Tenuta Grillo: Baccabianca 2006

Secondo assaggio per le bottiglie comperate durante la mia visita presso Tenuta Grillo.
Rimando al post precedente per le considerazioni generali e passo subito a raccontare il vino: stavolta si tratta del Baccabianca, un “orange wine” prodotto da Cortese in purezza, lieviti indigeni, senza filtrazione (e si vede) e con lunga macerazione (oltre un mese, mi pare di ricordare, e si vede e si sente).

BaccabiancaDenominazione: Vino da Tavola
Vino: Baccabianca
Azienda: Tenuta Grillo
Anno: 2006
Prezzo: 16 euro

“Orange”, dicevamo: ed in effetti è ambrato, leggermente velato, opalescente.
Portandolo al naso si avvertono una leggerissima volatile (ma è solo un cenno di freschezza), il caramello e una punta di ossidazione (ossidazione “nobile”, se mi è concesso, nel senso che non è fastidiosa, ma aggiunge complessità), accompagnati da floreale ed erbaceo così delicati da risultare inattesi in un vino dall’aspetto non certo gentile.

In bocca è estremamente intenso, ci sono calore, buona freschezza e sapidità, e si avverte una tannicità abbastanza rilevante per un vino bianco, per quanto macerato.
Buon corpo e finale lungo, ma un filo monocorde, come del resto un po’ tutta la bevuta di un vino sicuramente interessante, rustico ma piacevole da bere, cui manca forse uno spunto di dinamismo, di mutevolezza.

Data la struttura non banale e la stoffa non fine, consiglio un abbinamento con cibi non troppo delicati: nel mio caso ha funzionato bene con un vitello tonnato dalla salsa fin troppo “strong”. Raccomando di non servirlo freddo, in modo da non indurire il tannino.

Il bello: intensità di sapore, per nulla banale
Il meno bello: sorso un po’ monocorde

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Balter Brut: ottimo rapporto qualità prezzo

La denominazione Franciacorta goda di notorietà tanto superiore rispetto ad altre realtà spumantistiche italiane per vari motivi: i meri numeri (la quantità di bottiglie prodotte di fatto rende la DOCG lombarda “IL” metodo classico italiano), l’ottimo lavoro di comunicazione svolto dal Consorzio, la grande imprenditorialità delle aziende coinvolte e, certo, una qualità media di buon livello con punte di sicura eccellenza.

Resta il fatto che ci sono altre zone in Italia in cui si imbottiglia ottimo metodo classico, penso in particolare a Trento, che può vantare una ottima propensione territoriale per la produzione di questa tipologia e altrettanta tradizione (basti pensare alle storiche Cantine Ferrari).

Un produttore che non conoscevo e che è entrato recentemente nella mia enoteca di fiducia è Balter: 10 ettari su di una collina a 350 metri, accanto a Rovereto. L’azienda produce anche alcuni vini fermi bianchi e rossi ma è sicuramente più nota per gli spumanti, dei quali ho assaggiato il Brut “base” e la Riserva.
A seguire, le mie impressioni sul Brut, prodotto da sola uva Chardonnay raccolta manualmente e fermentata parte in acciaio e parte in piccole botti di rovere, con sboccatura dopo 36 mesi sui lieviti.

Denominazione: Trento DOC
Vino: Brut
Azienda: Balter
Anno: –
Prezzo: 15 euro

balterBello da vedere: giallo paglierino con accenni dorati, schiuma abbondante, bolla fitta, continua e molto fine.
Olfattivo lieve, non di grande complessità (agrume, fiori bianchi), ma sicuramente piacevole e fresco. Quando si scalda ho l’impressione di avvertire un leggero anice e anche una lontana eco del rovere.
In bocca la sensazione che risalta è l’equilibrio: il dosaggio si avverte ma non è fastidioso, la bolla è presente ma senza essere aggressiva. La freschezza è ottima, e il finale è di media lunghezza.

Direi che è un vino facile (“facile” nel senso buono del termine: può piacere sia all’appassionato più smaliziato che al bevitore occasionale), ma di qualità e dall’ottimo rapporto qualità/prezzo.

