Brewdog Punk IPA: luppolo in lattina

[Nota per i lettori più assidui: viviamo in un mondo curioso; a dicembre, istigato dal trovarne da mesi alcuni articoli al supermercato, decido di scrivere un pezzo introduttivo su Brewdog, pensando di completare il racconto nei giorni seguenti con le note di assaggio.
Ovviamente, dopo pochi giorni, la sezione di scaffale dedicata al birrificio scozzese è stata occupata da altri prodotti, costringendomi ad abbandonare il progetto e inficiando tutto il senso della premessa.
Ormai neppure mi ricordavo più della faccenda, ma ecco che al Carrefour vicino a casa ricompaiono le ben riconoscibili etichette degli imbalsamatori di scoiattoli, imponendomi di continuare quanto iniziato a suo tempo.]

Birra: Punk IPA
Azienda: Brewdog
Stile di riferimento: IPA
Prezzo: 2,47 euro

Punk IPATraviati da svariati corsi di degustazione, travolti da quintali di manuali, lobotomizzati da fiumi di trasmissioni gastro-televisive, siamo tutti diventati fini degustatori di vino, esperti esteti nell’impiattamento del cibo, severi fustigatori dei difetti di tutte le produzioni brassicole dell’orbe terracqueo, esegeti spaccatori del capello per l’abbinamento alcol-cibo.
Il tutto, ça va sans dire, con in mano il bicchiere (pardon, calice) da degustazione ISO; siamo quindi ormai tutti dei degusto-fenomeni con la puzza sotto il naso, e ci siamo dimenticati di quando tracannavamo le peggio birre, senza il taccuino sottomano per prendere nota dei descrittori, direttamente dalla latta o dalla bottiglia (e qualche volta ci piacevano pure).

Lo sbarco di Brewdog nell’arena della grande distribuzione si accompagna ad una innovazione non da poco per il mercato della birra “artigianale” o “di qualità”: il contenitore in alluminio.
Storicamente relegata a contenitore di prodotti scadenti, la lattina ha dalla sua una serie notevole di vantaggi: è leggera (quindi minori costi e inquinamento durante il trasporto), è riciclabile con più facilità rispetto al vetro, è più robusta, ha migliore tenuta alla luce, e, da quanto ho capito, ha da tempo annullato tutti i suoi problemi organolettici (grazie a rivestimenti della parete interna).

E’ quindi curiosamente “nuovo” annusare qualcosa di buono (anzi, annusare qualcosa: visto che di solito non si sente nulla) quando strappiamo la linguetta, e c’è una sottile perversione nel bere a canna direttamente dalla latta, gustando un prodotto decente, magari camminando per strada.

Il prodotto che Brewdog ha scelto per questo contenitore, facendone una via di mezzo fra un cavallo di Troia e un articolo portabandiera, è la Punk IPA, forse la birra che maggiormente ha contribuito a fare conoscere i nostri scozzesi nei primi anni di ribalta: colore giallo leggermente ambrato, schiuma di buona compattezza e di discreta durata, aroma abbastanza semplice ma intenso e gradevole, di vegetale e agrume. In bocca  carbonatazione non aggressiva, c’è freschezza con accenni resinosi e balsamici e un richiamo alla liquirizia.

Finisce con un buon amaro, lungo e persistente, ripulente; purtroppo, sarà l’impressione e non certo colpa della lattina, c’è qualche vago sentore metallico o di stantio, unico difetto rilevabile in una birra tutto sommato semplice ma gradevole. Una birra da 5,6%, fatta per il caldo e la sete, da tracannare a metà pomeriggio o anche con una bistecca, ma in generale da bere con semplicità, senza fare troppo i sofisti.

Certo, per garantire una shelf-life adeguata alla grande distribuzione di sicuro si ricorre alla microfiltrazione (e, qualcuno dice, anche alla pastorizzazione), che indubbiamente riduce fragranza e freschezza. Altrettanto sicuramente la ricetta è ben diversa da quella che caratterizzava le prime produzioni arrivate in Italia, che ricordo ben più violentemente amare… ma credo sia già un piccolo evento poter acquistare una birra del genere (come detto, saporita e molto gradevole) in un supermercato di provincia, a questo prezzo.

