Roederer Brut Premier

Tra le grandi maison di Champagne, Roederer può vantare un particolare che la rende estremamente moderna: se storicamente era uso comperare l’uva per poi occuparsi solo della fase di vinificazione e affinamento, già a metà del diciannovesimo secolo Louis Roederer decide di acquistare i vigneti che ritiene migliori, in modo da controllare in prima persona tutto il processo produttivo.

Crescendo di generazione in generazione, la maison è arrivata oggi a possedere circa 240 ettari nel cuore della Champagne, tra Montagne de Reims, Vallée de la Marne e Côte des Blancs, tutti classificati Grands o Premiers Cru e ad avere a catalogo una vasta gamma di prodotti, dal demi sec Carte Blanche al Brut Nature millesimato, dal Vintage al Rosé, passando per un Blanc de Blancs, fino a quello che è ormai (suo malgrado) un simbolo del lusso ostentato e un po’ cafone, il Cristal.

Non sono purtroppo vini per tutti i portafogli, tantomeno il mio, quindi è giocoforza parlare del più accessibile del listino: il Brut Premier, classico assemblaggio di 40% di Pinot Nero, 40% di Chardonnay e 20% di Pinot Meunier, con uve provenienti da vari appezzamenti vinificate in legno, e poi affinato da tre anni di permanenza sui lieviti.
Al corpo del vino ricavato da un millesimo principale viene aggiunto il 10% di vini di riserva di altre annate, in modo da assicurare carattere e corpo predefiniti.

L’apertura non è piacevole, ennesimo caso di questi mesi di un tappo non perfetto: lungi dall’essere un bel fungo allargato alla base, il cilindro resta di diametro troppo uniforme. Un po’ di esperienza mi dice che spesso i vini spumanti che presentano una chiusura di questo tipo non sono al top, ed infatti troverò una bottiglia certamente non difettosa ma meno piacevole di una analoga provata nei mesi scorsi.

roedererDenominazione: Champagne
Vino: Brut Premier
Azienda: Roederer
Anno: –
Prezzo: 40 euro

L’aspetto manco a dirlo è da manuale, oro pallido con bolle sottilissime e numerose. Il naso tradisce un’anima morbida e dagli aromi sono banditi il fruttato aggrumato o il minerale; trovo qualche cenno floreale ma poi arriva prepotente la speziatura. E’ scongiurato il rischio “vaniglione”, perché il complesso è comunque assai delicato. Dopo un’ora si apre e si arricchisce ulteriormente, in particolare con note di glicine.

In bocca è molto classico e conferma quello che l’olfatto aveva evidenziato: la bolla delicatissima (forse anche troppo), qualche agrume sottotraccia e poi una decisa morbidezza che denota un certo dosaggio (non ho dati ufficiali, ma ad occhio siamo sui 10 g/l) e l’evidente passaggio in legno; per fortuna arrivano a bilanciare il sorso l’acidità di buon livello, il corpo prepotente e una lunghezza rimarchevole.

Si nota la maestria della costruzione: il bicchiere si ferma un millimetro prima della esagerazione e riesce a non essere stucchevole, dando vita ad un vino sicuramente da abbinamento, troppo opulento per il semplice aperitivo.

Il codice riportato in etichetta e inserito sul sito parla di una cuvée 2009, imbottigliata nel 2010 e sboccata nel 2012, quindi forse un po’ troppo “avanti” per un brut base?
Certo, lo ricordavo migliore, mi resta il dubbio di una bottiglia non al meglio magari a causa del tappo, ma a questi livelli di prezzo francamente mi aspetto sempre l’eccellenza.

Piccola nota: capirei se il sito riportasse note più esaustive, ma qualcuno mi spieghi il senso del dover andare su internet e inserire il codice per vedere due-dati-due… bastava aggiungerli in etichetta e si evitava la scocciatura… Boh.

Il bello: corpo, stuttura, classcità del sorso

Il meno bello: un po’ troppo opulento. dosaggio avvertibile

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Vinnatur in Borsa!

In effetti è proprio nello storico Palazzo della Borsa di Genova che, dopo due anni a Sestri Levante, Vinnatur ha deciso di ospitare la sua annuale rassegna ligure.