Indicato in retroetichetta l’anno di sboccatura (2012, in questo caso): bene, ma mi piacerebbe che fosse riportato anche il mese.

Il bello: grande equilibrio e ottimo prezzo
Il meno bello: poca complessità olfattiva

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XX Bitter: l’amaro originale

XX Bitter per me non è un nome, è una dichiarazione di intenti… è l’amaro originale.

Cerco di spiegare: un sacco di anni fa mi aggiravo tra i banchetti di un Italian Beer Festival ad Alessandria, ero un neo bevitore di birra artigianale con idee poche e molto confuse su stili e sapori e mentre camminavo venni accalappiato da quello strano nome di cui avevo solo sentito parlare.
Il tizio che mi stava riempiendo il calice, con aria ammiccante mi disse: “Ti piace l’amaro, eh?”, rivolgendosi a me come avrebbe fatto Mazzini ad un iscritto carbonaro.
Io, che la birra più amara che avessi bevuta all’epoca temo fosse una Chimay (figurarsi…), finsi di mostrarmi degno di tanta confidenzialità, tracannai e la mia vita (birraria, s’intende) cambiò per sempre.
Ricordo perfettamente che, nonostante la birra fosse gelata, ebbi una delle epifanie gustative più intense che avessi mai provato fino ad allora: mi fu chiaro in un istante che l’amaro, questo amaro, era buono e che rendeva più facile, meno stucchevole la bevuta.

Sono passati gli anni, l’amaro è diventato una moda per molti versi anche censurabile (chi, in certe manifestazioni, non ha sentito frasi ridicole del tipo “Dammi la più amara che hai”) che ha prodotto capolavori come anche grandi quantità di squilibrati mostri mutanti da milioni di IBU, imbevibili se non con il contagocce, ma la XX Bitter è ancora oggi un campione di eleganza a differenza di tante “pigne amare” più moderne, un riferimento per chi desidera una birra saporita con un pizzico di estremo ma senza esagerare e spendendo poco.

Birra: XX Bitter
Azienda: De Ranke
Stile di riferimento: Belgian Ale
Prezzo: 2,90 euro (33cl)

XX BitterNote varie: il birrificio De Ranke è nato a metà anni novanta dalla voglia di brassare luppolato dei due amici Guido Devos e Nino Bacelle, e in particolare la ricetta della XX Bitter (alta fermentazione, malto Pilsner e gran quantità di luppolo Brewers Gold e Hallertau)  è stata creata all’epoca per essere “la più amara del Belgio”, nazione fino ad allora non particolarmente interessata a produzioni così amare.
Il birrificio afferma di non ricorrere a filtrazione e pastorizzazione.

E’ già una festa quando la versi: una montagna di schiuma candida, fine, compatta che sovrasta il giallo  opalescente.
Il naso è pulitissimo, con l’erbaceo verde e fresco del luppolo, poi la speziatura, la pesca e un lievissimo accenno di caramello. Olfattivo fine e variegato, da non mortificare con temperature glaciali.
In bocca c’è un lieve attacco caramellato e poi arriva la botta di amaro, netta e resinosa, pulita e secca, estremamente intensa senza essere fastidiosa o tagliente.
La carbonatazione non è per nulla aggressiva, il corpo è medio, la secchezza esemplare e il sorso scorre veloce e facile. Il finale amaro è lunghissimo.

La trovo sempre una birra di ottimo livello, con molti dei pregi che preferisco: bevibilissima ma di grande personalità, e, da non trascurare, economicamente del tutto abbordabile.

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Vinidamare 2013: qualche breve cenno

vinidamareAl volo sull’ultima edizione di Vinidamare (siamo arrivati alla decima): non conosco i numeri, ma l’impressione, come per Slow Fish, è che la crisi si sia fatta sentire: ad occhio il numero dei partecipanti era sicuramente inferiore agli anni precedenti e tra gli assenti si notavano anche alcuni nomi di peso.

