Entropia sovrana: breve addendum

Evviva: non siamo soli!
Talvolta pare di essere dei marziani buzzurri e si rischia di far la figura dei fessi, quando si critica l’oggettività delle degustazioni seriali imbocca-e-sputa, così come quando si vuole mettere un freno alla ridda dei descrittori psichedelici sparati a mitraglia durante le esibizioni pubbliche di qualche super-sommelier…
Poi, invece, capita che leggi le parole di qualcuno che della materia ha fatto una professione e che cita, condividendolo, il pensiero di un grande tecnico del vino che riconosce i limiti dell’approccio in batteria:

“Imboccare una piccola frazione di vino, emettendo il solito repertorio di gorgoglii, risucchi, suoni di scarico, sciacquettando il liquido tra una guancia e l’altra, infine espellendolo fino all’ultima goccia, “è un’operazione artificiale”, secondo le parole di Dubourdieu, “e non offre la possibilità di capirne fino in fondo la reale qualità”.

Poi, è chiaro: se vuoi editare una Guida non hai altra scelta, e persone di grande esperienza di sicuro traggono comunque valide indicazioni da un simile approccio, ma da qui a teorizzarne uno strumento di misura oggettivo, beh, ne corre.

Un grazie alla sincerità di Fabio Rizzari.

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Tappo a vite VS sughero: altre impressioni

Curioso: scrivo alcune note di degustazione su alcuni vini appena assaggiati in comparazione vite / sughero, e dopo pochi istanti vedo un post del sommo Masnaghetti / Enogea che parla di una situazione analoga, e mi pare con risultati comparabili.

Rilancio qui quanto scritto a suo tempo

Sarebbe bello avere più spesso queste occasioni di assaggio, in modo da poter confutare o confermare certezze antiche, spesso fondate solo sulla tradizione.

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Unterortl: uno sguardo alla gamma

La settimana scorsa, grazie ad un incontro nella solita Cantina du Pusu, ho avuto la possibilità di esplorare più o meno l’intera gamma di vini della Unterortl, azienda altoatesina di proprietà dell’alpinista Messner ma in gestione a Gisela e Martin Aurich.

L’azienda dispone di poco più di cinque ettari attorno al colle Juval, compresi tra 600 e 800 metri di altitudine, costantemente asciugati dal vento caldo (föhn). I vitigni coltivati sono quelli tipici del nord: Müller Thurgau, Pinot Bianco, Riesling, Pinot Nero, con bassissime rese per ettaro, vinificati in acciaio o legno a seconda della tipologia, e comunque utilizzando lieviti autoctoni.

In degustazione:

  • Müller Thurgau 2012
  • Müller Thurgau 2011
  • Pinot Bianco 2012
  • Pinot Bianco 2011
  • Riesling 2011
  • Riesling 2009
  • Riesling Windbichel 2011
  • Riesling Windbichel 2010
  • Riesling Windbichel 2009
  • Riesling Windbichel 2008
  • Pinot Nero 2010
  • Pinot Nero 2009 (tappo a vite)
  • Pinot Nero 2009 (tappo in sughero)
  • Pinot Nero 2006 (tappo a vite)
  • Pinot Nero 2006 (tappo in sughero)
  • Riesling Spielerei 2008

Qualche impressione veloce: decisamente troppo giovani il Müller Thurgau e il Pinot Bianco 2012 (che difatti sono stati appena imbottigliati e non sono ancora in commercio), piacevolmente freschi e profumati i loro corrispettivi 2011: vini magari non particolarmente complessi ma facili e piacevoli da bere, danno l’idea di essere ottimi prodotti da aperitivo.

A mio modo di vedere, troppo giovani anche i Riesling 2011 e 2010, sia il prodotto “base” che il più prestigioso cru Windbichel (un vigneto ripido ed esposto a circa 750 mt di altitudine). Molto più profondo e complesso il Windbichel 2009, che tira fuori un bel carattere pietroso frammisto a pesca e pompelmo.