[Qui il post del 2011 sul blog di Brewdog: si parla delle lattine e c’è qualche immagine della linea di produzione]

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Il calendario di chi beve e di chi mangia

Comunicazione di servizio: magari ve ne siete accorti, magari no, ma in questi giorni ho aggiunto un calendario di eventi a tema eno-birro-gastronomico che ritengo interessanti e che di solito si svolgono più o meno nel Nord Italia.

Ora, non è escluso che possa estendere il calendario a tutta Italia, ma neppure che decida di sbaraccare tutto a breve, visto che inserire gli eventi e tenerli aggiornati richiede tempo.

In ogni caso, come ovvio, non mi assumo responsabilità alcuna nel caso in cui vi facciate 100 Km di auto per arrivare all’indirizzo sbagliato o con la manifestazione cancellata all’ultimo momento: per ogni evento inserisco sempre il link al sito ufficiale e possibilmente anche una mail e/o un telefono, fatene buon uso.

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Haderburg Brut: solide certezze

Denominazione: Alto Adige DOC
Vino: Brut
Azienda: Haderburg
Anno: –
Prezzo: 18 euro

haderburg brutA volte capita che hai voglia di bolle (vabbè, “a volte” è un eufemismo: hai sempre voglia di bolle) ma non vuoi spendere una fortuna e non vuoi fare esperimenti rischiosi.
Ecco, sono queste le situazioni tipiche in cui c’è un nome che non tradisce: Haderburg.

Azienda di Salorno che possiede circa 5,5 ettari di vigneti coltivati a Chardonnay, Pinot Nero e Sauvignon, distribuiti su 350 – 500 metri di altitudine e condotti in biodinamica, Haderburg produce una ampia gamma di vini fermi, bianchi e rossi, assemblaggi e monovitigno, ma è famosa in particolare per i suoi metodo classico: il Brut base, il Rosè, il Pas Dosé e l’Hausmannof (una riserva millesimata di chardonnay, prodotta in numero limitato di bottiglie, solo in annate particolari e con 96 mesi di affinamento sui lieviti).

Si diceva di bolle ad alto rapporto qualità-prezzo, e il Brut base è perfettamente in linea con questa richiesta.
Brevemente, i dati tecnici: prodotto con rese di circa 60 quintali per ettaro, 85% Chardonnay e 15% Pinot Nero, fermentazione e affinamento in acciaio, 30 mesi sui lieviti, malolattica non svolta.

Aspetto giallo paglierino brillante, con bolle sottili e molto numerose; olfattivo lieve, con descrittori canonici di crosta di pane, agrume e fiori bianchi, non complesso ma finemente piacevole.

In bocca entra pieno, secco e intenso, con bella freschezza ma non tagliente; il dosaggio è fortunatamente poco avvertibile: i 5,5 g/l dichiarati sono ben bilanciati.
Sul palato tornano i sapori avvertiti al naso, e in aggiunta c’è un ricordo di miele.
La bolla è vivace senza essere aggressiva, e c’è corpo; il finale non troppo lungo e leggermente amaro è l’unico punto debole della bevuta.
Ho notato che funziona bene anche ad una temperatura di qualche grado superiore a quella consigliata per i vini spumanti.

Un metodo classico di montagna e che ricorda la montagna: verticale, duro senza essere estremo come certi Pas Dosé, riesce quindi piacevolmente bevibile a tutti, appassionati e non; una bottiglia con cui andare sul sicuro, mai trovata in condizioni meno che buone, meno piaciona e più di sostanza rispetto a tanti Franciacorta base che giocano nella stessa categoria.

Degna di nota in retroetichetta la data di sboccatura: dateci una occhiata prima di procedere all’acquisto, e scegliete un prodotto piuttosto “fresco”.