Palazzo della Borsa GenovaNon conosco i motivi dello spostamento (sebbene qualcosa alle orecchie sia arrivato non mi piace riportare voci di corridoio), ma di certo la nuova sede unisce grande effetto estetico a comodità e spazio: siamo nel pieno centro di Genova, in un maestoso edificio in stile liberty edificato ad inizio XX secolo, con parcheggi (a pagamento) a portata di mano, e a cinque minuti dalla stazione.

Come per il passato non si può non elogiare l’organizzazione di Vinnatur: ai banchi degli espositori non mancano mai pane e acqua, i ragazzi dell’alberghiero si prodigano nello svuotare le sputacchiere e c’è, a pagamento, il benedetto guardaroba (in inverno è davvero noioso girare per banchetti con giacche e cappelli in una mano e bicchiere e penna nell’altra).
L’unico consiglio che mi sento di dare per migliorare ulteriormente: sarebbe bello un catalogo dei produttori un pochino più corposo, con la mappa, il dettaglio dei vini e un piccolo spazio per gli appunti.

vinnaturLe impressioni generali: ho la sensazione che il numero degli espositori sia diminuito, ma forse è l’effetto della maggiore metratura dello spazio espositivo; di sicuro sono molto minori i banchi relativi al cibo.

Per quanto riguarda i vini, avendo poco tempo mi sono preso l’impegno di dedicarmi quasi esclusivamente ad aziende che non conoscevo (a parte qualche ri-assaggio “goloso” di nomi che gradisco particolarmente) e qui iniziano le note meno positive: la media non è stata entusiasmante, tra bicchieri decisamente troppo giovani, qualche volatile un po’ troppo evidente, molti sorsi “corti” e varie altre rusticità.
Forse era la mia giornata sfavorevole, forse sta cambiando il mio approccio a certe tipologie di vino, ma le mie sensazioni hanno avuto pieno riscontro anche dalle quattro chiacchiere scambiate con alcuni amici incontrati.

vinnaturMi limito a segnalare brevemente quello che mi ha colpito favorevolmente: davvero interessante il Carignan del Domaine Vinci, vitigno e zona (il Roussillon) da me sempre trascurati; bene tutti i prodotti della azienda Radoar (se ricordo bene dalla Valle Isarco), con evidenza particolare ad un Kerner morbido e piacione senza essere stancante; una scoperta i Fiano de Il Don Chisciotte: macerazioni senza esasperazione che regalano complessità e gusto, mai prevaricando il vitigno; davvero godibilissime le selezioni Zanovello di Cà Lustra (Colli Euganei), in particolare ‘A Cengia (Moscato bianco e Fior d’arancio) e Girapoggio (C. Sauvignon e Carmenere).
Menzione a parte per la conferma assoluta Camillo Donati: i suoi rifermentati in bottiglia (tutti) hanno non una ma due marce in più rispetto agli altri assaggiati e possiedono il raro dono di una bevibilità assassina…

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Timorasso Costa del Vento 2004, Massa

Troppo noioso riprendere per l’ennesima volta la storia di Walter Massa da Monleale, che a metà degli anni ottanta ha preso un vitigno a bacca bianca, dalla maturazione piuttosto precoce e dalla resa “difficile”, quasi dimenticato (spesso in favore del più produttivo Cortese) e poco considerato, e con il solo aiuto della sua caparbietà lo ha fatto diventare uno dei più importanti d’Italia.

Parliamo ovviamente del Timorasso, un autoctono dei colli Tortonesi, trasfigurato dall’istrionico e lunatico Massa (e chi ha avuto modo di scambiare con lui qualche parola può confermare gli aggettivi) in un vino dal grande potenziale di invecchiamento, di ottima personalità, di robusta struttura e alcolicità.
Non solo, Massa ha pensato anche di omaggiare maggiore dignità alle sue bottiglie declinandole in una versione “base”, Derthona, e in ben due cru, Sterpi e Costa del Vento.

E allora partiamo con l’assaggio, ma non senza prima aver notato la brutta apertura: il tappo è molto secco, rigido, non elastico. Temo il peggio, e alla luce di tre o quattro stappature infelici negli ultimi mesi non posso non pensare che quando la finiremo col sughero sarà sempre troppo tardi…

Costa del VentoDenominazione: Colli Tortonesi
Vino: Costa del Vento
Azienda: Walter Massa
Anno: 2004
Prezzo: 35 euro

Nel bicchiere è giallo dorato, luminoso e compatto, con archetti fitti e profondi che lasciano intuire grande materia.
Da questo momento in poi partono due racconti di due vini diversi: la bevuta si è infatti completata in due serate: nella prima il Costa del Vento ha naso da campione, con netti richiami ad idrocarburi nobili da riesling renano frammisti a cera d’api e frutta matura: persino troppo intenso.