Curioso il Windbichel 2008, che a quanto ho capito è stato necessario declassare a IGT a causa del residuo zuccherino fuori disciplinare al termine della fermentazione: grazie a quella dolcezza più che significativa (ma ben bilanciata dalle durezze) è sembrato il più “tedesco” e il più personale della batteria.

In generale, da amante dei riesling tedeschi, ho potuto notare una netta differenza tra questi prodotti e i classici provenienti da Mosella e dintorni: alla vista il colore è decisamente più scarico e la consistenza è minore, di contro la gradazione è superiore (quasi tutti mi pare fossero sui 13.5) e, a parte il 2008, gli zuccheri residui sono bassissimi, da trocken e oltre. Anche la acidità mi è sembrata meno marcata, ma di contro c’è maggiore sapidità.
In sostanza, sono prodotti ben differenti.

Molto bene i Pinot Nero: giovane e di buone prospettiva il 2010, e estremamente interessanti i confronti vite / sughero delle due annate 2009 e 2006. La  base comune è di piccoli frutti di bosco e di una bella speziatura, che nel millesimo più vecchio si infittisce.
La diversità vite / sughero, già sensibile nel 2010, è netta nel 2006: più vivace ed esplosiva al naso la bottiglia con chiusura Stelvin, più note terrose e fungine nella tappatura “classica”. Personalmente ho preferito la versione a vite, che oltretutto sembra far presagire un invecchiamento superiore.

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Pils Birra del Bracco

In questi tempi di grande fermento per quanto riguarda il fenomeno della cosiddetta “birra artigianale” italiana (metto le virgolette, visto che la definizione, a mio modo di vedere ha davvero poco senso), la Liguria non si è distinta per vitalità.

A parte una pletora di piccoli nomi che non è chiaro se siano effettivamente in attività (e che quando producono hanno spesso una qualità discutibile), sopravvivono gli storici Busalla, Scarampola e del Golfo, che non sono mai riusciti a (o non hanno mai avuto voglia di) fare il salto verso una produzione quantitativamente superiore e con una distribuzione più capillare. Oltre a questi, troviamo l’abbastanza recente Superba, il “tedesco” Leo e quel Maltus Faber, che per la combinata di visibilità , qualità, costanza e reperibilità, ritengo il portabandiera regionale.

Pils Birra del BraccoDa circa un anno e mezzo, molto in sordina, è spuntato un nuovo birrificio, davvero micro: Birra del Bracco. Il nome deriva evidentemente dalla ubicazione geografica della piccola azienda: il Passo del Bracco è un montagnoso tratto di via Aurelia ricco di tornanti che collega la provincia di Genova e quella di La Spezia, noto per essere da sempre meta di appassionati motociclisti.

Conosco poco o nulla del birrificio, mai avvistato nella varie manifestazioni a tema e per nulla chiacchierato nel giro degli appassionati. Vedo sul sito che è legato ad una azienda agricola condotta part-time, che ha un impianto che sembra davvero poco più di una postazione da homebrewer e che produce tre tipologie di ispirazione tedesca (dagli autoesplicativi e poco fantasiosi nomi Pils, Bock e Weiss); la particolarità che viene dichiarata è la coltivazione autonoma di orzo e di luppolo, anche se non è chiaro in quale quantità e comunque suppongo non tanto da rendere il birrificio autosufficiente.

Date le premesse mi sono sorpreso e incuriosito quando nel pub sotto casa ho trovato disponibilità della loro Pils, che ovviamente non mi sono fatto sfuggire.
Bottiglia ed etichetta rusticamente molto homebrewer, ma non è un problema, così come l’aspetto, giallo decisamente opalescente. Schiuma discreta, sia come quantità che come compattezza e durata.

Le riserve arrivano invece al naso: da una pils, per la quale oltretutto si dichiara il dry hopping, mi aspetto un bell’aroma luppolato, invece non c’è molto da annusare, sia quantitativamente (intensità davvero debole), sia qualitativamente (poco da segnalare, se non appunto un lieve erbaceo).
In bocca il corpo è leggerino e l’amaro è poco pervenuto; in aggiunta, appena accennato, un sentore di miele ben poco deciso e persistente. Poi, nulla di altro.