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La Trattoria della Posta a Monforte: elegante tradizione.

Sulla strada che esce da Monforte d’Alba, a poche centinaia di metri da Flavio Roddolo, c’è un ristorante che serve i visitatori della Langa da lungo tempo (il sito dice dal 1875); la Trattoria della Posta è ubicata in una villetta che sorge sul dorso di una collina, regalando quindi un invidiabile panorama ai clienti della sala da pranzo, e la famiglia Massolino ha arredato l’interno con sobria eleganza: tappeti, cassettoni e mobili in legno, un bel camino con accanto tanti libri da sfogliare… più che in un ristorante, sembra di far sosta nel salotto di una zia leggermente attempata ma facoltosa e di buon gusto.

Del resto quello che il visitatore chiede (o perlomeno, quello che io chiedo) ad un ristorante nelle Langhe è proprio questo: una cucina tradizionale, ben fatta, con materie prime di qualità, presentata con discreta eleganza, una proposta di vini adeguata al luogo, e un prezzo abbordabile.

Più o meno tutto quanto sopra è stato rispettato in questo mio primo appuntamento alla Trattoria della Posta, avvenuto un martedì a pranzo (mi aspettavo il deserto, e ho invece trovato una discreta presenza di turisti stranieri); come sempre in questi casi, mi affido al menu degustazione per due motivi: piatti “collaudati” e prezzo contenuto, e, se possibile, accompagno il tutto con un abbinamento al bicchiere. Accordato.

Poco da eccepire sul menu, con alcune punte di eccellenza (la cipolla al forno ripiena di Murazzano e salsiccia di Bra, molto saporita ma senza scivolare nel salato, e i tajarin al sugo di carne, delicatissimi); più deboli mi sono sembrati i dolci (buoni, per carità, ma un po’ “scolastici”), e, forse viziato da una moda imperante, mi sarebbe piaciuta una selezione di pane più varia.

Qualcosa da dire invece sui vini al bicchiere: un Arneis, una Barbera e un Barbaresco. Forse il problema è stato quello di aver frequentato il ristorante il martedì (immagino che il grosso del consumo, e quindi dello “stappo” avvenga dal venerdì fino alla domenica sera, quindi la mia selezione era potenzialmente aperta da qualche giorno), ma il risultato è che ho ricevuto almeno due bicchieri discutibili: al momento del servizio della Barbera ho annusato con un certo stupore il bicchiere, la proprietaria, vedendomi perplesso, si è accorta che qualcosa non andava prima che aprissi bocca e ha provveduto a stappare una nuova bottiglia (tra l’altro, menzione di merito per la meravigliosa Barbera di Rinaldi).
Il Barbaresco non era nelle stesse condizioni disastrose, ma comunque abbastanza “andato”, e avrebbe meritato pure lui la sostituzione: non l’ho chiesta, non mi piace farlo, quindi colpa mia.

Ecco, questo ultimo punto mi è sembrato particolarmente strano e fastidioso: un ristorante di ottimo livello, con un servizio attento e cortese (sono stato seguito dalla titolare e da una   giovane donna evidentemente preparata ed esperta), che si preoccupa persino di avvinare i bicchieri prima del servizio, credo abbia il dovere di annusare quello che porta in tavola e ritirare i prodotti non del tutto a posto senza che sia il cliente a doverlo chiedere.
Immagino siano molti i clienti che dalla cantina ben fornita e dai prezzi corretti, scelgono bottiglie di prestigio di costo non banale, e che nei loro confronti ci sia più attenzione, ma non mi pare comunque giusto.

In conclusione, a parte questa pecca relativa ai vini, mi sono trovato bene e ho speso il giusto in un locale che, oltre ad una buona cucina, ha dalla sua un panorama meraviglioso e una piacevole eleganza, non formale e stucchevole.