Peccato, perché se le precedenti edizioni avevano qualcosa da farsi perdonare sul piano organizzativo (ad esempio l’ultima, ospitata all’interno del Cenobio dei Dogi in spazi palesemente inadeguati al flusso dei visitatori, e la penultima, con gli espositori allineati lungo la passeggiata a mare, con i vini “uccisi” dal gran caldo), questa volta mi sembra che AIS abbia gestito nettamente meglio la situazione: la scelta del Portofino Kulm ha permesso di avere a disposizione una sala di dimensioni adeguate e buone possibilità di parcheggio, e il fatto di non essere in una zona di passaggio ha eliminato l’afflusso dei visitatori casuali, riducendo il numero delle presenze a numeri più gestibili.

Altri punti di merito: la consegna all’ingresso del libretto dei partecipanti e di una penna, buona scorta di pane ai banchi d’assaggio e servizio solerte nello svuotamento delle sputacchiere.

Nota di demerito: sul sito non ho trovato l’elenco dei produttori partecipanti. E’ una banalità che semplifica la vita al visitatore, permettendo di pianificare in anticipo il percorso di degustazione.

Tralascio i commenti sui vini: ho assaggiato poco e in fretta, ma a parte alcuni nomi importanti (per esempio Lambruschi), l’impressione generale non è stata entusiasmante, con molte bottiglie nettamente “puzzettose” (ma i produttori annusano quello che stappano, prima di servire?) e altrettante palesemente troppo giovani: francamente non mi sembra una grande idea portare in assaggio dei 2013 chiaramente non pronti…

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Saint Aubin 1er cru En Remilly 2007, Marc Colin et Fils

La Borgogna è lontana, chilometricamente ma anche e soprattutto economicamente: i prezzi dei grandi Pinot nero e Chardonnay sono quasi sempre inarrivabili per noi comuni mortali, e, perlomeno nella mia esperienza, talvolta capita che se si cerca di rovistare a casaccio nelle produzioni minori si finisca per incappare in solenni delusioni, spendendo comunque cifre non banali.

Non è il caso di questo Saint-Aubin (certo non regalato ma vivaddio ancora nel range delle umane possibilità) proveniente da Marc Colin ed Fils, azienda di buon nome che coltiva 19 ettari e produce una vasta gamma di denominazioni, molte delle quali di gran prestigio.

Le circa 14000 bottiglie con questa etichetta sono prodotte con uve provenienti da viti piantate dal 1970 al 1990 su suolo argilloso-calcareo esposto a Sud-Ovest, con vinificazione e successivo affinamento effettuati in fusti di rovere.
Il vigneto è considerato il più prestigioso di Saint Aubin, anche perché una parte di esso prosegue a Sud-Ovest nella più rinomata denominazione Chassagne-Montrachet.

Denominazione: Saint-Aubin
Vino: En Remilly 1èr cru
Azienda: Domaine Marc Colin et Fils
Anno: 2007
Prezzo: 35 euro

Saint AubinVisivamente molto giovane, giallo paglierino con riflessi verdolini, ma la parte più interessante è l’olfattivo intenso ed estremamente particolare, con un gran buquet di fiori, in particolare la ginestra, ma ci sono mille sfaccettature fini, e una distinta mineralità che con i minuti evolve in speziatura. Da perderci le ore annusando, tanto è cangiante.

Il sorso è tesissimo, con acidità alle stelle  e sapidità direttamente in scia, ma l’intensità del gusto e il buon calore riescono a bilanciare le sensazioni, rendendolo facile da bere, quasi senza far notare di avere davanti un vino di notevole importanza.
C’è lunghezza, ma non infinita.

Ancora giovane, ma è un gran bel bere nonostante sia ancora orientato alle durezze: di certo posso lo immagino fantastico in un paio di anni da ora.