Certo, la tipologia è difficile: una buona pils non bastona con gli effetti speciali pirotecnici che vanno di moda oggi (amaro estremo, tostature micidiali o acidità taglienti), ma deve saper ricamare un equilibrio lieve ed elegante di mielato ed erbaceo, e questa Pils, pur lodevolmente pulita negli aromi (e non è poco), manca purtroppo di personalità, scivolando via senza infamia e senza lode.
In definitiva la birra sembra spenta, poco vivace (in senso metaforico, non certo per mancanza di carbonica): in questi casi si parla genericamente di “bottiglia sfortunata”…

Non incoraggia neppure la parte economica: non ho idea del costo nel beershop (anche perché non so se sia in vendita al dettaglio), ma al pub la bottiglia da 0,5 è stata pagata 7 euro.

Sarebbe interessante una visita al birrificio per poter testare la produzione “fresca” e capire la filosofia dei titolari, purtroppo l’ubicazione non facilita. Chissà, magari in primavera…

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Di scontrini, ricevute, fatture e anonimato: la critica credibile non ci mette la faccia

Ne ha parlato recentemente Enofaber, e quelli come noi che hanno uno spazietto su internet nel quale si divertono a scrivere qualche impressione su vino e cucina conoscono il fenomeno: appena hai qualche articolo e qualche lettore (ma ne bastano davvero pochi), ti arriva una mail a proporre il famigerato “sponsored post”, ossia qualcuno che chiede di parlare (bene) del suo prodotto in cambio di spiccioli.

La risposta ovvia è “no, grazie”, perché lo scopo originale del sito è diverso; fuori di ipocrisia, è chiaro che se il conquibus proposto fosse esponenzialmente superiore si potrebbe pensare di trasformare il blog in un prodotto editoriale: non ci sarebbe nulla di male ma si tratterebbe di una cosa diversa.
Così come non ci sarebbe nulla di male se qualcuno di noi piccoli peones della tastiera decidesse di pubblicarli, questi benedetti post sponsorizzati: l’importante sarebbe mantenere ben chiara la distinzione tra contenuti a pagamento e riflessioni personali.
Del resto su questo spazio (e su molti altri) già vige la consuetudine di esplicitare quanto paghiamo ogni bottiglia e di dichiarare i regali.

Non è solo una questione puramente formale (che comunque ritengo doverosa nei confronti del lettore): è che, in barba ad ogni pretesa di oggettività, sono profondamente convinto che la mia “piacevolezza percepita” sia inevitabilmente modificata dalla eventualità di un omaggio.

Il ragionamento, di per sé risibile per la sua prospettiva minuscola, ci consente di estendere lo sguardo alla critica enogastronomica nel complesso e di riflettere sulla sua credibilità.
Estremizzando, ritengo che in una ipotetica equazione capace di determinare matematicamente la qualità e la piacevolezza di un vino (o di una cena), nell’elenco delle variabili dovrebbe entrare (oltre al prezzo pagato) anche il reddito del degustatore.
Mi spiego: escludiamo pure malafede e recensioni comperate, ma è così irreale pensare che se io vado a mangiare da Bottura (investendo un terzo del mio stipendio mensile e quindi potendomelo permettere forse una volta l’anno), avrò aspettative e idee di perfezione ben diverse da chi si siede a certi tavoli una volta la settimana, addirittura a fine serata non apre il portafogli e comunque gode di attenzioni riservate ai volti ben noti dei recensori famosi e conosciuti nell’ambiente (la portata fuori carta, il servizio certamente puntuale eccetera)?

Capisco che chiedere la dichiarazione dei redditi sia troppo, ma perlomeno, cari professionisti e semi-pro, siate trasparenti e ditemi chi paga; scrivetelo chiaro (e magari pubblicate la foto dello scontrino o della fattura) se la bottiglia in questione è arrivata in omaggio, la ha pagata la casa editrice o avete tirato fuori i quattrini di tasca vostra.
Semplicemente, ditemelo quando sniffate il vino da 250 euro, e poi io farò la tara che ritengo opportuna alle vostre mirabolanti degustazioni da punteggio 95 e superiore (immancabilmente definite “commoventi” o “da lacrima”).

