qualche parola per il personale di sala, giovane e competente, mai freddo ma neppure sbracato (bravi!) e per le comodità delle sedute, che spesso in tanti ristoranti vengono sacrificate in nome del design. Da elogiare anche il giusto spazio tra i tavoli e un arredamento che garantisce una discreta insonorizzazione. Segnalo anche che le portate sono arrivate con buon ritmo fin quasi alla fine, quando il locale si è riempito e il servizio ha avuto un minimo di difficoltà.

Piacevoli le varietà di pane e focacce e interessante la carta dei vini, di certo non ciclopica ma fornita di una discreta varietà di etichette non banali a prezzi tutto sommato adeguati alla classe del locale; io ho scelto l’SP68 Bianco di Occhipinti (vino che colpisce per il bouquet esuberante, ma forse un po’ eccessivo a tutto pasto).
Come spesso preferisco, mi sono affidato ad un menu degustazione, nello specifico cinque portate a scelta dello chef per 38 euro. Degni di nota un cous cous croccante di seppia, semplice ma molto gradevole e una pasta al nero di seppia ripiena, gustosa a puntino senza eccedere in sapidità. Unica portata sottotono, un baccalà su purea di patate con tartufo nero: nulla di grave, ma il tuberaceo un po’ insapore rendeva il piatto piuttosto banale.
A termine cena ci si alza senza appesantimenti e di certo senza fame: segno che le quantità sono ben calibrate.
Non è indispensabile, e capisco che un menu di pesce a 38 euro in una location del genere sia già un gioco di incastri complicato, ma un piccolo fuoriprogramma all’inizio o al termine avrebbe gratificato ancor di più il cliente…

La conclusione è che forse Genova ha un nuovo locale di riferimento per quanto riguarda la “gamma alta” della ristorazione, elegante nei cibi come nella location, ma con prezzi accessibili. Resta la curiosità di provare i piatti alla carta per capire se c’è la possibilità di puntare alla stella.

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Mersault Les Durots 2011, Morey

Una delle zone mitologiche per l’appassionato di vino è la Borgogna, epica sia per la narrazione del famigerato terroir, sia per la fama di bottiglie inarrivabili per rarità e per valori di listino astronomici; per fortuna si trova anche qualcosa di relativamente più abbordabile, anche se è certamente difficile orientarsi in un panorama ricco di produttori e denominazioni.

Questo è uno di quei casi: ho scelto un prodotto della famiglia Morey, che lavora le vigne in questi lembi di Francia da oltre 200 anni e attualmente possiede circa 10 ettari distribuiti in vari comuni (Monthelie, Pommard, Puligny-Montrachet e Meursault), da cui ricava una vasta gamma di etichette. La coltivazione è stata convertita negli anni 90 prima in biologico e poi in biodinamico.

moreyIl vino in questione è un pinot nero in purezza che svolge la malolattica, viene affinato in pieces di rovere e non subisce filtrazione o chiarifiche; la denominazione è quella comunale di Mersault, uno dei cosiddetti “Village”, cioè il secondo gradino nella scala delle Appellation borgognone, che, lo ricordiamo, prevede una piramide con al vertice la appellation grand cru, per scendere via via verso il premier cru, poi la appellation communale e infine quella régionale.


Denominazione
: AOC Mersault
Vino: Les Durots
Azienda: Domaine Pierre Morey
Anno: 2011
Prezzo: 45 euro

Il lieu-dit “Les Durots” (esteso per meno di mezzo ettaro) significa “terra difficile, dura” e regala vini che il produttore identifica come colorati, tannici, potenti e di lungo invecchiamento. Vediamo se è vero.

Il vino è effettivamente di colore molto intenso, un bel rubino denso e serrato, e il buquet è paradigmatico, la quintessenza francese del pinot nero, con i piccoli frutti rossi di bosco maturi e tanta speziatura dolce, accompagnata da qualche inizio di terziario. Indubbiamente intenso, vellutato e ingannevole, perché l’assaggio, dal calore alcolico piuttosto ben mascherato, è invece molto deciso, con un tannino levigato ma serrato, una acidità rilevante e un corpo ben presente.

Il vino sicuramente non è stato stappato al suo meglio, ritengo che qualche anno in più non possa che giovare, ricomponendo e armonizzando le asperità: ad ogni modo si beve con una certa piacevolezza già da subito, magari in accompagnamento ad un petto d’anatra o a selvaggina.