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… e gli inglesi fanno un po’ quel ca**o che gli pare. Norme minime di abbinamento cibo-vino: introduzione

abbinamentoIn questi tempi di mille trasmissioni tv sulla cucina e di infinite pubblicazioni, corsi e blog riferiti a tutto lo scibile dell’umanamente edibile, in questa epoca in cui tutti siamo esperti nell’analisi organolettica dei fermentati d’uva e di malto, la faccenda del corretto abbinamento cibo-vino per molti appassionati assume ancora i contorni fumosi del culto neopagano, con tanto di sapienti druidi capaci di dispensare vaticini, inappellabili e ponderosi come un menhir, a fronte delle ingenue richieste di neofiti e spaesati adepti…

Grazie alla ricostruzione del colloquio Adepto-Sapiente, oltre al raggiungimento di vette di illuminazione degne dell’esperienza di un solstizio d’estate a Stonehenge, possiamo anche identificare la categoria druidica di appartenenza di questo ultimo:

– Adepto: “Supremo Cathbad, cosa ci bevo con un risotto al radicchio sfilacciato, cubetti di aringa affumicata, riduzione di sugo di cottura di maiale in agrodolce e spolverata di cacao amaro e zenzero?”.

– Druido della casta dei Lacoonici: “Romanee Conti Grands Echezeaux 1989”.
– Druido della casta dei Verbosi: “Per bilanciare la tendenza dolce del riso e del maiale serve un vino di ottima spalla acida e sapidità, ma che abbia anche notevole intensità e persistenza gusto-olfattiva in modo da tener testa alla aromaticità dello zenzero e alla forza del cacao amaro. Da non dimenticare, una certa morbidezza per mitigare la affumicatura”.

– Adepto: “Supremo Cathbad, rendo grazia della tua illuminazione. Ce piazzo ‘na latta de Fanta”.

Più seriamente, è vero che esistono svariate teorie sul corretto abbinamento, dalla più semplice (“pesce con bianco, carne con rosso”), alla simil meccanica quantistica del famigerato Metodo Mercadini, vero e proprio totem dell’AIS, che sarà oggetto della seconda parte di questa dotta trattazione.
Senza farla troppo lunga, nella prossima puntata, cercheremo di illustrare alcune delle metodologie più note.

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Tornasole 2004, Tenuta Grillo

Avevo assaggiato qualcosa di Tenuta Grillo in varie manifestazione ma non avevo mai approfondito granché, così, visto che ero in zona, il mese scorso ho visitato la cantina in modo da avere una panoramica più completa dei vini proposti.

Prima di descrivere il Tornasole, qualche accenno sulla azienda. Dopo qualche difficoltà di orientamento (ragazzi, inserite un Google Maps sul sito, please…), sono stato ricevuto dalla gentilissima Igea, torinese, co-titolare della azienda e moglie di Guido Zampaglione, campano emigrato al nord per cercare un territorio adatto alla sua idea di vino, territorio finalmente trovato in 32 ettari (di cui 17 vitati) a Gamalero, vicino ad Alessandria.

La filosofia aziendale, chiaramente influenzata dal maestro di Guido, quel Giulio Armani direttore di produzione de La Stoppa e lui stesso vigneron (Denavolo), è improntata al movimento dei cosiddetti “vini naturali” (minimo interventismo in vigna e in cantina, macerazioni, lunghi invecchiamenti, no alla solforosa eccetera), e lavora un territorio pianeggiante e sabbioso, situato a circa 200 metri di altitudine.

Tornasole

Denominazione: Vino da Tavola
Vino: Tornasole
Azienda: Tenuta Grillo
Anno: 2004
Prezzo: ? (comperato in azienda assieme ad altre bottiglie, dovrebbe essere sui 15 euro ma potrei sbagliare)

Abbastanza curiosa la scelta di coltivare e vinificare il Merlot, visto che normalmente i pasdaran del naturalismo rifuggono i vitigni internazionali come la peste, ma a me la scelta mette simpatia per il suo andare controcorrente.

Colore rubino ben vivo e concentrato, con l’unghia che vira addirittura ad accenni porpora: grande dimostrazione di giovinezza per un 2004. Accenno di riduzione all’apertura, che fortunatamente svanisce dopo qualche minuto, lasciando spazio ad un olfattivo intensamente dominato da una volatile francamente al limite (e lo dice uno a cui solitamente non disturba…), tanto da coprire i più canonici descrittori di frutta rossa matura e sotto spirito. Un naso che da principio sembra vivace, ma poi non evolve e resta abbastanza monocorde.