Mi interesserebbe sapere se una azienda che vuole promozionare una certa bottiglia, ha invitato il recensore sul posto e ha pagato viaggio, albergo e cena… mica per altro: temo che l’indulgenza al giudizio favorevole sia decisamente inferiore nel caso di prodotto comperato dall’enotecaro scorbutico a 80 euri (risparmiati bastonando con decisione la moglie che voleva investire il tesoretto in un nuovo taglio di capelli) e portato a casa facendo a cacciavitate nel traffico.

E’ curioso che tra molti di noi bloggers dilettanti ci si diano regole ben più severe di quelle seguite dai “professionisti” (che, ricordiamolo, sono coloro che mangiano e bevono per mestiere, e da questa attività traggono profitto): noi paghiamo le bottiglie, paghiamo la benzina o il treno per andare alle manifestazioni, paghiamo l’eventuale pernottamento, paghiamo le cene, dichiariamo quando ci regalano un vino da 15 euro al pubblico e ci indigniamo pubblicamente quando ci propongono lo sponsored post. E i professionisti?

E’ ingenuo domandarsi come mai a fronte di un solo Valerio Visintin, l’unico critico gastronomico “invisibile” di cui nessuno conosce le fattezze, ci sia uno stuolo di recensori che danno del tu ai cuochi? Ed è così folle chiedersi come mai i suoi colleghi “con la faccia” non amino granché l’anonimato?

Un paradosso: professionisti della critica enogastronomica, non metteteci la faccia ma il portafogli.

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Sestri Les Vins: ben fatto!

Sestri-Les-VinsPoco da dire su una manifestazione vinicola quasi sotto casa, ben organizzata, comoda da raggiungere sia in auto che in treno e con tanti bei nomi presenti: più varia di Vinidamare (imbattibile per annusare il dettaglio della situazione ligure, ma sofferente di cronici problemi organizzativi), più raccolta del pregevole Terroir Vino, meno settoriale dei vari Critical Wine.

Peccato per la pioggia battente e il clima gelido, perché l’ubicazione era perfetta per permettere di alternare assaggi e minuti di riposo in riva al mare, nella Baia del Silenzio: uscire all’aperto era davvero impraticabile e di questo ha risentito lo spazio interno alla manifestazione, che in alcuni momenti risultava intasato.

Apprezzabili: l’ingresso contenuto a 10 euro (5 per i soci AIS), la grande quantità di pane disponibile ai banchi di assaggio, le sputacchiere svuotate con buona solerzia.
Meno apprezzabili (ma sono dettagli): il pieghevole con l’elenco dei produttori non riportava l’elenco dei vini e la mappa dei banchi di esposizione, e mancava un guardaroba all’ingresso (in una giornata in cui tutti avevano ombrelli, sciarpe, cappelli sarebbe stato davvero comodo).

Da segnalare la presenza costante e amichevole di membri della famiglia Maule: li ho visti parlare cortesemente e sorridere con tutti non solo al loro stand ma in tutti gli angoli della manifestazione.

A parte la lista dei produttori (tutti del giro Vinnatur e di buon livello), una delle cose belle di un evento del genere organizzato vicino a casa è che gironzoli per le sale e incontri una valanga di persone che conosci: chi di vista, chi più approfonditamente, e il risultato è una atmosfera decisamente allegra e familiare.

Al solito, evito l’elenco puntuale degli assaggi, ché ne risulterebbe una lista lunga e noiosa. Solo un accenno per un paio di produttori che non conoscevo e che ho trovato sicuramente interessanti.