Il bello: ci si perde col naso nel bicchiere
Il meno bello: vino ancora in divenire. Prezzo importante

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Genova Beer Festival: la prima edizione

Lo stupore che coglie anche chi, come me, vive tutto sommato nelle vicinanze è indicativo: prima di raggiungere villa Bombrini si taglia il centro di Genova con la Sopraelevata, e col buio è un po’ come trovarsi sul set di Blade Runner, visto che si vola a metà strada tra le luci del porto e quelle della città, per scendere poi a Sampierdarena e allungare verso Cornigliano, in un territorio che si è trasformato da immagine da cartolina in esempio di massimo degrado, con i palazzoni maltenuti, il muraglione del porto e il filo spinato, la sporcizia incipiente, auto e motorini abbandonati, la famiglia di rom che occupa abusivamente quello che un tempo forse era una autofficina e tutte le altre declinazioni del caso che possano venirvi in mente.
Ecco, a un passo da tutto questo scempio, imboccando una viuzzola, ti ritrovi in un ampio parcheggio che affianca un bellissimo villone settecentesco con relativo parco annesso: è villa Bombrini, la sede del primo Genova Beer Festival, e il primo pensiero non corre alle alte o basse fermentazioni, ma semmai a quanti eccellenti scorci come questo ci possano essere, dimenticati, in altre parti della città.

Che dire del Festival? Non me lo sono goduto, a causa di problemi in famiglia ho potuto presenziare solo un paio d’ore domenica sera prima della chiusura, ma la mia idea me la sono fatta.
Ok l’ingresso a sei euro, molto bene il bicchiere in vetro (anche se non proprio ideale la forma, ma son dettagli. A me non è stata consegnata la tasca portabicchiere, forse erano finite o magari è stato un disguido) ma per favore fate in modo che si possa riconsegnare il vetro all’uscita e avere indietro una cauzione, anche simbolica.

Molto bene il pieghevole all’ingresso, con il programma completo della manifestazione, un glossario minimo e l’elenco delle birre. Forse avrei diviso le birre non per stile ma per birrificio, ma ce ne fossero di depliant fatti così.

Benissimo gli spazi in relazione al numero degli espositori: i banchi sono ben distanziati e c’è molta “aria” che permette di non fare a spintoni con gli altri visitatori, e anche il giardino immagino sia stato una bella valvola di sfogo durante il giorno. Ho qualche riserva sulla disposizione dei banchi di assaggio su più piani: a quanto ho visto non ci sono sistemi di accessibilità per i disabili.

Gettone di degustazione a 1 euro per 10 cc di birra (in realtà ne veniva servita quasi sempre di più), e qui forse si poteva fare di meglio, prevedendo un carnet per chi vuole fare molti assaggi; in questi casi i 10cc (abbondanti) sono sempre troppi e il costo diventa importante: la mia formula ideale è il carnet da 10 assaggi da 5cc a 5 euro o qualcosa di simile.

L’appunto più negativo è quello relativo al cibo, in un momento di scarsa affluenza e praticamente senza code, occorreva attendere oltre 30 minuti per una semplice bruschetta: le due “postazioni food” cui mi sono approcciato (Ai Troeggi e Kowalski) mi sono sembrate palesemente inadeguate sia come gestione dei tempi che come qualità. Da rivedere anche il numero dei tavoli e delle panche a disposizione, troppo scarsi, perlomeno quelli all’interno della villa.

Sulle vere protagoniste, le birre, non ho troppo da dire, avendo fatto solo una quindicina di assaggi molto frettolosi, quindi mi limito a poche segnalazioni.
Pollice in alto per Canediguerra, birrificio giovane ma con tutta l’esperienza di Allo alle spalle e si sente da tutta l’ottima gamma, corretta, senza esagerazioni e strampalatezze.
Passaggio di rito da Maltus Faber che sfodera una per me irresistibile Blonde Hop (poco alcolica, leggera, di carattere ma mai invadente).
Chiaroscuri per uno dei nomi storici del panorama “artigianale” italiano, il Birrificio Italiano: la Tipopils, uno dei paradigmi del genere, non mi è sembrata al top, mentre era centrata la Nigredo, uno dei pochi esempi di Schwarzbier tricolore. Molto interessante anche la Sparrow Pit, un Barley Wine di bevibilità assassina.
Vellutata e piacevole la Nocturna di Kamun.

Nota stonata, non certo per colpa degli organizzatori: domenica sera chi serviva al banco di almeno un paio di espositori era evidentemente non in condizioni lucidissime… capisco che erano le ultime ore, che un festival di birre non è un ristorante stellato e che l’atmosfera è informale, ma non mi sembra un gran biglietto da visita per il produttore.

Le conclusioni? Un successo sicuramente, senza contare che si trattava di una prima volta.
Un grande “bravo”, quindi, ai ragazzi di Papille Clandestine per l’ottimo lavoro svolto, con la speranza di ritrovare il prossimo anno un GBF ancora più ricco di birrifici, di cibi e di eventi.

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