In bocca è secco, caldo e morbido, con una buona spinta acida e un tannino leggermente sfocato. C’è corpo, e il vino risulta decisamente pieno e polposo, intenso e anche equilibrato; chiusura non troppo lunga e con un accenno amaro, che mi ricorda il caffè, un po’ fuori posto. Sicuramente meglio in bocca che al naso, dà l’idea di poter migliorare con ulteriore invecchiamento.

Quanto sopra è il resoconto del giorno in cui è stato stappato; a sorpresa, ma forse neppure troppo, il giorno seguente si la nota volatile sembra meno invadente, cresce il frutto e fa capolino qualche accenno di speziatura. In parole povere, migliora nettamente.

Degno di elogio l’uscire sul mercato oggi con un 2004 ad un prezzo decisamente abbordabile, considerato il lungo affinamento.

Il mio giudizio personale è quello di una discreta bottiglia, che vorrebbe essere estremamente personale (come si usa dire oggi con una frase che odio cordialmente, “interpretando il terroir”), ma manca proprio proprio nell’intento della unicità, a causa del relativo appiattimento dell’olfattivo.

Questa perplessità su una relativa mancanza di identità dei vini la riscontrerò più o meno anche nelle altre tipologie prodotte e di cui conto di scrivere in seguito, mano a mano che berrò quanto comperato: in generale, stappi e pensi che si tratta di un vino naturale ed è molto riconoscibile la mano di Armani (intesa come scuola); il mio timore è che la metodologia produttiva utilizzata per sfuggire alla omologazione dei tanti vini “perfetti” e “comuni”, risulti in questo caso estremamente (troppo?) caratterizzante.

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Slowfish 2013: impressioni di sfuggita

Alla fine ci sono andato, a Slowfish 2013. Per una serie di casini personali pensavo di non farcela, ma visto che avevo prenotato un Master of Food (diobuono, ma un nome meno pomposo non riescono proprio a inventarselo? C’è quasi da vergognarsi a ddirlo: “Dove vai?”, “Eh, c’ho un Master of Food…”, “Mavaff…”), mi sono ritagliato una mattinata.

Nuova ubicazione (area del Porto Antico invece che la Fiera del Mare), e conseguenti ingresso libero (bene!) e mancato tetto sopra la testa in caso di maltempo (male, ma fortunatamente non ha piovuto).
Ho avuto l’impressione di un minor numero di espositori rispetto all’ultima volta, ma potrei essere stato ingannato dalla ampiezza dell’area; di sicuro la crisi si è fatta sentire: una vocina mi ha detto che il prezzo richiesto agli espositori per uno stand è diminuito, e anche la scelta di non far pagare il biglietto ai visitatori immagino sia dovuta a questo…

Ho fatto un giro veloce, quindi butto giù poche note e pure confuse.
Il famigerato Master of Food conferma le bieche impressioni di collusione Petrini-Farinetti, infatti viene tenuto in una delle aule corso di Eataly. Nulla di nuovo, per carità, è ben noto che Slow Food e Eataly collaborino su vari progetti, ma francamente mi pare che la liason stia andando troppo oltre e che gli obbiettivi prettamente commerciali di Eataly (seppure ammantati di etica) facciano fatica a quagliare dignitosamente con le linee guida di Slow Food.
Ad ogni modo, il Master of Food è organizzato con precisione teutonica: la lezione è ripresa con una telecamera in modo da mostrare i dettagli su due grandi schermi, permettendo una visuale chiara a tutti i corsisti, ogni partecipante ha la sua postazione dignitosamente spaziosa e con tutto il necessario e viene anche omaggiato (oltre che di taccuino e matita) di due bei libri sull’argomento. A fine lezione, si mangia quanto preparato e si esce felici.

Il rapido giro per l’area espositiva è un mix di sensazioni: ci sono gli stand educativi su vari argomenti, e c’è anche tanto mercato (che poi, diciamocelo, è quello che interessa la massa dei visitatori), talvolta anche poco in tema con l’argomento (un esempio? Il venditore di olive ascolane lo vedo sia a Cheese che qui… che ci azzecca?), ma alla fine è sempre bello cazzeggiare tra i cibi, assaggiando un sacco di cose buone e facendo qualche parola con i produttori.