Spendo qualche parola in più la Azienda Agricola Casale: il vulcanico patron ci ha fatto assaggiare tutto e di più, da una serie di Trebbiano declinati in varie annate e varie macerazioni (tutte piacevolmente ben fatte e non eccessive), ai suoi Sangiovese estremamente rigorosi ed eleganti anche quando il frutto esuberava in marmellata al naso (in particolare l’annata 2000), per finire con un monumentale Vin Santo (ricco di ricordi, dai fichi alla salamoia) che ha attaccato i suoi aromi al bicchiere in maniera così previcace da richiedere svariati lavaggi. Grande azienda.

Altri assaggi sparsi: la piacevolissima e profumatissima malvasia lievemente macerata del Quarticello, la fresca e sapida ribolla di Kristancic, la Garganega Vecchie Vigne di Davide Spillare, un piccolo e giovane produttore ubicato a due passi dalla azienda di Maule e del tutto confrontabile come prodotto.

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Entropia sovrana, o di degustazioni oggettive e bottiglie identiche ma diverse.

Alert: questo non è il vero articolo. E’ una anteprima, uno spot, un trailer, una sinossi, o, come dicono quelli  fighi, un teaser, infatti su questa storia delle degustazioni oggettive, delle sfide all’ultimo descrittore psichedelico, dei punteggi centesimali spaccati con il cesello e delle guide con relativi premi, frizzi, lazzi e cotillon ho in previsione di scrivere da tempo, ma ogni volta che mi approccio alla materia mi ritraggo sconfortato.

Peraltro mi preme lasciar traccia di quanto accaduto la settimana scorsa e che, incidentalmente, rafforza le mie convinzioni.
Primo episodio: consueta bella degustazione presso la Cantina du Pusu di Rapallo; stavolta il tema sono i famigerati Supertuscans, una sparata di otto referenze che hanno visto la luce nel periodo dal 95 al 99.

Tra gli assaggi, due Merlot: Sant’Adele ’99 Villa Pillo e Merlot ’97 La Braccesca.
Più o meno tutti concordi: La Braccesca è più fresco, più vivo, più ricco. Verso fine serata si stappa una seconda bottiglia del Sant’Adele, e, più o meno tutti concordi, è un altro vino, più ricco, espressivo, pieno ed elegante, infinitamente migliore del precedente omonimo e del suo “concorrente”.
Ovviamente stessa annata, stessa conservazione, stessa partita e, credo, persino stesso cartone originale.

Secondo episodio: casa mia, apro una bottiglia (ne parleremo in un prossimo articolo) davvero poco convincente, sia al naso che al palato. Ne lascio tre quarti, aperta, e aspetto un giorno, e poi un secondo. Senza arrivare all’eccellenza, il prodotto da quasi sgradevole si è trasformato in discreto.

Alla luce di questo banale esempio, la domanda è scontata: di cosa parliamo quando facciamo le nostre affilate recensioni basate su 10cc di un vino elemosinato al banchetto di una manifestazione nel corso della quale il produttore avrà stappato dieci diverse bottiglie dello stesso prodotto?
Di cosa parlano i vari recensori delle blasonate guide, che si scofanano fino ad oltre cento (100!) vini in una stessa giornata, investendo in ciascuno un sorso, un gargarismo, uno sputo e 20 secondi?

Dai, siamo seri: sono indicazioni di massima, stop!
Poi, possiamo parlarne, ci divertiamo e nessuno lo nega, ma credo sarebbe bene ricordare che stiamo facendo al più una mappa in scala uno a diecimila della realtà di un vino, altro che “questo 84 punti, quello 85”, altro che dotte dissertazioni sul sentore di tabacco del Kentuky piuttosto che della Virginia…

A latere: parlavamo di Supertuscan, bene, io non c’ero ma mi pare di capire (e mi sono documentato, ho le prove scritte del reato e le conservo con cura, in vista di un auspicabile Norimberga enoica), che vitigno internazionale, barrique, enologo di grido e similari, sono stati per anni il grido di battaglia di tanti fenomeni degustatori e dei loro relativi premi, e ovviamente hanno formato una stirpe di consumatori schiavi del trend del momento, incapaci di decidere con la loro testa e che si sono a lungo beati di “sentori vanigliati”, “grande frutto maturo” e altra paccottiglia varia.
Ora il vento degli “esperti” è cambiato e ne consegue che se avessi in tasca un euro per ogni invasato che, roteando un bicchiere, straparla solo di “mineralità” e “acidità” e declama icastico “Si sente il legno piccolo!”, potrei quasi bere Romanée-Conti una volta la settimana. Sono passati dieci anni, non diecimila.