Purtroppo in bocca, accanto ad una notevole struttura, ad un bel calore alcolico e ad una notevole lunghezza, i richiami aromatici percepiti olfattivamente sono accompagnati da una nota ossidativa e passita piuttosto invadente che rende la bevuta stancante dopo pochi sorsi. Imputo la colpa al tappo, smoccolo e attendo la seconda serata.

Il giorno seguente i profumi si sono calmati, in particolare la nota idrocarburica resta molto più sottotraccia, lasciando spazio persino ad un tocco di floreale ma in particolare ad erbe aromatiche.
In bocca la fastidiosa ossidazione si è molto riassorbita ed è emersa una sapidità che accompagna bene il calore, in un connubio quasi bruciante.
Restano evidenti la grassezza e la possenza del sorso.

Il vino si è accomodato, nel bello e nel brutto: la nota distonica è quasi scomparsa ma il complesso naso-bocca si è molto normalizzato, affievolendo quella esuberante terziarizzazzione che lo trascinava prepotentemente fuori dagli schemi.
A questo punto è evidente che vorrei riprovare una seconda bottiglia dello stesso millesimo…

Il bello: vino di gran forza e materia

Il meno bello: enigmatico nei suoi camaleontici due giorni così diversi

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Solo Uva

Mia colpa certamente, ma non mi sono del tutto chiari gli intenti del progetto TerraUomoCielo: sul sito si dice testualmente che “segue dalla produzione fino alla vendita, aziende agricole produttrici di vino”.
Non capisco se si tratta di un protocollo commercial-agro-enologico che i partecipanti si impegnano a seguire, se c’è un aspetto consulenziale che entra in campo, o se più semplicemente si tratta di una sorta di mission, di unità di vedute, delle aziende protagoniste.
Di certo la denominazione racchiude una manciata di (piccoli) produttori, principalmente franciacortini: Camossi, Colline della Stella, Arcari&Dainesi, Ferdinando Principiano (per quanto riguarda la spumantistica) e Solo Uva.

solouvaDenominazione: Franciacorta DOCG
Vino: Brut
Azienda: Azienda Agricola Solo Uva
Anno: –
Prezzo: 22 euro

E’ proprio a firma di questo ultimo marchio (l’Azienda Agricola Solo Uva) il prodotto che ho assaggiato in questi giorni. Andrea Rudelli gestisce un ettaro e mezzo a Chardonnay ad Erbusco, dal quale ricava 10.000 bottiglie di una sola tipologia di metodo classico dalle caratteristiche tecniche piuttosto particolari: la fermentazione viene bloccata (grazie al freddo) nel momento in cui il mosto ha ancora gli zuccheri residui necessari ad ottenere la sovrapressione in atmosfere e i gradi alcolici richiesti.
A questo punto, per la rifermentazione in bottiglia, si aggiungono solo i lieviti (sui quali ci sarà un riposo di 30 mesi) e non è necessario nessun “liquore di tiraggio”; ovvia conseguenza, la scelta di non aggiungere dosaggio prima della messa in commercio.

Ne deriva un prodotto che ha l’ambizione di sfruttare la capacità tecnica di gestire il metodo classico in modo innovativo al fine di ottenere un vino spumante il più naturale possibile, da uve raccolte nella piena maturità fenolica e senza zucchero aggiunto in alcuna fase.

Questi gli intenti, ma quali sono i risultati nel bicchiere?
Il vino è dorato con qualche ricordo verdolino e con bolla perfetta per copiosità e finezza.
Se c’è una volta in cui si può sfoderare senza tema di smentita il classico “floreale e fruttato” è questo: al naso sono ricordi di fiore primaverile e di frutta piuttosto intensi, cui si aggiunge una traccia di caramella inglese. Il tutto risulta molto giovane e fresco senza tracce di lieviti e di legni.
La somma finale è un po’ eccessiva: piacevole ma poco complessa e un tantino “gridata”.

