Eataly Genova: in picchiata (verso il mare?)

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L’immagine che si fissa subito in mente quando si sale per la prima volta da Eataly Genova è la straordinaria veduta del porto che si gode nei pochi secondi di ascensore in vetro panoramico necessari ad arrivare all’ingresso: una ascesa sul mare e le navi, magari al tramonto, decisamente invitante e poetica.

Quanto sopra era accaduto alla mia prima visita, poco dopo l’apertura, e resta vero anche adesso. Peccato invece che le perplessità iniziali non si siano dissolte, anzi, se ne siano aggiunte di nuove.

eatalyPremesso che questo inverno ho avuto forse la migliore cena dell’anno proprio al Marin, il ristorante “serio” di Eataly (e, causa pigrizia, ho colpevolmente omesso di scriverne), e permesso che il costo di un pasto al Marin non è banale, capita che talvolta ci scappi un piatto in uno dei cosiddetti “ristorantini tematici”.

Se la prima volta che sono stato da Eataly avevo trovato il personale non all’altezza delle pretese di qualità del luogo e ne davo la colpa alla recente apertura, alla sempre troppo citata “necessità di rodaggio”, a questo punto non è più possibile nascondersi dietro ad un dito: nei famigerati “ristorantini” i ragazzi che servono e che prendono le ordinazioni non sono adeguatamente istruiti.

Già devi sorbirti di fare l’ordinazione in maniera più abominevole che alle sagre di paese: ti ammazzi per trovare un tavolo libero (che è piccolo, troppo: con due piatti, due calici, il pane, olio e pepe hai tutto in un equilibrio precario come la salute di coloro che guardano la tv pomeridiana), lo occupi mandando uno solo del gruppo a far la fila a più di una cassa (non puoi ordinare il pesce dove fanno la carne ecc.)…
Se aggiungi che la ragazza cui detti la comanda non conosce i vini che ha in carta e devi farle vedere quello che ordini puntando il dito sul menu altrimenti ti guarda attonita, se prosegui che comunque ti portano il vino sbagliato, che dimenticano di portarti il pane, che la mozzarella di bufala (indicata in carta “con olio extravergine di oliva e sale”) è appunto senza olio e sale ed è ghiacciata dentro e che quando fai presente che mancano i condimenti ti rispondono che “Facciamo così, in modo che il cliente possa scegliere”….
Se aggiungi che naturalmente pochi dei ragazzi parlano le lingue, e di conseguenza ho visto discussioni banalmente risolvibili in un battito di ciglia degenerare in infinite, esilaranti pantomime degne di un film di Totò, ecco, se assieme a tutte queste cose aggiungi i prezzi da oreficeria e il fatto che la decantata qualità ormai prevede ad esempio la vendita di articoli di pregio come la birra Peroni, ecco che all’uscita, durante la meravigliosa discesa in ascensore, in picchiata verso il blu del mare incendiato dal rosso del sole, qualche dubbio di essere preso per il culo inizia ad invaderti prepotentemente.

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Champion Grand Cru Blanc de Blancs, 2004

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Ancora una volta bolle, ancora una volta Champagne, stavolta prodotto da un vigneron di stanza a Chouilly, nella Côte des Blanc: Roland Champion.
La famiglia Champion vinifica da tre generazioni e coltiva 18 ettari ricavandone circa 80-90.000 bottiglie suddivise in varie tipologie, tra le quali questo Grand Cru millesimato (un classico Blanc de Blancs, quindi 100% Chardonnay con disaggio di 6 grammi per litro e ben otto anni di affinamento sui lieviti) è una delle eccellenze.

championDenominazione: Champagne
Vino: Grand Cru Blanc de Blancs 2004
Azienda: Roland Champion
Anno: 2004
Prezzo: 31 euro

Bel colore giallo paglierino con ancora vibranti riflessi verdolini, certamente non si direbbe un vino con nove anni sulle spalle. Il perlage è finissimo, continuo e molto abbondante.
L’olfattivo è intenso, ricco, con evidenti richiami di panificazione, nocciolina, burro e poi fiori bianchi, anice e un accenno lievissimo ed elegante di mielato-ossidato.