Mondo curioso, quello del vino: “frutto” e “minerale” saranno mica come i “vita alta” e “vita bassa” del fashion? Nel caso, mettete via una cassa di syrah siciliano bello concentrato e rotomacerato: sia mai che il prossimo autunno-inverno tornino in voga i borselli per uomo e l’osmosi inversa?

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Le loro maestà: impressioni varie

Buon ultimo tra i vari blog, propongo il mio commento su “Le loro maestà“, importante manifestazione giunta alla seconda edizione (per parlare come i tizi che redigono i comunicati stampa).

Le loro maestàIl succo della faccenda: presentare una panoramica di produttori langhetti e borgognoni, cercando di fornire una prospettiva quanto più completa possibile sulla “nobiltà” dei vitigni Pinot nero e Nebbiolo: in pratica 50 cantine, equamente divise tra Italia e Francia, hanno presentato per l’assaggio uno o due vini ciascuno, simbolo della loro produzione.

Manifestazione magniloquente (non vorrei definirla “sborona”, ma insomma…) sia dal nome “maestoso”, che per ubicazione (l’Agenzia di Pollenzo, dove risiedono anche l’università di Slow Food e la Banca del Vino), la teutonica macchina organizzativa (hostess precisissime e cortesi, guardardaroba all’ingresso, abbondanza di bottiglie d’acqua gassata e naturale e ottimi grissini nella sala di degustazione) e, ovviamente, per il prezzo allineato o forse persino superiore alle aspettative (80 euro!).

Le loro MaestàSolite sensazioni per il tipo di manifestazione che ormai, come da consuetudine, io definisco “drink-porn”: come altro puoi chiamarla, quando paghi per abbuffarti per una giornata intera di una messe infinita di vini, che ovviamente assaggerai e sputerai invece di approfondirli, gustarli, abbinarli ad una pietanza? E’ pornografia enoica: ti perdi in mille abbracci che ricambi solo per un istante, goloso di tuffarti tra altre braccia sempre nuove solo perché puoi e non perché hai qualcosa di ricambiare.
Ma tant’è, consapevole dei limiti della formula, ogni tanto mi piace indulgere in queste perversioni…

La cronaca: sveglia al mattino presto per essere a Pollenzo fin dall’apertura, in modo da dedicare la mattina alla Francia, fare una pausa per il pranzo, poi rientrare per gli italiani e riuscire ad avere un adeguato tempo di decompressione prima del ritorno a casa in auto.
Programma rispettato a dispetto delle temperature polari (-7.5 sulla Torino-Savona alle 9.30 del mattino!).

Mentirei se dicessi che conoscevo più del 10% dei francesi e più del 40% degli italiani, se non per averne letto le ragioni sociali in siti, libri, opuscoli eccetera, e altrettanto sarei presuntuoso se affermassi di essere essere stato capace di capire la filosofia e la qualità di 50 aziende nello spazio di poche ore.
Le loro Maestà 2Per questo, come sempre in queste occasioni, mi limito a qualche cenno su quello che ho trovato più gradevole o interessante in quell’istante, senza volerne fare classifiche di merito e neppure tagliare dei giudizi centesimali che sono quanto mai distanti dal mio modo di frequentare il vino.

Ecco quindi qualche impressione veloce e minimale.
Per quanto riguarda i francesi segnalerei il Clos de la Roche Grand Cru 2002 di Remy: note terziare, tannino presente ma delicatissimo, lungo e cangiante in bocca; il Nuit-Saint-Georges 1er Cru Les Damodes 2007 di Olivier: molto personale, con accenno di medicinale e bella freschezza; il Pommard 1er Cru Grand Clos des Epenots 2009 di De Courcel: si distingue per corpo, potenza e tannino mantenendo equilibrio ed eleganza; il Volnay 1er Cru Santenonts du Milieu 2005 di Comtes Lafon: forse il naso più bello, intenso, ricco della manifestazione.
Segnalazione a parte per i vini di Guillon, che si scostavano dagli altri per concentrazione superiore, sia nel colore che in bocca, il produttore sostiene a causa delle lunghe vinificazioni.