Il sorso è educato, nel corpo come nella bolla ma anche nella freschezza e sapidità, che in verità risultano lievemente latitanti: manca un po’ di mordente, il vino è piacevole ma poco verticale, sembra un po’ seduto pur senza denunciare dolcezze poco consone ad un metodo classico (che peraltro mi pare dichiari soli 2 grammi/litro di zuccheri residui). Nessun finale amaro e lunghezza discreta.
In etichetta sono indicate raccolta 2012 e sboccatura 2014.

Vino piacevolmente “diverso”, da riprovare più avanti: a mio modesto avviso il produttore ha margini per mettere meglio a punto il processo e ottenere risultati ancora più centrati;
al momento il bicchiere è in mezzo al guado, indeciso tra un prodotto semplice, ricco di aromi e indicato come aperitivo e qualcosa di più ambizioso, per il quale mancano sicuramente un po’ di grinta e magari anche una po’ di struttura e di complessità gusto-olfattiva.

Il bello: piacevole semplicità fruttata e floreale

Il meno bello: manca un po’ di grinta

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Terzavia De Bartoli

Dopo essere rimasto fortemente impressionato dal Grappoli del Grillo,  essendo un super appassionato di bollicine non potevo non dare una nuova chance al metodo classico di casa De Bartoli, il Terzavia.
Parlo di nuova possibilità perché ne avevo fatto un assaggio lo scorso anno senza restarne particolarmente impressionato, trovandolo un po’ pesante e monocorde: altro millesimo, altra bottiglia, ritentiamo.

Qualche dato tecnico: Terzavia in quanto terza modalità espressiva del Grillo, dopo il Marsala e il vino bianco fermo; solo 11.000 bottiglie prodotte da uva Grillo in purezza, raccolta manuale e pressatura soffice a temperatura controllata, fermentazione tramite lieviti autoctoni, prima in acciaio e poi in rovere.
Il tiraggio è ottenuto con la semplice aggiunta della corretta percentuale di mosto fresco, poi almeno 18 mesi in bottiglia sui lieviti e quindi la sboccatura e la messa in commercio senza dosaggio. Annata 2011 e sboccatura 2014.

terzaviaDenominazione: VSDQ
Vino: Terzavia
Azienda: Marco De Bartoli
Anno: 2011
Prezzo: 22 euro

Nel bicchiere è oro pallido, con bolla sottilissima, forse non particolarmente numerosa; accarezza con bella continuità e di certo non aggredisce, con classe.

I profumi sono quasi da vino aromatico, si avverte una certa evoluzione, fiori gialli e frutta matura e poi fanno capolino la pera caramellata e la confettura; in sottofondo richiami minerali salmastri.
Sarà la suggestione, ma ho l’impressione di riconoscere qualche eco de i Grappoli del Grillo assaggiato recentemente.

Ingresso che quasi subito riempie il palato con i medesimi richiami alla frutta matura e con una bella sapidità. decisa. Buon corpo, nessun amaro finale o accesso di acidità nonostante il dosaggio zero. Finale di interessante persistenza.

Una interessante via meridionale al metodo classico: non potendo contare su terreni, clima e vitigni tradizionalmente vocati alla spumantizzazione, si sceglie un approccio nuovo che riesce a coniugare la forza della viticoltura del sud con la agilità indispensabile ad un metodo classico.

Di certo un vino gastronomico, non lo vedo come classico aperitivo, semmai come ottimo compagno di preparazioni marine strutturate (tonno, pesce spada accomodati).

Il bello: vino di interessante personalità

Il meno bello: da consumare in abbinamento a cibi, non lo vedo come la tipica bolla da aperitivo

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Champagne Oeil de Perdrix, Jean Vesselle

Che succede quando il tuo spacciatore di alcol di fiducia si procura nuove bottiglie bollicinose di piccoli produttori francesi, classificati come RM?

Ovvio: le provi una alla volta, perlomeno quelle economicamente abbordabili, possibilmente senza prima informarti su blog, siti aziendali e modernerie varie, in modo da non rovinarti la sorpresa.

Quindi via alla cieca: non conosco nulla del produttore, tantomeno del vino che andrò ad assaggiare: esiste qualcosa di più divertente?