Spendo una riga per gli amici di Maltus Faber, che non vedevo da tempo e che erano presenti, oltre che con le “solite” Blond Hop e Bianca (pulitissime e piacevolissime), con un nuovo prodotto, una Sweet Stout da neppure quattro gradi che gioca tutta sulle finezze (di tostatura, di luppolatura, di carbonatazione; anche il corpo, spesso robusto in questa tipologia, è ben bilanciato) e che mi è sembrata una ottima session beer. Sarà disponibile solo in fusto, e spero di riassaggiarla a breve con più calma, con un bicchiere di vetro al posto della orrida pinta in plastica imposta in queste manifestazioni.

Nota di demerito per l’Enoteca. A parte qualche bottiglia presente in elenco ma in realtà non pervenuta, il prezzo degli assaggi è davvero eccessivo (bicchieri da 3, 4 o 5 buoni, ciascun buono costa 1 euro, in più occorre aggiungere il solito costo del calice), in particolare tenendo conto che non c’è uno grissino disponibile, che non ho visto acqua per pulire la bocca tra un assaggio e l’altro e che non siamo in una vera enoteca (non c’è servizio al tavolo e i posti a sedere sono abbastanza pochi, perlomeno a certe ore del giorno).

Appuntamento a settembre per Cheese!

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Viaggio in Andalusia: piccola guida allo Sherry

Fortificazione e metodo Solera sono due delle caratteristiche che rendono particolare lo Sherry, un vino forse poco conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati: per questo, in occasione di una degustazione presso la solita Cantina du Pusu (e perché no, anche per riprendere in mano e in mente lezioni e appunti del corso AIS) ho deciso di creare la mia piccola guida Bignami-syle.

Il nome del vino (Sherry nei paesi inglesi, Xérès in Francia, Jerez in Spagna) prende evidentemente spunto dalla geografia: siamo a in Jerez, Andalusia, nel Sud-Ovest della Spagna, dalle parti di Cadice, dove pare che la vite sia stata portata dai Fenici per poi essere coltivata dai Romani allo scopo di produrre vini da importare a Roma; più tardi gli Arabi introdurranno nella zona l’alambicco per la distillazione, che avrà importanza per il processo di fortificazione.
Saranno poi i mercanti Inglesi ad appassionarsi così tanto alla tipologia (analogamente a quanto accaduto con altri vini fortificati) da arrivare a fondare in loco aziende di produzione.

Il clima è molto caldo: in media 300 giorni di sole l’anno con punte di 40 gradi, ma a portare sollievo ci pensano i venti oceanici e la caratteristica del terreno di assorbire acqua. Il suolo è calcareo-gessoso, e il più vocato, chiamato Albariza, ha una quantità tale di gesso da risultare quasi bianco.
Le tre tipologie di uve coltivate sono Palomino (la più importante, usata principalmente per i vini secchi), Pedro Ximénez e Muscatel, e vengono raccolte spesso con leggero appassimento per poi essere vinificate in acciaio o cemento, ottenendo un normale vino bianco di circa 12 gradi che il produttore, a seconda delle caratteristiche organolettiche, deciderà se destinare alla categoria Fino oppure Oloroso.

Il processo produttivo a questo punto prevede la fortificazione, cioè la aggiunta di un distillato di vino che blocca la fermentazione: nel caso dei Fino, la fortificazione porta il vino a 15 gradi, mentre per gli Oloroso si arriva a 18 gradi.

Effettuata la fortificazione, il vino viene fatto maturare per almeno tre anni in botti da 500 litri riempite per i soli cinque sesti e lasciate parzialmente aperte: è il metodo Solera y Criadera, che ha lo scopo di permettere una qualità costante nelle varie annate. Le botti sono disposte in strati, da cinque fino a quattordici, a seconda della tipologia di Sherry che si vuole ottenere, ciascuno chiamato criadera.
Lo strato più vicino al suolo, detto solera, è quello dal quale viene prelevata la parte di vino (dal cinque al trenta per cento) da imbottigliare e commercializzare. Il vino prelevato viene rimpiazzato da una analoga quantità proveniente dalla criadera superiore e così via, fino ad arrivare allo strato più in alto, nel quale si immette vino nuovo.