Per gli italiani: bello intenso, vivo, vibrante il Barolo Fossati 2006 di Enzo Boglietti; tannino alle stelle per il Barolo Bricco Boschis Vigna San Giuseppe 2006 di Cavallotto; piacevolissimo e corredato da una bella spezia il Barbaresco Rabajà 2009 di Giuseppe Cortese; fine, delicato e complesso, con accenni interessanti di evoluzione il Barbaresco Camp Gros Martinenga 2004 Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Gresy; molto personale ed elegante il Lessona Omaggio a Quintino Sella 2006 di Tenute Sella.
Un punto interrogativo grosso per il Barolo Bricco Gattera 2005 di Cordero di Montezemolo: al naso si avvertiva netta la banana!

In generale, è stato molto più semplice gestire l’assaggio dei vini francesi, che grazie alla minor potenza e soprattutto al minor tannino, hanno consentito al mio palato di restare reattivo e concentrato più a lungo.

Alcune osservazioni.
Molti i grandi nomi presenti, ma altrettanti ne mancavano, e degli intervenuti ben pochi hanno portato millesimi più affinati degli ultimi disponibili: dato il prezzo di ingresso credo che si potesse fare uno sforzo per avere maggiore profondità di annate; la cosa ha penalizzato in particolare i vini piemontesi, che in molti casi ho trovato ancora estremamente duri.
Ancora, la manifestazione era a numero chiuso: ne sono certo perché al sabato i biglietti risultavano esauriti in prevendita; nonostante questo, in alcuni momenti della giornata la calca era non insostenibile ma certamente fastidiosa; sarebbe stata augurabile una sala più spaziosa.

Infine, vorrei spendere una parola di elogio per la trattoria Savoia: al momento del pranzo abbiamo deciso di fare qualche metro e siamo entrati questo bar / tabaccheria di Pollenzo, che nel retro propone un piccolo ristorante. Cucina semplice e tradizionale, con materie prime di buon livello, porzioni devastanti per quantità e prezzi da incredulità generale. A completare lo stupore, servizio tranquillo e gentilissimo. Davvero complimenti: il locale che vorrei avere sotto casa.

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Cheap Thrills n.1: Pinot Gris Réserve 2007, Trimbach

Cosa c’è di più surreale di iniziare una rubrica nata e pensata per ospitare pareri su vini dal prezzo “rigorosamente sotto ai 15 euro” con un prodotto che in enoteca viene via a 17 euro? Forse pensare che la bottiglia la ha scelta Francesca, che, solitamente precisa e rigorosa, in questo caso ha rivelato un sorprendente animo dadaista: al prossimo giro mi aspetto una boccia di Krug o una di gazzosa, così, tanto per fare casino…

Pinot-Gris-Reserve-Trimbach

Un accenno veloce alla azienda e al prodotto:Trimbach è un nome storico della viticultura alsaziana: da oltre quattrocento anni ben ventitré generazioni si succedono nella vinificazione di tutto lo spettro dei classici di questa regione.
La produzione è segmentata in Classic (i prodotti base), Reserve (da parcelle selezionate di vecchie vigne), “Reserve Personnelle” (dai terreni più vocati, prodotti solo in certe annate) e una piccola gamma di Vendanges Tardives e Sélection de Grains Nobles.

Il vino di cui parliamo oggi è il Pinot Gris Reserve 2007.

Ovviamente pinot grigio al 100%, viene vinificato in acciaio e non svolge la malolattica; buone premesse: il produttore lo dichiara adatto ad un invecchiamento di 5-10 anni e sostiene che il 2007 sia una ottima annata.
Andiamo a incominciare.