Lo stappo e inizia lo stupore: si nota una inusuale sfumatura ambrata, delicata, un accenno di buccia di cipolla; ma accidenti, in etichetta non si parla di rosé (e difatti la tinta è troppo debole per ricadere nella tipologia)…
Temo il difetto, ma il tappo è a postissimo e il naso non rivela alcun allarme, così come l’assaggio.

Vado finalmente a sbirciare sul sito e mentre scrivo il nome mi viene un sospetto: vuoi vedere che lo hanno chiamato in questo modo proprio per la tinta? Ovvio che è così: il nome deriva dalla sfumatura colorata, donata dalla pressatura dell’uva nera (per la cronaca: pinot nero 100% e dovevo aspettarmelo, visto che siamo a Bouzy, tradizionalmente “capoluogo” di questo vitigno nella regione dello Champagne).

E’ proprio online che il produttore racconta la storia, chissà quanto vera, di questo vino come di un recupero della tradizione.
Non ho modo di verificare, ma per sommi capi si dice che agli inizi del ventesimo secolo, nella zona in questione,  tutti i vini ottenuti da pinot nero avevano una sfumatura ambrata e per questo erano chiamati “occhio di pernice”.
Sarebbero state poi le grandi maison a decidere che gli champagne dovessero ricadere nelle tipologia “blanc” o “rosé” e non in qualcosa di intermedio, ma la cancellazione del cenno rosato avrebbe anche eliminato parte di aromi, tanto che Jean Vesselle,nel 1972, dopo aver ritrovato murate in cantina alcune bottiglie vinificate alla maniera tradizionale, sarebbe rimasto così colpito dal colore e dalla pienezza degli aromi da decidere di riprendere la produzione con questa modalità.

Oeil de Perdrix, Jean VesselleDenominazione: Champagne BRut
Vino: Oeil de Perdrix
Azienda: Jean Vesselle
Anno: –
Prezzo: 30 euro

Detto del colore, proseguiamo con una bolla estremamente copiosa, ma che non aggredisce grazie alla sua finezza. Il naso richiama principalmente la frutta: agrume, mandarino e qualche accenno ai canonici (per il vitigno) piccoli frutti rossi, poi una leggera scia di corteccia bagnata. Nel complesso, buona l’intensità, anche se il tutto è magari un po’ semplice.

L’assaggio è equilibrato, l’acidità c’è senza strafare, mitigata dal dosaggio garbato (6 g/l). Il finale non è lunghissimo e presenta un minimo accenno amaro (che il giorno seguente mi sembra scomparso o che perlomeno avverto molto meno) che non impreziosisce la bevuta.

Sgomberiamo il campo: non siamo di fronte ad un capolavoro, ma sicuramente si tratta di un buon vino, oltretutto capace di fare “storia a sé”, incuriosendo per la sua tipologia peculiare.

Il bello: bel colore, bevuta semplice e gradevole

Il meno bello: nulla che spicchi particolarmente

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Grappoli del Grillo 2012, De Bartoli

Bisogna essere sinceri, sennò che stiamo a fare qui?

Frequento colpevolmente poco il sud Italia enoico, forse per lontananza geografica, forse per reperibilità dei vini, forse per affinità di tipologie, e della azienda De Bartoli so giusto quel che sanno tutti: al tempo della sua scomparsa ho letto della passione di Marco De Bartoli, delle sue battaglie per il Marsala, del suo recupero del Grillo… ma alle spalle ho pochi assaggi.

La sostanza è comunque che il vino di oggi è uno di quelli che mi convince di quanto errata sia la mia consuetudine: questa è una di quelle bottiglie che ti fanno sbattono in faccia quel che ti stai perdendo.

Grappoli del grilloDenominazione: Grillo Sicilia DOC
Vino: Grappoli del grillo
Azienda: Marco De Bartoli
Anno: 2012
Prezzo: 23 euro

Marco De Bartoli ha deciso di produrre il suo primo vino bianco nel 1990, usando un uva bistrattata e fino ad allora impiegata quasi solo per il Marsala, quindi Grillo in purezza raccolto nella Contrada Sampieri, a Marsala, con basse rese e severa selezione manuale. Fermentazione realizzata con lieviti autoctoni e temperatura controllata, inizialmente in acciaio e poi in rovere francese (del tutto inavvertibile sia olfattivamente che all’assaggio) per dodici mesi, usando la tecnica del bâtonnage.