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Flavio Roddolo, ritratto di vignaiolo in Langa

E’ ora di distruggere quel briciolo di reputazione che mi resta e diventare definitivamente un eno-paria; confesso i miei peccati facendo coming out e dichiarandolo pubblicamente: a me, spesso, la mitizzata “visita in cantina” provoca una noia degna della visione coatta di un paio di puntate di Porta a Porta.

Ti emoziona vedere l’ennesima linea di imbottigliamento? Ti interessa davvero la lista dei materiali eco-compatibili con cui è stata costruita la cantina all’avanguardia di turno?
No, perché diciamolo: sovente la routine è: occhiata alla vigna (che avevi visto altrettanto bene prima di suonare il campanello), giro in cantina, banco di assaggio, acquisto. Fine, per fortuna.
Il tutto condito da qualche massima che già conoscevi, avendo letto tutto del produttore su varie guide e siti, e da molti sbadigli.

Vado oltre, e confesso anche di non avere il mito della campagna e dei bei vecchi tempi andati, dei quali sembrano nutrirsi molti appassionati di vino, magari mentre vanno in pellegrinaggio in Borgogna con l’aereo o con il SUV.
Mi spiego: nulla in contrario alla tradizione e ai suoi riti, ma non posso dimenticare che lo stato di natura dell’uomo è vivere (temo in modo non particolarmente piacevole) prima nelle grotte e poi sulle palafitte, dove non mi risulta fossero disponibili salotti con cantinetta termo-condizionata e umidificata per conservare bottiglie di Monfortino.
Insomma, la tanto bistrattata modernità direi che qualche progresso ce lo ha fatto fare: mio nonno, uomo mite e nato contadino, quando sentiva recitare il classico luogo comune “come si stava bene una volta in campagna, quando non avevamo niente”, si incazzava e rispondeva che la vecchia cascina era disponibile e potevano andarci quando volevano sul monte, senza corrente elettrica e senza acqua in casa, a soffrire il freddo e a sfamarsi con la polenta tutti i giorni.

Roddolo vigne 2Tutto questo lungo preambolo, che spero perdonerete, per dire che nei giorni scorsi sono stato da Flavio Roddolo, produttore di nicchia assai raccontato e mitizzato in certi ambienti (Scanzi in primis), e che quando mi avvicinavo da Monforte verso la Frazione Sant’Anna, Bricco Appiani, stavo cercando di far chiarezza nelle mie aspettative.
Avrei trovato l’ennesima declinazione del Contadino All’Antica con la tv satellitare? O del Vignaiolo Etico che ti racconta di come ama api e insetti nei filari?

Poco tempo per riflettere, appena metto piede fuori dall’auto sbuca fuori casa un omone barbuto, insospettito dal rumore di automobile; una stretta di mano frettolosa e mi chiede se voglio vedere la cantina (che poi sarebbero due: una, quella vecchia, un piccolo antro con ammassate alcune barrique e un paio di scaffali di bottiglie vecchie, e l’altra più grande e nuova, tanto umida da avere il pavimento praticamente zuppo e pericolosamente viscido).

Roddolo Cantina 3Le parole arrivano con parsimonia e sincerità; sono quelle con cui l’omone risponde alle domande: le barrique le ha sempre usate perché ha poca uva e a volte le botti grandi sono, appunto, troppo grandi ed è un problema, e le vecchie bottiglie le conserva in piedi perché le avevano messe via così, non pensando di conservarle per venti, trenta o quaranta anni, e insomma perché spostarle?
Una breve sosta all’aperto, dove mi mostra fin dove arrivano i suoi vigneti e poi, lamentandosi della temperatura che non gli consente di imbottigliare il dolcetto, entriamo in casa per assaggiare qualcosa.