Denominazione: Alsace AOC
Vino: Pinot Gris Réserve
Azienda: Trimbach
Anno: – 2007
Prezzo: 17 euro

Marco

Francesca

Il primo impatto non è felicissimo: in realtà lo avevo  massacrato stappandolo in abbinamento criminale ad un piatto in cui era presente abbondanza di carciofi.. Rimesso il tappo e riprovato il giorno seguente in condizioni più civili, è stata tutta una altra musica.

Alla vista è paglierino-dorato e visibilmente consistente; appena lo porti al naso risulta netta la sensazione di affumicato e minerale, poi spunta un accenno di pera: direi non troppo intenso e compresso ma sicuramente elegante.

Entra in bocca con corpo molto pieno e caldo (i 13,5 gradi si sentono tutti). Mentre assaggiavo, in diretta ho scritto: “residuo zuccherino non percettibile o perlomeno minimo, cosa non scontata con gli alsaziani”, poi ho guardato la scheda tecnica e sono stato smentito alla grande: si dichiarano 7,1 g/l ma davvero non infastidiscono, probabilmente perché bilanciati da notevoli freschezza e sapidità. In effetti dopo il pasto, finendo la bottiglia senza cibo, a fine sorso resta in bocca un velo di dolcezza che comunque non scade nello stucchevole, e il vino è sicuramente da definirsi secco.

Il finale è abbastanza lungo, con un accenno amarognolo (mandorla, noce) che a mio parere lo penalizza lievemente.
Certamente è un vino da consumare pasteggiando (lo vedo bene con qualcosa di  grasso, ad esempio salmone o formaggi di media stagionatura o una quiche) ed è da servire non troppo freddo per non mortificare gli aromi delicati e non esaltare eccessivamente le durezze.

La conclusione è di un vino di buon livello, svolto ottimamente; Il lieve difetto è quello di una alcolicità davvero notevole, che lo rende adatto esclusivamente in abbinamento, e di una personalità non spiccata: onestamente alla cieca non credo avrei capito che si trattava di un alsaziano.
Sarei curioso di riprovarlo tra qualche anno per valutarne l’evoluzione. di sicuro ha ancora possibilità di percorrere molta strada.

Questo articolo è nato dall’idea di Marco di mettere a confronto due degustazioni dello stesso vino, non è una gara tra palati ma un modo di dare differenti punti di vista sullo stesso prodotto, parliamo appunto del Pinot Gris Trimbach di cui avete già potuto leggere qualche nota tecnica fornita da Marco. Si presenta nel bicchiere con un brillante giallo paglierino. I primi profumi che si percepiscono al naso  sono sicuramente una nota di frutta secca  e una nota di vaniglia poco accennata, predominante è il miele che per una questione di gusti personali non mette questo vino tra i miei preferiti, decido comunque di proseguire senza farmi influenzare dal mio gusto personale e cercando di mantenere l’obbiettività . Al primo assaggio il pinot grigio non delude, anzi si sentono in modo più marcato tutti i profumi, spicca un sentore di frutta essiccata e ritorna anche la mandorla. Sicuramente la spina dorsale di questo vino è una buona acidità, e un altrettanto buona mineralità che nel complesso danno un piacevole equilibrio. A lasciarmi un pò in dubbio è questa nota di miele che non mi convince pienamente, ma che non mette in discussione la qualità complessiva di questo vino.

 

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Cheap Thrills: recensioni di vini al tempo della crisi

cheap thrillsCheap Thrills in breve:
Francesca ed io abbiamo deciso una cosa che crediamo interessante: a cadenza più o meno regolare uno dei due sceglierà in enoteca un vino rigorosamente sotto i 15 euro; tutti e due lo assaggeremo e ne scriveremo da soli, in autonomia.
Obiettivo: scovare piacevolezze (o schifezze) da bere a buon mercato e sfatare il mito della degustazione oggettiva; inoltre crediamo che il casino pseudo-organizzato delle due recensioni alla cieca l’una dell’altra possa aggiungere un pizzico di divertimento.

A breve la prima puntata di Cheap Thrills.

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