In bocca la bolla si conferma fine ma ben viva e cremosa.
L’acidità è stellare e la sapidità quasi al medesimo livello; è intenso, coerente con quanto evidenziato all’olfattivo, entra potente e poi si conferma con una buona lunghezza.

Bella bevuta, l’unico difetto è una certa monotonia in bocca, manca la progressione che conduce alla complessità, lo scatto finale: chissà se su questo fronte possa migliorare attendendolo ancora? Infondo la struttura c’è…

Il bello: Grandi acidità e sapidità, buon olfattivo
Il meno bello: Manca l’evoluzione, si avverte una certa fissità/monotonia al gusto-olfattivo

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Ferrari Riserva Lunelli 2002

Una avvertenza agli eventuali pauperisti bio-tutto in ascolto: oggi non parlo del vino biodinamico dell’agricoltore eroico, poeticamente sfigato, che possiede mezzo ettaro abbarbicato su un crinale con pendenza al 50%, e neppure del risultato di una minuscola particella di terroir vinificata senza solforosa e senza controllo della temperatura… piuttosto racconto l’assaggio di uno dei prodotti industriali di una cantina che da tempo immemorabile sforna milioni di bottiglie l’anno.

Ma andiamo per ordine: parliamo di Ferrari, un nome talmente simbolico per la spumantistica italiana che si potrebbe azzardare equivalente a Trento Doc; in realtà il parallelo sarebbe addirittura riduttivo nei confronti della storica “maison”, che per numeri e popolarità surclassa il resto della denominazione.
Sono stato un anno e mezzo fa in cantina (se vogliamo chiamare così uno stabilimento enorme, che accosta molta grandeur a qualche angolo un pochino datato), e la visita è stata come la immaginavo: professionalmente asettica e dimenticabile.

Ferrari è tutta una gamma di metodo classico, dal “Brut” da supermercato, tipicamente e tragicamente consumato in abbinamento al dolce durante le feste, fino al sontuoso (nel gusto e nel prezzo) “Giulio Ferrari”, passando persino per un inusuale Demi-Sec; un gradino sotto al prestigioso “Giulio” è posizionato il “Riserva Lunelli” di cui scrivo oggi.

Riserva Lunelli

Denominazione: Trento DOC
Vino: Riserva Lunelli
Azienda: Cantine Ferrari
Anno: 2002
Prezzo: 35 euro

Il solito sguardo veloce sui dati tecnici: raccolta manuale di Chardonnay del millesimo 2002 dal vigneto di proprietà Villa Margon, fermentazione in legno e sette anni di affinamento sui lieviti. La bottiglia in mio possesso aveva sboccatura datata 2009.

Tornando alla introduzione: è un vino costruito? Sì, certo, eccome,  ecchissenegrega!
E’ dorato, lucente, con un olfattivo intenso e ricco di panificazione, frutta matura, nocciole tostate. Si sente il legno, sicuramente, ma è un legno che esalta il vino, non lo sotterra, forse perché ha avuto tutto il tempo necessario ad amalgamarsi.
Avendo pazienza di attendere esce uno chardonnay che mi ricorda persino qualcosa di borgognone.

In bocca la bolla quasi non esiste per quanto è fine e cremosa; l’equilibrio è invidiabile e le durezze notevoli (in particolare una sapidità che avvolge) sono ben bilanciate dalla dolcezza del legno e da un corpo sicuramente presente.
Il sorso è pulitissimo e mai stancante, entra sontuoso, continua pieno e finisce lungo, senza alcun residuo appiccicoso o stucchevole e senza alcuna chiusura amara, anzi, al retro-olfattivo traspare perfino un tocco balsamico.

Quando ho comperato la bottiglia avevo qualche timore a causa della sboccatura datata, in realtà non ho trovato nessun segno di stanchezza, anzi avrei voglia di prenderne un paio ancora da lasciare in cantina per vedere dove possono arrivare nel giro di qualche anno.

E’ un vino sontuoso, forse anche troppo: una fusione di burro, nocciole e alcol che però riesce a mantenere adeguata la tensione; se bevuto da solo capisco che alla lunga possa stancare, e forse non è adatto a preparazioni delicatissime, ma pasteggiando credo abbia pochi rivali.

Il bello: L’equilibrio, la lunghezza, la complessità
Il meno bello: Una certa opulenza che non lo rende adatto ad ogni occasione

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