Roddolo Cantina 1Così sorseggi, scaldandoti dal freddo di una giornata che appartiene più all’inverno che al mese di Aprile, davanti ad un signore dall’aria severa, che ti fa accomodare, ti serve bicchierate pantagrueliche del suo vino (senza raccontartelo: grazie a Dio non spende una parola su mineralità, acidità, terroir e lieviti), dimentica di porgerti il cestino con i grissini, e magicamente (ma tutto sommato non del tutto inaspettatamente) si mette a parlare di mille argomenti, come se infondo gli facesse quasi piacere averti in visita, e infatti ti tiene oltre due ore nelle quali ti getta dei frammenti di verità, raccontando di come, ai tempi di suo padre, al mosto si aggiungesse talvolta zucchero e/o sale, del rifiuto di andare alle varie manifestazioni (“sono stato tre o quattro volte al Vinitaly, me lo avevano chiesto degli amici, ma dopo qualche ora me ne sono andato. Adesso non vado più, ho troppo da fare.”), della passione per la caccia (trascurata), della difficoltà burocratiche e legislativa di poter assumere aiutanti e soprattutto, con un pizzico di commozione, delle tre bottiglie di dolcetto del ’67 che ha ritrovato recentemente (forse il suo primo vino; una dice di averla stappata da poco e di essersi stupefatto trovandolo ancora perfetto).

Ancora, si apre senza problemi raccontando del perché delle vigne di cabernet (“negli anni ’90 lo volevano tutti”), della assurdità della moda con cui si insiste sulla solforosa, mentre magari si assaggiano in batteria 100 vini, e invece il vino è fatto per essere bevuto poco e durante i pasti, altrimenti fa male, e delle repentine conversioni al biologico di tanti colleghi, avvenute in cinque minuti, mentre lui per eliminare gli insetticidi ci ha messo anni.

Prima di congedarti, ti offre un bicchiere di bianco da uva Favorita che ha fatto per lui,  dice che lo ha lasciato in damigiana per 10 anni(!) (“continuava a fermentare, lo ho lasciato andare e poi l’ho dimenticato”) e lo ha imbottigliato da poco, dopo averlo portato ad analizzare per curiosità.
Ovviamente è meraviglioso: oro, aromatico, caldo, fresco, pieno, mi ricorda alcuni importanti friulani, e solo in questo momento, per un attimo, pensi che forse ti stia prendendo in giro, che non è possibile, e che forse ti ha ingannato con una recita ben architettata; poi lo vedi con quella faccia, dura ma gentile e tranquilla, e passa subito.

Comperi le tue due cassette di vino, paghi e te ne vai a pranzare, che è quasi l’una. Tornerai tra 10 minuti perché hai dimenticato la macchina fotografica: dovrai suonare a lungo e verrà ad aprirti in tuta da lavoro: “Come, non mangia?”. Risposta: “Eh, c’è da fare”.

Roddolo vigne 1Ah, I vini?
Fate voi, non ho certo tirato fuori il libricino per prendere appunti, mi sarei sentito oltremodo ridicolo e imbarazzato; ad ogni modo, sarà stata la suggestione della Langa e del personaggio, ma mi sono sembrati tutti speciali, dal Dolcetto superiore (senza dubbio il dolcetto più piacevole e particolare mai assaggiato, pur restando invidiabilmente austero), passando per la ricca freschezza della Barbera e per uno stupefacente Nebbiolo, sicuramente ben superiore a tanti Baroli rinomati e di ben altro prezzo, per finire con il Barolo (che, pur implorandoti di esser messo via per altri dieci anni, è già godibile fin d’ora) e con il Cabernet (di grande spessore e complessità, dal quale emerge un varietale netto ma non stucchevole).

La prima conclusione è che Roddolo non è un sofisticato gentiluomo di campagna o un vignaiolo furbamente affabulatore, semplicemente è un contadino che sembra davvero amante della sua campagna e che ci tiene a fare un buon vino, e l’unico metodo che considera adatto per produrre le sue ventimila bottiglie l’anno è quello che ha visto usare da suo padre.

La seconda conclusione è che confesso un leggero moto di imbarazzo nello scrivere queste righe: cosa c’è di più distante della moderna vanità di un blog personale dalla imperturbabile semplicità di un vignaiolo che ancora possiede un vecchio telefono, di quelli della SIP, grigi e con la rotella per selezionare i numeri?