Dicevamo che la fortificazione prevede il raggiungimento di differenti gradazioni: la distinzione non è banale, perché, nel caso di superamento dei 16 gradi alcolici, sulla superficie del vino (che, lo ricordiamo, riposa in botti di legno non del tutto colme e non completamente sigillate) non avviene la formazione di un velo di microorganismi chiamato flor, che lo isola parzialmente dall’ossigeno, rallentandone l’ossidazione e modificandone la composizione.
La formazione o meno della flor è quindi l’elemento distintivo di differenziazione tra le le due tipologie di Sherry: Fino (vini secchi, freschi, di colore chiaro e aromi delicati, da bere giovani e da consumare in fretta una volta aperta la bottiglia) o Oloroso (vini secchi o dolci, di colore più scuro, di maggiore invecchiamento, struttura e robustezza e con aromi di frutta secca. Poiché hanno subito affinamento ossidativo, non hanno necessità di rapido consumo dopo l’apertura).

Generalmente si consiglia il consumo dei Fino e Manzanilla come aperitivo o con antipasti, servito molto fresco, mentre gli Amontillado e Oloroso secchi vengono usati come antipasto, con frutta secca e olive, o abbinati a preparazioni di pesce strutturate e carni.
Le tipologie dolci possono accompagnare formaggi erborinati o stagionati, dolci o foie gras; il Pedro Ximénez, data la sua struttura e densità, è un vino da sorseggiare da solo o con dolci impegnativi di cioccolata.

Classificazione Sherry di categoria Fino
Tipo Caratteristiche Gradi alcolici Zuccheri
g/l
Manzanilla Prodotto a Salúcar de Barrameda: flor e clima particolari conferiscono particolare sapidità e sapore più delicato rispetto ai Fino 15-17 0-5
Fino Più robusto e con gusto più deciso rispetto al Manzanilla. Può essere dolclificato con l’aggiunta di mosto dolce, creando la tipologia Pale Cream (15,5-22 gradi, 45-115 g/l) 15-17 0-5
Amontillado Più chiaro di un Fino ma più scuro di un Oloroso. Si parte da un Fino cui si spezza il velo di flor naturalmente o tramite una ulteriore fortificazione. Per questo scurisce e acquista sentori di frutta secca. Possono essere dolcificati, prendendo la denominazione Medium (15-22 gradi, 5-115 g/l)  16-17 0-5

 

Classificazione Sherry di categoria Oloroso
Tipo Caratteristiche Gradi alcolici Zuccheri
g/l
Oloroso Sono prodotti senza intervento della flor, quindi ossidati, molto scuri e ricchi di aromi tostati. Alcol e struttura superiori ai Fino. Naturalmente secchi, se dolcificati danno vita ad altre tipologie. 17-22 0-5
Cream Si tratta di Oloroso dolcificati tramite blending con altri vini, ad esempio Pedro Ximénez. Hanno aromi di frutta secca e cioccolato. 15,5-22 115-140
Pedro Ximénez Prodotto con l’omonima uva lasciata appassire, è lo Sherry più denso, scuro e strutturato. Viene usato anche come taglio dolcificante di altri Oloroso.  15-22 >212

Esiste anche il Palo Cortado (17-22 gradi, 0-5 g/l zuccheri), uno stile raro che fa categoria a sé, presentando caratteristiche ibride tra un Fino e un Oloroso. Si tratta di un Fino o un Amontillado che, dopo tre o quattro anni di invecchiamento, sviluppa struttura e concentrazione da Oloroso a seguito della rottura della flor.

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Cheap Thrills n.4: Soave Classico Calvarino 2010, Pieropan

Quarto appuntamento con i vini di Cheap Thrills e si risale lo Stivale fino ad arrivare in provincia di Verona, per assaggiare uno dei Soave Classico più noti, quello prodotto dalla azienda Pieropan.