Lo vedi di un bel giallo paglierino-dorato, di buona consistenza, e ti aspetti sentori caldi, magari mielati, ma appena metti le narici sopra al bicchiere ecco che si materializza lo spettro della tanto abusata mineralità di cui tutti straparlano… Arriva diretto un vagone di gesso (lo so che il gesso non ha odore, ma per qualche motivo il cervello accende questa immagine), condito con un filo di cera d’api, a sovrastare una struttura aggrumata (pompelmo?) decisa e fresca, condita da sensazioni di fiori di campo.
Non solleveresti più il nasone dal vetro, tanto è sfaccettato e piacevole.

Poi in bocca: riempie rapido il cavo orale: c’è acidità e torna nettissimo il pompelmo “mineralizzato”, ma è la sapidità a spiccare, tanto che brucia quasi le mucose.  Non puoi definirlo equilibrato, ma come fai a non riempire (e a non svuotare) nuovamente il bicchiere?

Difficilmente spendo il termine “territoriale”, che per me vuol dire davvero poco (magari una volta ne parleremo), ma un sorso così salino non può non rimandare la mente a località marine; oltretutto la lunga chiusura, dopo il bel ritorno del frutto, palesa un accenno di macchia mediterranea, in cui una volta tanto un filo di amaro (ma è davvero un flash) ha un senso piacevole, evitando di diventare appendice fastidiosa.

Territoriale, dicevamo, ma felicemente bifronte: certo, non c’è quella carica alcolica, e glicerica che ti aspetti da un vino siciliano (poi però vai a controllare in etichetta e scopri che sono 13,5 gradi, e ti chiedi come diavolo facciano ad essere così ben mascherati!), ma la luminosità e la sapidità teletrasportano su coste soleggiate e sferzate dal vento che solleva schizzi di salmastro.

Il bello: bevibilità pazzesca, ottenuta senza sacrificare l’importanza del vino.

Il meno bello: per quanto la bevuta sia stata ottima, il millesimo era recentissimo: sono certo valga la pena provare qualche bottiglia decennale.

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Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 2001, Cantine Ferrari

Riepilogando: sono un appassionato di vini bianchi, in particolare di Metodo Classico, e non ho pregiudizi rispetto a quanto metto nel bicchiere (perlomeno cerco di non averne); detto questo, o forse proprio per questo, trovo abbastanza stucchevole la cantilena secondo la quale non sarebbe possibile confrontare Champagne e Franciacorta, Tranto DOC e Oltrepò Pavese…

Certo, terreno e latitudine non hanno nulla in comune, per non parlare dei numeri e dell’esperienza di coloro che il vino lo fanno, ma io sono un consumatore, non un enologo o uno storico, e valuto quello che tracanno.
Mi pare abbastanza ovvio che il “modello di riferimento” di tutti (quasi) coloro che producono Metodo Classico sia lo Champagne, e che la prova di assaggio evidenzi enormi somiglianze tra vini creati con questa metodologia (e vorrei vedere… la tecnica e i vitigni impiegati sono i medesimi, e in questo caso la tecnica conta eccome: gli spumanti sono vini estremamente “costruiti”).

Quanto sopra per giustificare il fatto che, nonostante la vulgata corrente lo ritenga una bestemmia, quando assaggio un Metodo Classico italiano mi abbandono per un attimo ad una piccola astrazione mentale, cercando di riportare quello che ho nel bicchiere alla terra di Francia, zona Reims, cedendo alla tentazione del paragone con Champagne di prezzo analogo.

Nel mio personale (modestissimo) cartellino, gli italiani si difendono bene sino ad una certa fascia di prezzo (diciamo spannometricamente fino ai 30 / 40 euro?), aiutati dall’handicap dei costi di importazione francesi. Oltre quella soglia, temo che molto spesso i cugini dalla erre moscia abbiano la meglio.

Certo, ci sono casi e casi,  e quello di oggi è uno di quelli in cui un Metodo Classico italiano di prezzo importante riesce a ottimamente figurare accanto a bottiglie transalpine comparabili.