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Monzinger Halenberg Spatlese 2007, Schäfer-Fröhlich

Schäfer-FröhlichDenominazione: Riesling Spatlese
Vino: Monzinger Halenberg
Azienda: Schäfer-Fröhlich
Anno: 2007
Prezzo: 25 euro

Ogni tanto non posso fare a meno di tornare a sorseggiare un vecchio amore: il riesling renano (qui la mia minimale guida alla classificazione), e questa volta in particolare lascio alcune righe su un vino proveniente dalla regione della Nahe, forse meno nota e prestigiosa rispetto alla blasonata Mosella.

Schäfer-Fröhlich produce dal 1800, ha circa 13 ettari di terreno e vinifica in acciaio.
Il vino assaggiato viene dalla vocata collina Halenberg nel comune di Monzinger, uno dei più antichi a tradizione vinicola della Nahe.

Colore paglierino lievemente tendente al dorato, di buona consistenza visiva.
Pur non essendo un millesimo particolarmente remoto, al naso già spiccano l’idrocarburo e il minerale (zolfo, pietra focaia, lieve affumicato), e fa capolino la mela, che stranamente non sembra particolarmente acerba, come spesso capita con i riesling, ma anzi piuttosto matura.
Non particolarmente complesso e forse neppure del tutto elegante (quello zolfo…), ma così curioso e divertente da costringere a continuare ad annusarlo.
In bocca entra pieno, denso, e tutto sommato anche leggermente caldo nonostante la gradazione assai limitata.

La dolcezza ricorda il sidro di mele, ma per fortuna si rincorre e si bilancia con il pizzicore della spiccata freschezza, rendendo il sorso un vero piacere, anche per la buona lunghezza.

Si beve benissimo già adesso, visto che i sentori particolari dei riesling invecchiati si sono già sviluppati, ma di certo c’è ancora spazio per farli crescere e affinarli nel tempo.

Soliti abbinamenti da riesling (antipasti e primi di pesce e crostacei), ma a me piace finirlo anche in solitaria.

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Vinitaly Vs Bloggers

In giro per l’angusto spazio della blogosfera enoica italiana, s’ode strepitare una polemica che pare sbuffo di tempesta in un bicchier d’acqua (o di vino?): i bloggers italici si indignano perché i cattivoni del Vinitaly non passano il biglietto di ingresso gratis alla loro categoria.
In ulteriore sfregio, il Sanremo del vino ha approntato una saletta e un pizzico di wifi per i “reputable foreign bloggers”, qualsiasi cosa essi siano.

E’ da poco tempo che bazzico in questo mondo, ma ogni anno sento questa litania del Vinitaly brutto e cattivo perché non capisce l’importanza degli scrittori non professionisti, perché non c’è la wireless libera e perché le celle telefoniche sono sovraccariche e non si riesce a postare la fotina della bottiglia o a mandare il tweet spiritoso in tempo reale.

Oggi come in passato, francamente il problema mi sfugge: se la fiera non abbraccia il formidabile valore aggiunto della comunicazione veicolata dai bloggers, beh, saranno un po’ cavoli degli organizzatori, se invece il problema è quello del prezzo di ingresso posso capire, ma allora benvenuti nel club: ci son tanti divertimenti dei quali mi piacerebbe godere ma che non posso permettermi, il Vinitaly non sarà né il primo né l’ultimo.

La doleanza della mancanza della wireless e delle celle sovraccariche la tralascio per carità di patria: sei in fiera a bere e a divertirti, se senti che la tua sopravvivenza è minata dal dover attendere il ritorno a casa per scrivere su Facebook che hai assaggiato un favoloso rosso dell’Etna, credo che forse la cosa ti abbia preso un po’ troppo la mano.

Poi, per carità, certo che sarebbe meglio entrare a gratis e avere banda a secchiate, ma insomma….

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Cheap Thrills n.3: Greco di Tufo, Cantine dell’Angelo

Saltellando tra Nord e Sud, dopo Alsazia e Sicilia, per Cheap Thrills è il momento di fermarsi in Campania.