La zona di Soave presenta un interessante terreno di origine vulcanica su cui si coltiva principalmente Garganega (da utilizzare almeno al 70%, secondo disciplinare, con eventuali saldi di Chardonnay e Trebbiano), un vitigno che recentemente è stato oggetto di grande rivalutazione da parte di molti vigneron della “nuova ondata naturale” (Maule, ad esempio), che lo vinificano con macerazione sulle bucce più o meno intensa.

calvarino

Il Soave è una di quelle denominazioni “storiche” un po’ trascurate dagli appassionati, forse a causa di una qualità media non eccelsa in passato; a questa relativa dimenticanza Pieropan (39 ettari che producono circa 380.000 bottiglie ogni anno) si oppone con una tradizione centenaria, una costante ricerca della qualità e ben tre versioni di Soave Classico, il vino simbolo della azienda: una più semplice e giovane e due crus, Calvarino e La Rocca.

Oggi assaggiamo il Calvarino, che deriva il nome dal “piccolo Calvario” del terreno difficile e tortuoso.
I dati tecnici: terreno vulcanico a 200/300 metri di altitudine, ricco di basalti e tufo; allevamento a pergola con viti di età da 30 a 60 anni e raccolta manuale. Fermentazione in vasche di cemento vetrificato con temperatura controllata, poi maturazione sempre in vetrocemento.

Denominazione: Soave Classico DOC
Vino: Calvarino
Azienda: Pieropan
Anno: 2010
Prezzo: 15 euro

Francesca

Marco

Ho scelto questa bottiglia dietro consiglio di Giovanni il nostro (mio e di Marco) “cantiniere” di fiducia e grande conoscitore di vini.

Quando mi ha proposto il Soave ho pensato che effettivamente era da  tempo che non ne assaggiavo uno, e che non si trova nella lista dei miei preferiti ma il panorama vinicolo è davvero molto vasto, principalmente per tutte le variazioni che dipendono dall’intervento del produttore e dall’impronta che decide di voler dare al proprio prodotto.

Ho quindi deciso  che sarebbe stato il protagonista di questo nostro appuntamento.

Il giallo paglierino di questo Soave ha ancora riflessi verdolini che indicano un vino ancora giovane, l’anno riportato in etichetta è il 2010.

I profumi sono delicati e ricordano il ciliegio e in generale la famiglia dei fiori bianchi dando al vino una nota leggermente dolciastra al naso.

L’entrata è piacevole, buona la sapidità e la freschezza, mi sento di premiare di più il gusto rispetto all’olfatto che forse è un po’ limitato. Unica nota spiacevole una leggera e appena accennata rifermentazione in bottiglia che sparisce al secondo sorso.

Mi mette di buonumore già dalla bottiglia renana, che mi ricorda i rielsing. Il colore ha pure lui accenni nordici, con un paglierino bello brillante ed accenni dorati.

L’ofattivo non è né intenso né troppo complesso, ma estremamente delicato ed elegante: sento fiori bianchi freschi, l’agrume (ananas) e un tocco minerale.

In bocca entra pieno, ricco, caldo e abbastanza morbido; freschezza e sapidità ci sono, in particolare l’acidità è robusta, ma senza essere predominante come mi sarei aspettato date giovinezza e colore, quindi l’equilibrio è davvero perfetto.
Sorso piacevole e facile nonostante il calore (che avrei detto superiore ai 12,5 dichiarati), con un amarognolo finale appena accennato e una volta tanto piacevole, che serve a pulire la bocca e a riprendere a bere. Finale lungo.

In conclusione: un vino apparentemente semplice ma ben fatto, che si beve in maniera contagiosa, e che definirei duttile nell’abbinamento, dall’aperitivo al pesce, dalle torte di verdura ai dai risotti.

Partivo senza aspettative a causa della limitatissima frequentazione con i Soave, e sono stato piacevolmente sorpreso. Molto meglio in bocca, mentre l’olfattivo è un poco sacrificato.

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