La mia esperienza con “il Giulio” ha anche un aneddoto curioso: agli albori della mia frequentazione col mondo del vino mi ritrovai ad una degustazione, presenti molti nomi importanti; mi fiondai subito sulle bolle (ovvio), e il primo o il secondo vino della giornata fu proprio la Riserva del Fondatore. Tutti gli altri spumanti in degustazione impallidirono al confronto e la cosa mi impressionò decisamente.
Mi è poi capitato di assaggiarlo altre volte, e di farne fuori un paio di bottiglie di diverse annate, e mai sono stato deluso… certo, il prezzo…

Giulio-Ferrari-Riserva-del-Fondatore-2001Denominazione: Trento DOC
Vino: Riserva del Fondatore
Azienda: Cantine Ferrari
Anno: 2001
Prezzo: 60 euro

Poche note tecniche: chardonnay al 100% dal vigneto Maso Pianizza, 500 metri sul livello del mare esposti a sud-sud/ovest, circondato da boschi; raccolta manuale, fermentazione in acciaio e ben dieci anni di affinamento. Tecnicamente possiamo parlare di un extra-brut (il dosaggio lo porta a meno di 6 grammi/litro di residuo).

Poco da dire su un prodotto del genere: è una crema dorata,  di un brillante perfetto, con bollicine ideali per sottigliezza e lucentezza. Lo spettro olfattivo non è esplosivo, ma non è questo quello che cerchiamo in un Metodo Classico: importa che la finezza e la complessità siano encomiabili: fiori, agrumi, panetteria, accompagnati da una sottesa nota di vaniglia e di affumicato.

Il sorso è pieno, ricco, succoso… soprattutto è magnifico l’equilibrio che nasconde l’alcol, che bilancia perfettamente sapidità e acidità e che rende la bevuta sontuosa ma allo stesso tempo agilissima.

Vino ideale a tutto pasto, ma anche come aperitivo o come bevuta solitaria, difficile trovargli un ambito non consono (giusto i dolci, dai!).

Il bello: lo bevi come vuoi e con cosa vuoi: non puoi sbagliare
Il meno bello: le prix, ça va sans dire

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Si ricomincia…

Accadono eventi,  capitano cose, ci sono dei passaggi…

A volte la vita è complessa e le priorità neppure prevedono un posto in scaletta per amenità come lo scrivere di vini.

Però, quando il momento lo consente nuovamente, è piacevole riprendere in mano la penna accanto al bicchiere.

Bentornati: si ricomincia.

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Albarola 2012, Santa Caterina

Mica si vive sempre di nomi roboanti o di marchi cosiddetti “prestigiosi”… Anzi, spesso la maggior soddisfazione arriva dal metter mano a piccoli gioielli poco noti, come nel caso di questa Albarola precisa e puntuale, prodotta da un vero Signore come Andrea Kihlgren.
Signore con la “S” maiuscola, perché l’unica volta che mi è capitato di incontrarlo e di discutere con lui tale si è dimostrato: pacato, preciso, metodico, esauriente e comunicativo.

Caratteristiche che sembrano rivivere nella sue bottiglie, discrete dall’etichetta fino al contenuto, scevre da facili effetti speciali, sobrie ma eleganti e ricche… Ecco questo lavorare bene e sottotraccia mi sembra un po’ il filo conduttore della produzione vinicola dei 7 ettari di Santa Caterina, situata vicino a Sarzana.

Denominazione: Colli di Luni DOC
Vino: Albarola
Azienda: Santa Caterina
Anno: 2012
Prezzo: 11 euro

Quindi questa Albarola in purezza?
E’ un bianco macerativo senza alcuna inclinazione alle ossidazioni e agli estremismi di certi “orange wines”, pur concedendo dagli otto ai quindici giorni sulle bucce, e infatti l’aspetto visivo racconta un giallo dorato di live opalescenza, mentre al naso si avverte un bel misto di fiori di campo e camomilla, con un accenno balsamico delizioso, di bella intensità e complessità.

L’ingresso è garbato, accompagnato da una bella pienezza centrale di sorso, sorretta soprattutto da sapidità in bella evidenza.
Il finale concede un lieve amaricante pulito, per una lunghezza non memorabile ma dignitosa.

Quindi un bel vino, umile e dotato di ottima personalità e facilità di bevuta,  credo anche molto versatile in abbinamento.

Il bello: facile ma non banale, bello spettro olfattivo
Il meno bello: non lunghissimo

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