Greco di TufoL’azienda Cantine dell’Angelo, situata, è facile intuirlo, a Tufo (provincia di Avellino), è condotta da Angelo Muto, la cui famiglia produce vino da diverse generazioni ma che solo recentemente ha deciso di vinificare in proprio, peraltro ottenendo subito soddisfazioni e riconoscimenti con il Greco di Tufo.

La particolarità dei cinque ettari di vigneto è di crescere a circa 400 metri di altezza (quindi subendo decise escursioni termiche) sul suolo di una vecchia miniera di zolfo, cosa che molto probabilmente incide in maniera evidente sul profilo sensoriale, nettamente minerale, delle circa 18.000 bottiglie di vino prodotte ogni anno; la raccolta delle uve è manuale, data la pendenza del terreno, e la vinificazione è effettuata in acciaio.

Denominazione: Greco di Tufo DOCG
Vino: Greco di Tufo
Azienda: Cantine dell’Angelo
Anno: 2010
Prezzo: 14,5 euro

Francesca

  Marco
L’assaggio di questo mese vede protagonista il Greco di Tufo Cantine dell’Angelo.

Nel bicchiere un bel giallo paglierino invita subito all’assaggio ed evoca il sole che abbraccia questi vigneti e la sua terra.
Al primo naso una nota minerale spicca per franchezza e intensità, va a completare il bouquet dei profumi non troppo ampio ma fine un piacevole sentore fruttato. La mineralità tipica del vitigno è sicuramente rafforzata dalla composizione del terreno che è particolarmente ricco di zolfo, e che fa sentire la sua presenza nel bicchiere declinando in profumi che vanno dalla pietra focaia all’idrocarburo.

All’assaggio mi rendo conto della buona struttura di questo Greco di Tufo. Equilibrio sensoriale ben tenuto tra sapidità e freschezza, ottima anche la pai (persistenza aromatica intensa) che non lascia la bocca prima di diversi secondi regalando un finale lungo.

La freschezza il buon equilibrio e la sapidità ne fanno un vino assolutamente tipico.

Nel bicchiere è bello da vedere, con un giallo paglierino quasi dorato, intenso, e di buona consistenza.
Al naso delude leggermente: è poco intenso e non particolarmente complesso: domina il minerale, anche lievemente affumicato, con fiore e frutto poco presenti; in fondo scorgo un leggero vegetale (erbaceo) non del tutto a registro.
Entra in bocca bene, pieno, caldo e decisamente sapido e all’assaggio emergono sensazioni pietrose e di pompelmo; purtroppo la parte centrale del sorso è un po’ vuota, come se le durezze non fossero supportate completamente dal corpo.
Si beve comunque con facilità, l’alcol è ben mascherato e il calore si amalgama convinto con sapidità e acidità, che restano decisamente preponderanti.
La chiusura è leggermente amarognola e il finale è abbastanza lungo: direi che nel complesso il sorso è intenso e piacevole.
Lo definirei tranquillamente pronto, anche perché un certo squilibrio verso le durezze (che, temo, col tempo potrebbero attenuarsi) è motivo della sua caratteristica piacevolezza.

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Oslavje 1997, Radikon: sapida naturalità

Denominazione: DOC Collio
Vino: Oslavje
Azienda: Radikon
Anno: 1997
Prezzo: 30 euro

radikonOggi che è di moda parlare di vino naturale, biologico, biodinamico eccetera, sorge il sospetto che molti produttori che si avvicinano a queste metodologie lo facciano non tanto per convinzione, quanto per il (legittimo, per carità) intento commerciale di cavalcare l’onda.
Di certo, quanto sopra non si può neppure lontanamente immaginare per una azienda come Radikon, che già dal 1995 ha deciso di radicalizzare il proprio metodo lavorativo sia in vigna che in cantina: ecco dunque il rifiuto di concimi chimici, rese bassissime nel vigneto, vendemmia manuale, fermentazione con soli lieviti autoctoni e senza controllo della temperatura, macerazioni molto lunghe (anche per i vini bianchi), nessuna filtrazione e nessuna aggiunta di solforosa; su questa base, Stanislao Radikon ha poi modificato e affinato il processo, ad esempio variando anche notevolmente il tempo di permanenza sulle bucce.

Ne risultano vini certamente particolari e senza compromessi, che se oggi, dopo anni di discussione e di allenamento ai “vini naturali”, possono forse essere compresi con relativa facilità, immagino dovessero essere un bel rebus per il consumatore di quindici anni fa.

Mi sono quindi approcciato con estrema curiosità a questo Oslavje 1997, un uvaggio di Pinot Grigio, Chardonnay e Sauvignon: in sostanza, ho bevuto un vino bianco vecchio di quindici anni, prodotto senza un grammo di solforosa aggiunta.

Ok, ma alla fine come è questo vino?
Visivamente, è giallo dorato quasi ambra, di una certa densità.
Olfattivamente trovo miele, fichi, frutta secca, smalto, vernice e una leggera volatile; certo ci sono grandi complessità e intensità. e gli aromi cambiano con il passare dei minuti, avvicinandosi ora più al terziario (etereo), ora più alla albicocca disidratata, e poi tirando fuori anche qualche timido accenno floreale e di incenso.

In bocca entra secchissimo, curiosamente liscio e fluido (mi aspettavo un sorso decisamente più pieno), poi avvolge con calore e spiazza: data la volatile avvertibile al naso immaginavo una forte acidità, mentre invece le parti dure sono date principalmente dalla enorme sapidità; scendendo in gola traccia con il calore, poi è lunghissimo e lascia salivare la bocca per minuti a causa della sapidità.

Alla fine, mi piace?
Sì, intriga e lascia la voglia di poter affrontare una verticale di varie annate, che immagino sarebbe interessantissima.
Posso parlare di un prodotto estremamente personale e sicuramente diverso dalla maggior parte delle bevute “normali”, che divide e spiazza, e che forse risulta “difficile” non tanto nella degustazione, quanto per la complessità di abbinamento: viene da pensare che si tratti di un vino da bere da solo, o al massimo da abbinare a formaggi stagionati.

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Chablis Chateau de Viviers 2011, Lupé Cholet

Denominazione: Chablis
Vino: Château de Viviers
Azienda: Lupé Cholet
Anno: 2011
Prezzo: circa 20 euro

Sarò telegrafico: conosco poco o nulla della azienda, se non quello che vedo sul sito (si dichiarano vendemmia meccanizzata e vinificazione in acciaio con controllo della temperatura).
Il vino lo avevo comperato questa estate in Borgogna dopo un assaggio particolarmente piacevole, soprattutto per me che non sono un grande conoscitore e amante dello Chablis.
Ne avevo prese due bottiglie, e quella bevuta qualche mese fa non mi aveva affatto soddisfatto; stasera ho riprovato con la seconda e anche stavolta ho seri dubbi.

Colore poco pronunciato, giallo molto tendente al verdolino, si sente però una certa consistenza facendolo roteare.
Olfattivo abbastanza intenso, citrino, di agrumi e di frutta acerba in genere, un tocco di anice e una percettibile mineralità (gesso?). Naso elegante, direi che è la fase migliore di questo vino.
Ingresso in bocca freschissimo, grazie ad acidità quasi tagliente, poi mineralità, ma in chiusura arriva un sentore verde (erba falciata) troppo percettibile.
Non male la lunghezza.

Alla bevuta odierna sembra un vino magari piacevole (se servito a bassa temperatura come aperitivo), ma decisamente troppo giovane, e la cosa è curiosa in quanto non si tratta di un 1er Cru o di un Grand Cru, ma di un prodotto tutto sommato abbastanza semplice, che il produttore stesso dichiara adatto ad un invecchiamento massimo di 3-5 anni.

Resta da capire cosa diavolo avessi sentito quando lo ho assaggiato in Francia…

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